CHIUNQUE TU SIA. PREGHIERA DI UN CERCATORE DI DIO - QUADERNO N° 13 DEL CAFFE' FILOSOFICO - AUTORE: PIERO CARELLI

15.12.2014 21:00

A tutti coloro per i quali

il problema-Dio conta ancora

 

La tredicesima pubblicazione del Caffè Filosofico è una gemma dalle molte sfaccettature. Si tratta in primo luogo di una «confessione» articolata che attesta un cammino personale, ma «tutti coloro per i quali il problema-Dio conta ancora» riconosceranno molti dei propri stessi travagli. È un lavoro introspettivo e appassionato, ma anche documentato e rigoroso. Al di là del dichiarato agnosticismo, fallirebbe il lettore che volesse etichettare gli orientamenti dell’autore: la ricerca non è condotta con l’intento di giustificare posizioni preconcette e non prestabilisce l’approdo, nella libertà delle migliori imprese filosofiche.

(Luca Lunardi)

 

Se Carelli è malato di filosofia, ossia del desiderio di non cessare mai e poi mai di stupirsi, di interrogarsi sul senso della vita, né di cercare la verità, la sua malattia è altamente contagiosa, e la lettura non lascia indifferenti. Non c’è cura né guarigione. C’è travaglio lungo e doloroso per questa “divina mania” che ci calamita verso il bello, il giusto, il temperante, il vero, come nel Fedro platonico, facendoci innamorare.

[…] È un discorso che non resta scritto solo sulla carta, ma che si iscrive nell’intimo di chi ascolta: non puro esercizio retorico, privo di frutto, ma discorso che porta seme, dal quale potranno nascere anche in altri uomini, come scrive Platone nel Fedro, “altri discorsi, che siano capaci di rendere questo seme immortale e che facciano felice chi lo possiede, nella misura più grande che all’uomo sia possibile”

(Patrizia de Capua). 

 

Una preghiera sincera, appassionata. La confessione di un tormento che mi ha accompagnato a lungo e grazie al quale ho intrapreso l’avventura spirituale più significativa della mia vita. Il cammino di un’anima alla ricerca di un Dio perduto. Il senso del breve testo che ti sottopongo è tutto qui. Un’esperienza individuale, niente di più. Non so se possa essere utile in qualche misura anche a te. […]

Magari hai voglia di rischiare e sei consapevole del prezzo che comporta il metterti in discussione.

Se così fossi, la mia avventura potrebbe, forse, stimolarti a metterti in cammino.

È a te e a quei pochi che ritengono valga ancora la pena interrogarsi sul «problema dei problemi» che mi rivolgo.

(Piero Carelli)




CONTRIBUTI DEL BLOG CITTADINO "CREMASCOLTA"

https://www.cremascolta.it/index.php?option=com_zoo&task=item&item_id=888&Itemid=101

Dibattito

Data: 17.12.2014

Autore: Luca Lunardi

Oggetto: Contributo per un percorso alternativo

«A tutti coloro per i quali il problema-Dio conta ancora».

«Ancora». La parola farebbe intendere che quel problema sarebbe ormai superato per i più, archiviato dalla secolarizzazione. Materia di interesse puramente accademico.

Si tratta di un «problema»? Se è tale, dovrebbe essere perlomeno suscettibile di una soluzione. Per indagare ciò che si ritiene una situazione problematica, occorre usare degli strumenti. In questo caso, è lo stesso Carelli a chiarire quali dovrebbero essere, dal suo punto di vista, le armi da usare per attaccare quel problema: sono in primo luogo (ma non solo) quelle della ragione. «Non sono mai riuscito a liberarmi dalla tentazione di capire e di ricercare delle motivazioni “ragionevoli” per credere».
Carelli usa la parola “ragionevole”. Non “razionale”, e nemmeno “razionalista”. Si tratterebbe dunque di una sfumatura aperta ad altre istanze dello spirito, e Carelli ne elenca in effetti alcune (il “cuore”, l’”ascolto”, lo stesso dare del «tu» a Dio).

