“Posta la filosofia come concezione del mondo e l’operosità filosofica non concepita più solamente come elaborazione ‘individuale’ di concetti sistematicamente coerenti ma inoltre e specialmente come lotta culturale per trasformare la ‘mentalità’ popolare e diffondere le innovazioni filosofiche che si dimostreranno ‘storicamente vere’ nella misura in cui diventeranno concretamente cioè storicamente e socialmente universali, - la quistione del linguaggio e delle lingue ‘tecnicamente’ deve essere posta in primo piano.”
Da un’affermazione come questa, negli anni accademici 1970-71, 71-72 o giù di lì, sarebbe potuto partire un corso universitario su Antonio Gramsci che, affrontando uno dopo l’altro i concetti chiave della filosofia della prassi, avrebbe rivendicato a Gramsci la capacità di tradurre nel linguaggio più consono alla cultura italiana le idee ed i pressanti inviti del marxismo, con particolare riferimento all’undicesima tesi su Feuerbach. Compito peraltro neppure impossibile, dal momento che il filosofo di tipo italiano condivide con il tedesco l’essere legato alla “pratica” mediatamente (“e spesso la mediazione è una catena di molti anelli”), a differenza, ad esempio, dal pragmatista anglosassone, il quale “tende a creare una ‘filosofia popolare’ superiore al senso comune” e proprio per questo si riduce ad essere “un ‘partito ideologico’ immediato più che un sistema di filosofia”. Ergo, “il filosofo tipo italiano o tedesco è più ‘pratico’ del pragmatista, che giudica della realtà immediata spesso volgare, mentre l’altro ha un fine più alto, pone il bersaglio più alto e quindi tende ad elevare il livello culturale esistente (quando tende, si capisce)”.
Ho studiato Gramsci in quegli anni Settanta in cui l’Università – parlo della Statale di Milano, ma credo che qualcosa di analogo valga per Roma, Bari o Padova – viveva una vera e propria ubriacatura gramsciana. Non dico che quegli anni fossero formidabili, anzi li giudico per certi aspetti terrificanti se non addirittura terroristi nell’impostazione stessa della filosofia, spesso presentata come epifenomeno della politica. Ma tutto quell’analizzare, quello sviscerare il significato di una pagina di Hegel, di Marx, di Althusser, di Lukács, di Sartre o, per l’appunto, di Gramsci, aveva in sé qualcosa di epico. E non per l’età giovanile di chi lo metteva in atto, ma per quella sorta di desiderio di scoprire pagine rimaste troppo a lungo segrete, occultate da un potere che non aveva alcun interesse a divulgarne la forza eversiva intellettuale e materiale.
Che ne è oggi di Gramsci? È davvero divenuto un classico da collocare sugli imbelli scaffali della libreria familiare, accanto a Galileo, Croce e Gentile? Gramsci per tutti?
Ci sono nella riflessione di Gramsci alcuni concetti forza che parlano all’uomo universale e al tempo stesso all’uomo del 2007. Uno di questi è a mio parere il nesso politica-morale-educazione.
Un nesso che è stato ben evidenziato nella relazione di Francesco Saverio Trincia al Liceo, davanti a un centinaio di studenti che ascoltavano per la prima volta un discorso non urlato nelle piazze né usato come un’arma da scagliare con violenza contro l’avversario che ci contende il voto. Un discorso pacato ma deciso, in cui si chiede alla sinistra di fare una volta per tutte seriamente i conti con la propria coscienza passata, dopo la crisi di identità del 1989. Non so quanto quegli studenti abbiano recepito di questo tema specifico in una mattina scolastica intensa e appassionante, interessati com’erano piuttosto al rapporto Stato-Chiesa (al termine delle relazioni tre domande, tutte su questo argomento). Ma certo di un’etica pubblica si sente la mancanza, e non è un caso che sia da destra che da sinistra si faccia appello alla necessità di recuperare alcuni fondamentali valori morali. Da qui all’educazione il passo è breve, anzi non c’è alcun passo: l’educazione è una questione di valori. Ricerca della verità, amore del bello, giustizia, e soprattutto libertà di pensiero e d’azione sono il succo di ciò che si impara o si dovrebbe imparare a casa e a scuola dal comportamento di genitori e insegnanti.