Ma procediamo con ordine.
Quali potrebbero essere quelle motivazioni ragionevoli?

Si tratta forse di evidenza chiara e distinta, materiale per esercitare la ratio secondo i canoni che stanno alla radice della modernità? La risposta è senz'altro negativa. Dio sfugge a quelle reti, e i metodi sono inadeguati all'oggetto, se applicati in quella forma.

È una ragione geometrica e necessitante? Dio è in tutto e tutto in Dio? Vengono i brividi. Carelli conosce molto bene Spinoza, ma ne è influenzato più per la sua critica dei testi sacri, che per la sua metafisica gelida e per il suo Dio tanto immanente quanto disinteressato e, in ultima istanza, perfettamente superfluo.

È una scommessa davvero “ragionevole”, quella di quel contemporaneo di Descartes, che in effetti rinuncia completamente a “pensare” Dio se non con il “cuore”? È un approccio possibile, ma lascia il problema del tutto aperto, dissolvendolo in una esperienza mistica e radicalmente soggettiva.

Cosa ci insegnano, oggi, i “distruttori dell’immaginario religioso” che dall’età moderna hanno usato le armi del dubbio, quando non della negazione? Hanno fatto opera meritoria, per Carelli: ci insegnano a guardare l’oggetto del nostro problema da tutte le angolature, sgombrando il campo da possibili distorsioni, senza per questo dire una parola definitiva né sulla esistenza, né sulla non esistenza.

Si tratta di una nostra proiezione, come vuole Feuerbach? Può darsi, ma nulla è concluso sulla reale esistenza di quella proiezione. Viene semplicemente negata, aprioristicamente.
Si tratta di una nostra consolazione, come vuole Marx? Può darsi, ma nulla è concluso sulla reale esistenza di ciò che dona quella consolazione. Viene semplicemente negata, aprioristicamente.
Si tratta di una nostra illusione, come vuole Freud (o Dawkins)? Può darsi, ma nulla è concluso sulla reale esistenza dell’oggetto di quella illusione. Viene semplicemente negata, aprioristicamente.
Si tratta di un nostro idolo, come vuole Nietzsche? Può darsi, ma quanto ci ha convinto, quel folle, coi suoi aforismi profetici totalmente alieni da qualunque argomentazione che possa dirsi tale? Che si tratti di un idolo viene dato per acquisito, aprioristicamente.

Carelli percorre le vie della scienza.
Basti l’esempio estremo. È davvero accettabile una conclusione al limite del nonsenso come quella di Hawking, che vuole il big bang innescato da una mera fluttuazione quantistica? È sufficiente constatare che persino nel vuoto particelle elementari fanno la loro comparsa e si annichilano spontaneamente, per concludere che la complessità può emergere dall’infinitamente piccolo, l’essere dal nulla, che la realtà tutta si dia la pena di esistere, fino a quell’assurdità energetica che è la vita? La scienza ha qualcosa da risolvere del nostro problema, o per sua essenza i territori del senso e dell’origine metafisica le sono radicalmente preclusi? «No, non credo che la scienza riesca a smantellarti», scrive giustamente Carelli.

Carelli percorre le vie dell’esegesi dei testi e della critica storica.
«La casa brucia», egli scrive, specie per quelli neotestamentari (dove «l’incendio divampa di più»). Il suo percorso sembra concedere moltissimo a un paradigma pregiudizialmente demitizzante. Ma il rischio è quello di buttare via il bambin Gesù con l’acqua sporca. Impossibile non andare alla scuola di Bultmann, che oltre la sua larga influenza è ormai oltrepassata da programmi di ricerca che non tacciono affatto delle rielaborazioni dei primissimi cristiani, ma riportano la critica su un terreno che attesta la sostanziale coerenza e credibilità storica fondamentale di quei documenti. Carelli fa molti esempi, ma sembra che la lettera debba sempre prevalere sullo spirito - quando cita eventi evangelici che hanno un indubitabile significato metaforico – mentre declassa ugualmente altri elementi che invece i contributi meno iconoclasti ma più sereni e completi nel giudizio sono in grado di confermare. Un giudizio che oggi non si esime dall’utilizzare tutti gli strumenti che lo storico ha a disposizione, in un approccio multidisciplinare che comprende perfino le scienze “dure” accanto all’esame dei soli testi, senza tralasciare nessuna disciplina rilevante. La conclusione ingannevole secondo la quale non vi sia nulla da dire sulla storicità di quanto narrato dai Vangeli è stata già superata, ed è possibile distinguere i materiali attribuibili più o meno direttamente a Gesù dalle aggiunte posteriori (di quanto posteriori, è un problema in sé); da un altro versante, avvalendosi delle conoscenze del contesto palestinese guadagnate anche per via archeologica, è possibile inquadrare i testi, le loro vicende e Gesù stesso nel giudaismo contemporaneo, ottenendone una teoria coerente e sostenibile. Lo storico non avrà, certo, nulla da dire sul miracolo di un paralitico guarito in quanto tale, o sulla realtà effettiva della trasfigurazione; ma può ricavarne una risposta legittima interrogandosi sul significato attribuito a quegli episodi dai narratori stessi, confrontandolo con ciò che si conosce tramite metodi indipendenti dell’ambiente socio-culturale che fa loro da sfondo. La conclusione che quegli episodi in quanto tali siano tutti leggendari tradisce un approccio squisitamente razionalista, che conclude per la radicale falsità anche quando l’unico giudizio possibile dovrebbe coincidere con la sua sospensione. La furia della demitizzazione che vuole che si tratti invariabilmente di rivestimenti rafforzativi posteriori a scopo politico e celebrativo è spesso arbitraria, dettata dalla promozione di un programma interpretativo preconcetto e autoreferenziale.
Le citazioni di Carelli sembrano in larghissima parte obbedire a questo paradigma, ed è giocoforza quasi logico concludere che il loro contenuto debba cadere in blocco, senza differenza alcuna. Se si tratta di impostura, allora tutto o quasi tutto deve rientrare in rielaborazioni posteriori orientate a un fine propagandistico ben preciso, a un complesso ed efficacissimo mito di fondazione. Un esegeta convinto in tal senso ha del resto gioco facile nel formulare una spiegazione coerente con un simile impianto, laddove è chiamato a farlo. Ma quanto ci sarebbe di autenticamente scientifico in un approccio del genere? I paragrafi “Lo sgomento” e “Una demolizione radicale”, da questo punto di vista, sembrano sostanzialmente unilaterali.

Non è il caso di citare pedissequamente (di seconda mano, perché citazioni fatte da Carelli stesso), ma si può elaborare qualche considerazione specifica.

«I fratelli di Gesù interpretati a lungo come cugini sono davvero dei fratelli di carne perché nel Nuovo Testamento “non c’è un singolo caso chiaro in cui ‘fratello’ significa ‘cugino’ o anche ‘fratellastro’“». Fiumi di inchiostro, in letteratura, per questo equivoco terminologico e culturale. È acquisito che il mondo semitico antico include nella relazione denominata come fraterna i cugini e perfino parenti relativamente stretti, all’interno di una famiglia estesa. In nessun luogo vengono citati “figli di Maria, madre di Gesù”; la “madre di Giacomo e Giuseppe” è infatti Maria di Cleofa, non la Madonna. Impensabile, per la cultura del tempo in cui la cura dei genitori è dovere divino, che Gesù dicesse a Giovanni «ecco tua madre» dalla croce, se Ella già avesse altri figli. Anche l’aggettivo “primogenito” si riferisce solo alla consacrazione rituale del primo figlio, non alla necessaria presenza di figli minori. Le contraddizioni emergerebbero piuttosto a pensare a “fratelli” nel senso a noi familiare, piuttosto che a “fratello” o “sorella” di una cerchia familiare con lontani o nulli legami di sangue. Quest’ultimo uso è sistematico in tutto il Nuovo Testamento, dalle lettere agli atti degli apostoli.