Come dare una mano a Gramsci affinché possa parlare ancora oggi a chi sta cercando quei valori?
E’ interessante notare che quel pensiero di Gramsci sulla “quistione del linguaggio” prosegue con l’invito a “rivedere le pubblicazioni in proposito dei pragmatisti”, con un rimando agli Scritti di Giovanni Vailati. Un Gramsci dunque che non si rapporta a Croce e Gentile come agli esclusivi rappresentanti della filosofia italiana, ma sa dialogare, sia pure nelle precarie condizioni del carcere, con i più significativi esponenti di una cultura aperta al confronto con il pensiero europeo ed anglo-americano. E benché la sua condizione esistenziale ossia strettamente biografica gli impedisca di continuare ad esercitare un’azione diretta sulla politica del tempo, forse per lo stesso motivo fa sì che egli la trascenda e la osservi con quel distacco o quella lontananza da cui meglio si mettono a fuoco le cose.
Non c’è conclusione, su una filosofia tanto ricca e complessa. Vorrei solo ricordare la conclusione che Gramsci pone in chiusura del paragone da lui istituito fra il filosofo italiano e tedesco, da una parte, e il pragmatista, dall’altra. Pur apprezzando Vailati e citandone “la meravigliosa capacità” di tradurre una qualunque teoria da un linguaggio ad un altro, “da quello edonista in quello della morale kantiana”, riconosciutagli da Einaudi, Gramsci ritiene che Hegel possa comunque essere considerato “il precursore teorico delle rivoluzioni liberali dell’800”, mentre “i pragmatisti, tutt’al più, hanno giovato a creare il movimento del Rotary Club o a giustificare tutti i movimenti conservatori e retrivi (a giustificarli di fatto e non solo per distorsione polemica come è avvenuto per Hegel e lo Stato prussiano)”.
Gramsci per tutti? Come in quella vecchia pubblicità, per molti, ma non per tutti. Almeno non per il Rotary Club.
“GRAMSCI PER TUTTI“? - RELATORE: FRANCO GALLO
08.10.2007 21:00
L’anno gramsciano, privo di grandi clamori, rischia di diventare una riflessione per soli addetti ai lavori e corre il rischio di diventare una occasione persa.
Quanti temi della lettura gramsciana della prassi, della storia culturale e dei processi sociali della formazione della nostra Nazione sono ancora presenti nel nostro orizzonte culturale? Quanto valgono alla luce dell’attuale ricerca scientifica? Quanto resta del loro potenziale critico?
A conclusione del Convegno di approfondimento del pensiero di Antonio Gramsci che il Caffè Filosofico ha patrocinato assieme ad altri soggetti di iniziativa culturale, proponiamo direttamente una riflessione di sintesi, in dialogo con il nostro pubblico.
Massimiliano Biscuso
Rileggere Americanismo e fordismo oggi
1. Attualità di Gramsci?
Essere chiamato[1] a intervenire nel settantesimo anniversario della scomparsa di Antonio Gramsci[2] significa, inevitabilmente, misurarsi con la questione della sua “attualità”. Ma valutare l’“attualità” di un pensatore è questione niente affatto banale: non si tratta, infatti, di rivendicare a Gramsci la capacità di “anticipare” o “precorrerre” il proprio tempo grazie alla sua perspicacia, capacità tanto care a un vecchio, ma mai veramente morto, cattivo storicismo. Si tratta, invece, di comprendere l’utilizzabilità di un metodo di ricerca e la permanenza dell’oggetto di studio: quale capacità di lettura del mondo acquisiamo leggendo Gramsci? e in quale misura il nostro “oggi” è ancora l’“oggi” che fu il suo?
In fondo la questione dell’attualità della propria ricerca è presente a Gramsci fin dalla gestazione dei Quaderni del carcere. In una notissima lettera del 13 marzo 1927 Gramsci, prigioniero nelle carceri fasciste e consapevole che tale condizione non sarebbe mutata per molto tempo, comunica a Tania l’intenzione di iniziare una serie di ricerche che lo occupino «intensamente e sistematicamente», assorbendo e centralizzando la sua «vita interiore». Si tratta, precisa Gramsci, di «far qualcosa “für ewig”», di lavorare «da un punto di vista “disinteressato”» (L I, 63). Scrivere “für ewig” significa non esaurire la funzione della scrittura nella immediata contingenza della lotta politica, ma affrontare con tutta l’ampiezza concessa dalle condizioni della vita carceraria – certo non molta – e con la radicalità necessaria gli argomenti di maggior interesse per intendere il presente; essere “disinteressato” non significa affatto rivendicare un’astratta neutralità alla ricerca, ma assumere un atteggiamento scientifico nell’analisi, senza aderire a punti di vista preconcetti, fare proprio un’abito “spinoziano” teso alla comprensione intellettuale piuttosto che alla condanna, alla irrisione o alla invettiva moralistica. È appunto il proposito che il prigioniero realizzerà, tra mille difficoltà di ordine materiale, fisico e morale, nella stesura dei Quaderni tra il 1929 e il 1935.
Nella lettera a Tania gli argomenti pensati da Gramsci sono quattro; diventano sedici nell’elenco che apre il primo quaderno[3]: al numero 11 compare «Americanismo e fordismo» (Q 5). Nonostante il fatto che in una lettera di poco successiva (25 marzo 1929) «L’Americanismo e il fordismo» sia uno dei tre argomenti su cui Gramsci ha deciso di occuparsi e di prendere note (L I, 184), in realtà le riflessioni attinenti al tema non saranno molte, tanto che Gramsci potrà raccoglierle nel 1934 in un unico quaderno, il Quaderno 22, tra l’altro utilizzato solo parzialmente[4]. Questa circostanza non toglie nulla all’importanza epocale che Gramsci attribuì al tema, che andava ben al di là dell’attenzione alla crisi del ’29.
Non posso entrare nella questione delle cause che hanno portato Gramsci a dedicare minore impegno a questo argomento. Né intendo discutere i motivi per cui le tematiche affrontate nel Quaderno 22 non sono state per molto tempo al centro dell’analisi degli scritti gramsciani e, più in generale, del dibattito del marxismo italiano, motivi che, almeno in parte, possono essere individuati nel modo di leggere il materiale carcerario suggerito dalla politica culturale (e dalla politica tout court) di Togliatti. Di sicuro, però, colpisce la circostanza che proprio sul finire degli anni Settanta, quando Franco De Felice curò un’edizione separata del Quaderno 22[5], attirando l’attenzione sul tema Americanismo e fordismo, stava divenendo evidente la radicale ristrutturazione dell’organizzazione del lavoro di fabbrica e il declino della centralità della classe operaia (che è cosa ben diversa dalla presunta scomparsa della classe operaia e dalla «fine del lavoro»[6]), cioè il superamento del taylorismo e del fordismo. Superamento che oggi ci appare, anzi, non può che apparirci, realizzato: non solo nelle nostre società tardo-capitalistiche il lavoro industriale non occupa più la maggioranza della popolazione attiva (società postindustriale), non solo il residuo lavoro industriale è organizzato, come molto lavoro terziario, sollecitando la capacità decisionale e la responsabilità dei lavoratori (modello postfordista), ma soprattutto l’azienda mette al lavoro non più la forza bruta dell’operaio, ma le sue specifiche qualità umane: linguaggio, attitudini relazionali, capacità di soluzione creativa di problemi (economia della conoscenza, lavoro immateriale ecc.).
Eppure il nostro “oggi” assiste, al tempo stesso, al trionfo dell’americanismo, inteso sia come egemonia politico-militare, economico-finanziaria e culturale sia come way of life: oggi più di allora è vero il fatto che esso costituisca «un’“epoca” storica» (Q 2140). Rileggere il Quaderno 22 oggi ci pone quindi dinanzi ad un singolare dilemma: attualità della categoria di «americanismo» oppure obsolescenza di «taylorismo» e «fordismo»? Ma se queste categorie sono strettamente connesse, come è possibile?
Cerchiamo allora, in primo luogo, di capire cosa significhino esattamente americanismo, fordismo e taylorismo, le tre categorie principali del Quaderno 22, per poter valutare l’attualità, nel metodo e nell’oggetto, dell’analisi gramsciana.