«Se il cristianesimo non avesse incontrato positivamente la filosofia greca, non sarebbe affatto nato [...]”; non sarebbe casuale che «sia solo il quarto Vangelo, tutto intriso di filosofia neoplatonica, a presentare la divinità di Gesù e la concezione di Dio come spirito [...]». Si ignora forse che storici accreditati, non attestati sulle posizioni che qui si stanno mettendo in questione, sostengono che Giovanni sia chiaramente un testimone oculare che ha deciso di scrivere tardi raccogliendo sistematicamente testimonianze orali; esponente dell’aristocrazia sacerdotale, è un preciso conoscitore del contesto giudaico del I secolo fino a dettagli della sua geografia, e che è sua prerogativa, oltre il retroterra storico delle sue affermazioni (che è identificabile), sublimarle con una teologia particolare e inconfondibile. Egli non è affatto interessato a scrivere una “biografia” di Gesù – come del resto non lo sono gli autori dei sinottici – ma solo testimoniare l’incontro con Colui che ritiene il Verbo incarnato. Secondo Carelli, sarebbe proprio questa intenzione di "secondo livello" dell'evangelista a essere surrettizia e sospetta, ma la sensibilità del mondo semita è quanto di più lontano si possa immaginare dalle compilazioni di "fatti" e resoconti biografici privi di residui. La concretezza ha sempre scarso rilievo se priva di una intrinseca, irrinunciabile esigenza omiletica. Non si tratta di una scappatoia ad hoc; è così che le cose stanno, piaccia o meno al critico disincantato di oggi. Compito dello scienziato non è dunque speculare sull’impianto “filosofico”, nel solito ossequio deferente della grecità, ma investigare il portato storico rilevabile, che lungi dall'essere totalmente "ricostruito", resta sostanzialmente sovrapponibile alla Palestina del I secolo. Quanto ai sinottici, il modello standard dell’ascendenza di Luca e Matteo da Marco (e da una fantomatica fonte Q) non è affatto incontestato, ma anzi indebolito (se non confutato) da elementi che permettono di ricostruire tutt’altra rete di derivazioni testuali, a partire da un "proto-Matteo" scritto in aramaico. Nei sinottici, sebbene tramandati in greco, sono dimostrati stilemi e lessico di derivazione semitica. Addirittura, vi è chi sostiene che tutti e quattro i Vangeli siano anteriori al 70 d.C., il che farebbe risalire la loro redazione a un’epoca in cui buona parte dei testimoni oculari doveva essere ancora in vita. La ragione è disarmante: un avvenimento assolutamente sconvolgente per le coscienze dei Giudei come la distruzione del Tempio, che avrebbe provocato un’eco impossibile da contenere, non reca traccia alcuna nei testi se non sotto la forma di una profezia sibillina proferita da Gesù stesso. Quale grado di verosimiglianza conserva questa ipotesi? Forse non considerevole, ma non minore delle idee dei “dissacratori”.

«Giorno verrà in cui si considererà la nascita mistica di Gesù dal grembo di una vergine fecondato dall’Essere Supremo alla stregua della mitica nascita di Minerva dal cervello di Giove». Questa pare un’affermazione avente l’unico scopo di ridicolizzare i contenuti dottrinali, senza alcun vero interesse per la ricerca della verità. Ha la stessa struttura delle profezie nietzschiane – prendere o lasciare – dove ciò che si vorrebbe dimostrare è già spacciato per evidente nelle premesse, ovvero che si tratterebbe di una favola. Questo genere di commentari è pura ideologia.
Laddove si disquisisce sul peccato originale per asserire che «non si accorda con i dati fondamentali della biologia» e con i «postulati elementari della giustizia umana», o sulla barbarie della crocifissione per protestare «che razza di Dio misericordioso sarebbe», si sfiora il ridicolo. Lo storico non deve far altro che tacere su quelli che sono, in tutto e per tutto, dogmi. Il dogma non è suscettibile di critica alcuna. È una variabile indipendente, che non intacca coerenza e verità storica laddove controllabili con la ragione. Mettere in campo la biologia o una morale terza per tentare di demolirli è una operazione insensata, dal punto di vista epistemologico.