Molto sinteticamente, si può dire che l’americanismo è quell’epoca della storia del capitalismo segnata dal passaggio «dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica» (Q 2139). Epoca in cui, mutando l’organizzazione del lavoro e della produzione, muta conseguentemente la politica e la cultura. Cuore dell’americanismo è il fordismo, cioè un modo di produzione che diventa egemonico, informando di sé la società e la sua ideologia («la “struttura” domina più immediatamente le soprastrutture», Q 2146). Grazie all’assenza di classi sociali parassitarie e di un apparato statale altrettanto parassitario, grazie all’inesistenza di resistenze culturali, che invece caratterizzano la situazione europea ed italiana in particolare, in America
è stato relativamente facile razionalizzare la produzione e il lavoro, combinando abilmente la forza (distruzione del sindacalismo operaio a base territoriale) con la persuasione (alti salari, benefizi sociali diversi, propaganda ideologica e politica abilissima) e ottenendo di imperniare tutta la vita del paese sulla produzione. L’egemonia nasce dalla fabbrica e non ha bisogno per esercitarsi che di una quantità minima di intermediari professionali della politica e dell’ideologia (Q 2145-6; cors. M.B.).
Il nuovo sistema non lascia spazio all’anarchia della produzione, perché la società di massa esige, per consumare, una produzione adeguata, che è garantita solo dalla sua razionalizzazione. L’«economia programmatica» diventa sinonimo di «razionalizzazione» della produzione, razionalizzazione che richiede, tra l’altro: 1) una nuova organizzazione del lavoro, il taylorismo; 2) un nuovo tipo di uomo; 3) una nuova funzione dello Stato nel sistema capitalistico[7].
Nell’analisi che Gramsci conduce del taylorismo traspare, sebbene qui non tematizzato, il “metodo” seguito dal filosofo marxista, la dialettica[8]. Ma questo termine, sebbene perspicuo, non ci mette affatto al riparo da possibili fraintendimenti. Precisiamolo: il metodo di indagine gramsciano è dialettico in un triplice e preciso senso: 1) che, epistemologicamente, solo «il vero è l’intero», cioè solo l’attenzione alla totalità delle relazioni che costituiscono l’oggetto della ricerca garantisce la sua scientificità: «blocco storico», quale «sviluppo» della struttura e della soprastruttura «intimamente connesso e necessariamente interrelativo e reciproco» (Q 1300), «circolo omogeneo» di filosofia-politica-economia (Q 1492), sono categorie che, pur non citate in questo quaderno, vi sono però utilizzate, a testimonianza dell’impostazione “olistica” di Gramsci (che produce una struttura reticolare di rimandi fra i diversi temi trattati nei quaderni). Da questo punto di vista emerge l’importanza delle relazioni verticali: da un lato, si ha l’inclusione del più particolare nel più generale perché si colga il significato del primo, dall’altro, il più generale riceve a sua volta il suo contenuto determinato dal più particolare: così il taylorismo (organizzazione della fabbrica) spiega il ed è spiegato dal fordismo (organizzazione della società), il fordismo spiega il ed è spiegato dall’americanismo (organizzazione dell’economia-mondo); 2) che, euristicamente, è fecondo procedere secondo una polarità orizzontale: America-Europa, Nord-Sud, città-campagna, industria-agricoltura, forze subalterne-forze dominanti sono poli dialettici che si illuminano reciprocamente. L’analisi condotta in Americanismo e fordismo è un’analisi dialettica (cioè, più precisamente, un procedimento al tempo stesso analitico e sintetico) nel senso appena precisato; 3) che, politicamente, l’affermazione di un tipo di organizzazione produce anche possibilità non volute, di segno contrario, apre spazi imprevedibili di emancipazione, come nel caso, che affronteremo tra breve, dei pensieri non conformistici generati proprio dall’adattamento alla catena di montaggio.
Intendo qui concentrare l’attenzione su due dei molti punti trattati da Gramsci in questo quaderno, i due che forse appaiono oggi più obsoleti: 1) la razionalizzazione tayloristica del lavoro; 2) la «quistione sessuale», che è intimamente connessa alla necessità di creare un nuovo tipo di uomo. Si tratterà allora di comprendere se l’analisi gramsciana sia attuale, cioè feconda dal punto di vista del metodo e capace di illuminare l’oggetto che, al di là delle modificazioni, mostra dei tratti permanenti che lo rendono riconoscibile come ancora nostro.