Instancabile difensore della libertà di pensiero e ricerca, di una verità plurale e multiforme, Carelli pare scandalizzarsi di fronte alla constatazione che perfino tra gli stessi esegeti e teologi cattolici vi siano voci che attaccano la “tradizione” (assimilata senza residui a un letteralismo comunque insostenibile), traendone la conclusione che “nulla si salva” (corsivo mio). Convinto giustamente che la Chiesa sia fatta di uomini, e che gli uomini siano notoriamente fallibili, è curioso che egli stesso sembri aspettarsi, sul terreno della ricerca storica e teologica, un grado di accordo e convergenza pressoché unanime solo perché si tratta di un edificio a lungo rimasto pressoché intatto e apparentemente solido, rifugio anche psicologico per miliardi di persone in due millenni. Le scuole, i paradigmi di ricerca, i modelli, i risultati stessi dell’indagine sui testi e su tutti i reperti sono realtà intellettuali in continua evoluzione e competizione, come vuole l’impresa scientifica considerata in senso lato. Il nostro problema, se lo vogliamo considerare dalla prospettiva dello storico, non fa nessuna eccezione. Le 5487 copie a noi pervenute dei Vangeli, le più antiche delle quali datate alle prime decadi del II secolo, tutte conformi salvo varianti trascurabili, rappresentano una base assolutamente ragguardevole e relativamente fortunata. Un Platone non ha goduto di una sorte simile, decisamente più sfortunata per un distacco documentario posteriore di svariati secoli. Quanto all’integrità, possiamo tacere della pochezza desolante di molto materiale su cui si affannano altri studiosi. Gli storici della filosofia pensano di saperla lunga dai frammenti rimasti dei presocratici. In realtà la competizione fra le teorie continuerà per sempre - quelle esistenti potranno evolvere o regredire, nuove potranno emergere - a maggior ragione in un dominio in cui il grado della loro corroborazione non può che rimanere incerto per caratteristiche intrinseche, largamente inquinato da ideologia, emotività e rumore di fondo .

Carelli ha perfettamente ragione quando deplora il debole argomento di coloro i quali si scagliano contro i tentativi demitizzanti lanciando gridi d’allarme per il danno che causerebbero a tante “anime” devote, evidentemente considerate impreparate e immature per poter resistere allo shock causato da cotanta demolizione. Propriamente quello non è nemmeno un argomento, ma solo una reazione scomposta che non reca alcun giovamento alla causa.
Laddove Carelli esprime il proprio disagio per i gravissimi errori commessi dalla Chiesa nella sua storia, o quando si scaglia contro il Dio degli eserciti che starebbe solo dalla parte di un popolo eletto, è difficile non essere d’accordo. Resta la domanda principale. Sono, quelle, proteste pertinenti? Sì, se rivolte a molti uomini (specie a certi «sedicenti ministri»). Meno, agli uomini che nutrono fede matura e profonda. Per nulla, se rivolte a Dio. E Carelli lo sa. «Tu non c’entri», egli scrive.