2. Taylorismo o dell’impossibile meccanizzazione totale dell’uomo
Mi sembra interessante esaminare, più che le osservazioni intorno alla brutalità dei modi coi quali è stato introdotto il taylorismo, alla diversa reazione degli operai americani, europei e italiani rispetto ai metodi di razionalizzazione del lavoro, due temi che emergono nel § 12, intitolato Taylorismo e meccanizzazione del lavoratore: a) la razionalizzazione tayloristica coinvolge tanto il lavoro operaio, manuale, quanto il lavoro intellettuale, ovvero, nella fabbrica taylorizzata è messa all’opera una specifica forma di razionalità strumentale che si sta imponendo anche in settori lavorativi tradizionalmente estranei alla fabbrica; b) l’operaio, anche asservito alla catena di montaggio, non si trasforma affatto in un “gorilla ammaestrato”, come avrebbe voluto Taylor, ma continua a mantenere la sua capacità di pensare, anzi la meccanizzazione del lavoro genera per reazione conflitto e libertà.
Il paragrafo si apre citando le professioni «legate alla riproduzione degli scritti per la pubblicazione», professioni «ritenute tra le più “intellettuali”», quali esempi del distacco che il taylorismo determinerebbe «tra il lavoro manuale e il “contenuto umano” del lavoro» (Q 2169). Tipografi, lynotipisti, dattilografi e prima di tutti loro gli amanuensi (il che mostra come il taylorismo assuma qui valore di categoria universale) lavorano tanto meglio quanto più sono indifferenti al contenuto intellettuale del testo: la qualità del lavoro dipende direttamente dal suo “meccanizzarsi”. Si tratta di lavoratori, per così dire, di frontiera: non assimilabili ai lavoratori manuali per l’alto contenuto intellettuale della loro opera, sono però soggetti, come questi ultimi, alla meccanizzazione. L’esempio consente dunque un’ipotesi che generalizzerebbe ulteriormente l’ambito di applicazione del taylorismo al lavoro intellettuale tout court. Ne abbiamo riscontro nel Quaderno 12, intitolato Appunti e note sparse per una storia degli intellettuali. Qui leggiamo acute considerazioni sulla crescente tecnicizzazione della formazione, sia scolastica sia professionale, che prepara tutti, dai giovani ai dirigenti e agli specialisti, alle attività pratiche, nella civiltà moderna fattesi estremamente complesse (Q 1530, § 1). La divisione del lavoro diventa la forma razionalizzata di organizzazione della produzione intellettuale, come accade nelle attività collettive, quali la redazione di certe riviste, in cui l’operosità dei redattori «è organizzata secondo un piano e una divisione del lavoro predisposta». Inoltre il lavoro dei più esperti permette ai più giovani ad apprendere più rapidamente, a «taylorizzare il lavoro intellettuale» (Q 1533).
Ma ritorniamo al § 12 del Quaderno 22 per cogliere il secondo importante aspetto della taylorizzazione del lavoro. L’esempio del tipografo mostra che
Quando il processo di adattamento è avvenuto, si verifica in realtà che il cervello dell’operaio, invece di mummificarsi, ha raggiunto uno stato di completa libertà. Si è completamente meccanizzato solo il gesto fisico; la memoria del mestiere, ridotto a gesti semplici ripetuti con ritmo intenso, si è «annidata» nei fasci muscolari e nervosi che ha lasciato il cervello libero e sgombro per altre occupazioni (Q 2170-1).
Alla meccanizzazione del gesto fisico si oppone la completa libertà del cervello, come avviene in attività usuali quali il camminare:
si cammina automaticamente e nello stesso tempo si pensa a tutto ciò che si vuole. Gli industriali americani hanno capito benissimo questa dialettica insita nei nuovi metodi industriali. Essi hanno capito che “gorilla ammaestrato” è una frase, che l’operaio rimane “purtroppo” uomo e persino che egli, durante il lavoro, pensa di più o per lo meno ha molto maggiori possibilità di pensare, almeno quando ha superato la crisi di adattamento e non è stato eliminato: e non solo pensa, ma il fatto che non ha soddisfazioni immediate nel lavoro, e che comprende che lo si vuol ridurre a un gorilla ammaestrato, lo può portare a un corso di pensieri poco conformisti (Q 2171; cors. M.B.).
Il rovesciamento di un opposto nel suo altro, «questa dialettica insita nei nuovi metodi industriali», che dalla massima meccanizzazione produce le condizioni per la libertà di pensare, dall’insoddisfazione del lavoro la sua critica, ha come sua condizione di possibilità l’irriducibilità dell’essere umano al processo di completa meccanizzazione, la sua eccedenza rispetto alla riduzione a strumento.
Cosa rimane attuale dell’analisi gramsciana oggi? L’attuale produzione di massa in Occidente infatti non può essere designata più come fordista e all’organizzazione tayloristica del lavoro è subentrata quella toyotista. Tra le più importanti differenze[9] possiamo citarne due: l’operaio non lavora più isolato alla catena di montaggio, ma in una squadra; la forza lavoro non svolge più mansioni soltanto meccaniche, bensì deve anche partecipare al processo produttivo con la propria intelligenza, cioè con la propria capacità di risolvere creativamente i problemi. In entrambi i casi viene in primo piano l’importanza crescente della comunicazione, cioè al tempo stesso del linguaggio e del sapere.
Ma in tutto ciò non emerge affatto la scomparsa della meccanizzazione del lavoro che Gramsci metteva al centro delle sue riflessioni. Se intendiamo meccanizzazione non solo nel significato più letterale e immediato di semplice e brutale ripetizione meccanica dei gesti alla catena di montaggio, ma in quello più ampio (legittimato dall’uso meta-epocale dello stesso Gramsci: si ricordi l’esempio dell’amanuense) di apporto funzionale ed eterodiretto al meccanismo della produzione, possiamo allora cogliere la continuità di fondo, al di là delle pur innegabili modificazioni, fra fabbrica fordista e azienda postfordista[10].
Da questo punto di vista, e siamo al secondo aspetto dell’attualità dell’analisi gramsciana, il pensatore comunista sembra aver colto un aspetto ancora embrionale nella sua epoca, ma poi dispiegatosi in tutta evidenza oggi: l’importanza crescente della componente intellettuale (nel significato, sopra specificato, della competenza tecnologica e, più in generale, della razionalità strumentale) per lo sviluppo della produzione industriale, e il suo polo opposto, la taylorizzazione della produzione intellettuale (evidente nella crescente parcellizzazione e riduzione strumentale del sapere). Sempre più lavoro industriale e lavoro intellettuale sembrano assomigliarsi: eterodirezione, funzionalità sistemica, produttività immediatamente misurabile e spendibile ne appaiono i caratteri comuni.
Rimane certamente problematico – e questo è un punto di possibile discussione – quanto del nuovo modo di organizzazione del lavoro comporti di interiorizzazione/appropriazione delle finalità aziendali e quanto di singolarmente umano rimanga invece irriducibile alla eterodirezione. Ma come risultava sorprendente il rovesciamento dialettico del taylorismo (la meccanizzazione del gesto crea spazio per la libertà di pensiero), così non può essere escluso che il tentativo di sussunzione delle qualità umane esatto dall’azienda produca una nuova eterogenesi dei fini, che saperi e competenze sviluppate nel lavoro eterodiretto siano spesi per fini di emancipazione individuali o collettivi. Si pensi, ad es., alle conoscenze e alla competenze che si acquistano nel lavoro e permettono una comprensione più complessa articolata e critica della realtà, che consentono di istituire nuove più ampie e creative relazioni – anche tra persone molto lontane, come avviene nel caso dell’uso delle tecnologie informatiche – per fini che eccedono, o possono essere contrari a, gli scopi aziendali. A volte, come appunto nel caso citato delle tecnologie informatiche che si sono potentemente sviluppate per aumentare la produttività, si produce addirittura una contraddizione tra la difesa delle ragioni dell’accumulazione privata, che si basa sulla difesa del copyright, e lo sviluppo tecnologico, maggiormente stimolato dall’open source e dallo scambio libero di programmi e informazioni.
3. Aspetti della «quistione sessuale»
L’impostazione dialettica porta Gramsci a non assolutizzare la struttura a scapito della soprastruttura: «i nuovi metodi di lavoro sono indissolubili da un determinato modo di vivere, di pensare e di sentire la vita» (Q 2164). Indissolubili nel senso di una piena circolarità (o azione reciproca): quanto il nuovo modo di vivere è determinato dai nuovi metodi di lavoro, tanto il nuovo modo di vivere permette l’affermazione dei nuovi metodi di lavoro.