L’esperienza profonda della persona Piero Carelli, l’intimo approccio al problema e il suo travaglio sono fuori discussione. Egli si chiede col cuore in mano perché mai chi non crede ma cerca con grande passione debba avere qualche colpa. Lo sconcerto che gli deriva dalle letture è assolutamente sincero: «come vedi, sto sempre navigando in mare aperto e senza bussola». Egli, forse, vorrebbe credere. Oppure è un particolare tipo di credente in continuo, incessante movimento di ricerca di tentativi di confutazione che aspirano a fallire, così tanti e tali da sconvolgere la tranquillità di una quiete fideista che mal si concilia con la sua passione filosofica, che è dinamitarda per definizione. Una nostalgia di casa, nonostante il desiderio infinito di liberazione dall’ignoranza e di universalità etica “orizzontale”. L’unica impossibilità è tradita da una domanda isolata ma estremamente significativa. «Chi mi garantisce che “la persona da cui dobbiamo lasciarci prendere” esista»? (corsivo mio). Non esiste alcuna garanzia nel nostro problema, naturalmente. Se esistesse si sarebbe già trovata con gli strumenti della ragione; lo stesso concetto di fede – che è ancorato a quello di fiducia senza contropartite - non avrebbe senso alcuno, e il nostro problema completamente dissolto. Beati coloro che crederanno senza avere visto.
Ma al di là del cammino personale – sul quale nessuno ha titolo per sindacare, ma solo per trarre possibile insegnamento o motivo di confronto con la propria stessa esperienza, altrettanto soggettiva - , il lavoro di Carelli ha almeno un pregio oggettivo anche per chi ha già detto «sì» a Dio: il monito a tenersi alla larga dalle Sue false rappresentazioni. Tutte quelle che non possono supportare nessuna fede matura - perché celano qualche forma di superstizione – e soprattutto quelle che sottendono una guerra (a parole, se non con le spade) degli “uni” contro gli “altri” a qualunque titolo. Quale che sia l’esito della ricerca – che resta un compito infinito - , deve anche tramontare definitivamente il tempo di una falsa dicotomia: “o si pensa o si crede”, con le inevitabili conseguenze polemiche tra i partiti belligeranti degli affermatori e dei negatori. L’uomo non è una entità scissa – non è solo pensiero o solo credenza, solo ragione o solo convinzione. È una unità indivisa, che porta con sé strutturalmente tutte quelle dimensioni dello spirito.


Luca Lunardi

Dicembre 2014

Data: 17.12.2014

Autore: Piero Carelli

Oggetto: In dialogo con Luca

Sarei già soddisfatto, Luca, se la mia preghiera avesse come risultato anche solo le tue riflessioni e quelle di Patrizia: spiccate davvero il volo.
Io credo che un testo che non riesca a “provocare” riflessioni in altri, non sia un buon testo.

Che dire del tuo viaggio “alternativo”? Ben poco: è un saggio autonomo, degno della tua statura e della tua fede matura, una fede del tutto “ragionevole”.

A mio avviso avresti fatto bene a leggere ieri sera qualche stralcio, anche perché solo in queste riflessioni emerge l’itinerario che ho percorso (itinerario che, per questione di tempo, non è risultato dalla lettura dei brani).

Concordo con te: a Dio non si può accedere con la pura razionalità. Non è un caso che io abbia parlato di “scalate nobili”, “tentativi generosi di squarciare il velo del cielo” che hanno avuto, tuttavia, come effetto solo… macerie.

Hai letto bene il mio punto di vista su Spinoza, come hai colto bene il senso della mia simpatia per i cosiddetti maestri del sospetto.
Concordo, poi, con te quando parli di incapacità della scienza di esplorare i territori del senso.

Ti dilunghi molto, poi, sul dibattito dei biblisti. Tu dici che è possibile distinguere i materiali attribuiti più o meno direttamente al Gesù storico dalle “aggiunte posteriori”. È questo – e solo questo – il contenuto dei quattro volumi del biblista gesuita americano Meier a cui ho ampiamente attinto. Vi è però pure chi (Gaeta Giancarlo) esclude in modo categorico la possibilità di accedere al “Gesù storico”!
Io, comunque, non entro nel merito della “giustezza” di una esegesi rispetto a un’altra (come potrei, sprovvisto come sono degli strumenti del mestiere?). Io mi limito a constatare che, all’interno della Chiesa cattolica, da parte di biblisti “cattolici” si giunge a mettere in discussione quasi tutto quanto fino a ieri era presentato come certo. Come potrei io dirimere la questione dei “fratelli di Gesù”? Ciò che mi ha sgomentato è che “alcuni biblisti cattolici” mettono in discussione non solo i miracoli raccontati nei Vangeli, ma anche quel miracolo speciale che è la verginità della Madonna e quel miracolo dei miracoli che è la risurrezione di Cristo (miracolo senza il quale non potrebbe sussistere il Cristianesimo: non lo diceva anche S. Paolo?) nel senso che vanno a cercare la “genesi di quelle credenze”.

Come, in altri contesti, mi ha sgomentato che uno scienziato cattolica dica che ciò che va proprio escluso è che Dio sia un Progettista intelligente. Non solo: un teologo cattolico arriva ad affermare che non è pensabile attribuire a Dio la creazione del mondo.

È tutto questo che mi ha sconvolto nella mia ricerca del Dio perduto: più delle macerie lasciate dalle vie… metafisiche, più del disordine del cosmo.

Mi fa piacere leggere che il pregio oggettivo della mia ricerca sta nel monito a tenersi alla larga dalle false rappresentazioni di Dio.

Data: 17.12.2014

Autore: Luca Lunardi

Oggetto: Postilla

Laterale e non essenziale al nostro discorso, in nota a piè pagina non è del tutto improponibile almeno suggerire che, un giorno, dovrà finalmente imporsi all’attenzione che merita il valore documentario eccezionale che offre quello sconcertante oggetto che è il telo sindonico di Torino. Si badi: sconcertante per la scienza. Ancora a rischio di essere liquidato frettolosamente come un infantilismo apologetico che non potrebbe fungere da base empirica per corroborare le teorie “non mitizzanti”; noto perlopiù per il risultato scoraggiante di una datazione al radiocarbonio che è ormai stato radicalmente confutato, quel reperto vanta una messe di indagini e dati accumulati incredibile per quanto è convergente verso l’autenticità – tanto da farne uno degli oggetti in assoluto più studiati al mondo - senza che il vasto pubblico ne abbia ancora acquisito consapevolezza. Esito, da un certo punto di vista, relativamente anomalo stante la generale acquiescenza del sentire contemporaneo per tutto ciò che viene dalla scienza e dalla tecnologia, ma in questo caso, come in molti altri, a essere decisiva è la qualità della comunicazione e del trasferimento di conoscenza. Fisica, biochimica, biologia, anatomia, medicina legale, ematologia, traumatologia, botanica, mineralogia, archeologia, storia: lo stato attuale di tutte le indagini indipendenti attesta, con un margine di confidenza largamente superiore a quello minimo per considerare acquisito un risultato ottenuto con metodi scientifici, che si tratta di un tessuto di pregiata fattura che ha avvolto un ebreo flagellato e crocifisso nel I secolo dai romani in territorio mediorientale, con abrasioni diffuse alla testa, uno zigomo tumefatto, un ginocchio traumatizzato in corrispondenza del quale vi sono resti di terriccio di aragonite simile a quella presente nei dintorni di Gerusalemme, e una ferita profonda al costato; reca tracce di sangue del gruppo AB (raro ma relativamente più diffuso in medio oriente), pollini di svariate piante tipiche della Palestina e particolarmente dell’area di Gerusalemme, l’impronta di monete romane coniate sotto Tiberio, tracce di scritture datate a epoca anteriore al 50 d.C. tra cui si riconoscono “PEZω” (“io attesto”) e “NNAZAPHNNOΣ” (“nazareno”); l’immagine non è un dipinto, non è una stampa e ha le caratteristiche di un negativo fotografico con spiccati elementi di tridimensionalità. Quelle sopra sono solo una piccola parte, più “macroscopica”, di un reperto irriproducibile e un falso impossibile.

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