Per questo Gramsci ritiene che chi irridesse alle azioni moralizzatrici rivolte ai lavoratori americani e vi vedesse soltanto una manifestazione ipocrita di puritanesimo,
si negherebbe ogni possibilità di capire l’importanza, il significato e la portata obiettiva del fenomeno americano, che è anche il maggior sforzo collettivo verificatosi finora per creare con rapidità inaudita e con una coscienza del fine mai vista nella storia, un nuovo tipo di lavoratore e di uomo (Q 2165).
Il fine è espresso da Taylor «con cinismo brutale»: si tratta «nel lavoratore di sviluppare al massimo grado gli atteggiamenti macchinali ed automatici». Non è però una novità assoluta, ma solo la fase più recente di un processo iniziatosi con l’industrializzazione.
Il § 10, intitolato «Animalità» e industrialismo, si apre con le seguenti, categoriche, affermazioni:
La storia dell’industrialismo è sempre stata (e lo diventa oggi in una forma più accentuata e rigorosa) una continua lotta contro l’elemento «animalità» dell’uomo, un processo ininterrotto, spesso doloroso e sanguinoso, di soggiogamento degli istinti (naturali, cioè animaleschi e primitivi) a sempre nuove, più complesse e rigide norme e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione che rendano possibili le forme sempre più complesse di vita collettiva che sono la conseguenza necessaria dell’industrialismo (Q 2160-1).
Si tratta di un processo ancora non concluso («i risultati finora ottenuti […] non sono diventati una “seconda natura”») e che ha una lunga storia dietro di sé: gli istinti che oggi appaiono animaleschi sono un progresso rispetto ai precedenti «ancor più primitivi». Con accenti che sembrano richiamare certe pagine nietzscheane, Gramsci afferma che «Finora tutti i mutamenti del modo di essere e di vivere sono avvenuti per coercizione brutale, cioè attraverso il dominio di un gruppo sociale su tutte le forze produttive della società»; la «selezione o “educazione”» dell’uomo adatto alle nuove forme di produzione «è avvenuta con l’impiego di brutalità inaudite, gettando nell’inferno delle sottoclassi i deboli e i refrattari o eliminandoli del tutto». Nulla di nuovo, dunque, sta avvendo oggi: «il nuovo modo di vivere» è sempre stato «il risultato di una compressione meccanica» (Q 2161).
Dei molti spunti suggeriti da questo argomento ne svilupperò soltanto uno, ma ai miei occhi decisivo: l’immediata connessione del fordismo con la «quistione sessuale», la cui soluzione permette di perseguire l’obiettivo fondamentale della formazione dell’uomo nuovo, adatto alla nuova civiltà; tutte le dimensioni della vita umana, anche quella biologica, devono essere trasformate per permettere il pieno sviluppo delle nuove forme di produzione.
Nel § 3, Alcuni aspetti della quistione sessuale, Gramsci aveva individuato nella «repressione» degli istinti sessuali «da parte della società in isviluppo» il principale aspetto della lotta all’animalità dell’uomo (Q 2147). Questa verità per così dire universale è tanto più vera oggi, sostiene Gramsci, o, meglio, il fordismo mette in luce quanto è già implicito anche nelle ere precedenti: «la verità è che non può svilupparsi il nuovo tipo di uomo domandato dalla razionalizzazione della produzione e del lavoro, finché l’istinto sessuale non sia stato conformemente regolato, non sia stato anch’esso razionalizzato» (Q 2150).
Le difficoltà di ottenere «una rigida disciplina degli istinti sessuali», rafforzando la famiglia e regolamentando e stabilizzando i rapporti sessuali, sembrano però direttamente proporzionali alle necessità disciplinari della fabbrica fordista: la repressione forzata degli istinti sessuali durante la Grande guerra seguita dall’esigenza del loro scatenarsi, lo squilibrio postbellico fra numero di uomini e di donne, la difficoltà di indurre in Occidente[11] i lavoratori con la persuasione alle «nuove abitudini e attitudini psicofisiche connesse ai nuovi metodi di produzione e di lavoro», hanno prodotto una crisi nelle istituzioni legate alla vita sessuale (la famiglia) e una situazione di «ipocrisia sociale», cioè una discrasia fra i discorsi, che rendono formale omaggio alla “virtù”, e i comportamenti effettivi (Q 2162-3). E all’elenco manca l’aspetto forse più importante, la «formazione della nuova personalità femminile» (Q 2149), che è un processo tuttora in corso, perché la donna non ha ancora raggiunto l’effettiva parità con l’uomo e un nuovo modo di concepire se stessa e la sua parte nei rapporti sessuali, sebbene non sia più la donna di prima. Fatto sta che ogni «coercizione unilaterale nel campo sessuale porta con sé a uno sfrenamento “romantico”». Di qui la conclusione: «Tutti questi elementi complicano e rendono difficilissima ogni regolamentazione del fatto sessuale e ogni tentativo di creare una nuova etica sessuale che sia conforme ai nuovi metodi di produzione e di lavoro (Q 2150)».
Nella «quistione sessuale», insomma, viene alla luce un’esigenza fondamentale dei nuovi metodi di produzione e di lavoro: quello di modificare l’uomo per renderlo adatto alla vita di fabbrica. La crescente meccanizzazione del lavoro, cioè del lavoratore, impone un più rigido disciplinamento degli istinti sessuali e, più in generale, «del sistema nervoso» (Q 2162). Il fordismo è precisamente questo: l’applicazione della razionalità taylorista al tempo di vita del lavoratore, l’estensione della piena fungibilità delle capacità umane dalla catena di montaggio alla vita biologica, in modo che essa si mantenga integra e sia quindi integralmente sfruttabile nel tempo di lavoro. Gramsci protesta a più riprese, come si è già accennato, con l’equivoco di scambiare per puritanesimo il tentativo di creare una nuova etica sessuale e di imporre il proibizionismo.
L’industriale americano si preoccupa di mantenere la continuità dell’efficienza fisica del lavoratore, della sua efficienza muscolare-nervosa: è suo interesse avere una maestranza stabile, un complesso affiatato permanentemente, perché anche il complesso umano (il lavoratore collettivo) di un’azienda è una macchina che non deve essere troppo spesso smontata e rinnovata nei suoi pezzi singoli senza perdite ingenti.
È osservazione comune che «il lavoro “ossessionante” provoca depravazione alcoolica e sessuale», ma per poterlo svolgere è necessario mantenere un equilibrio psico-fisico, sia pure «esteriore e meccanico» (Q 2166). Si tratta, indubbiamente, di una contraddizione destinata a riproporsi, o comunque a generare disagio, se non vere e proprie reazioni morbose.
Appare chiaro che il nuovo industrialismo vuole la monogamia, vuole che l’uomo-lavoratore non sperperi le sue energie nervose nella ricerca disordinata ed eccitante del soddisfacimento sessuale occasionale: l’operaio che va al lavoro dopo una unotte di «stravizio» non è un buon lavoratore, l’esaltazione passionale non può andar d’accordo coi movimenti cronometrati dei gesti produttivi legati ai più perfetti automatismi (Q 2167).
Il salto di qualità, la rottura epocale consiste nel fatto che la colonizzazione fordista del tempo della vita abolisce la differenza tra dentro e fuori la fabbrica: anche la vita non lavorativa deve essere funzionale a quella lavorativa. Se questo è vero, cade anche la rigida dicotomia lavoro produttivo-lavoro riproduttivo, produzione di merci-riproduzione della vita. Non nel senso che questa differenza non esista più, bensì nel senso che il secondo polo si modifica modificandosi il primo, e il primo può tanto più modificarsi quanto più il secondo si dispone a modificarsi secondo le esigenze del primo[12].
Anche a proposito della «quistione sessuale», come prima del taylorismo, le analisi gramsciane parrebbero riferirsi ad una situazione ormai lontana nel tempo. Per quanto si possano dare oggi esempi di intrusione (illegittima, per le legislazioni degli Stati liberaldemocratici) nella vita “biologica” dei lavoratori da parte delle aziende, come la discriminazione in base all’orientamento sessuale o l’ostilità nei confronti della maternità delle lavoratrici, oggi non sembra possibile parlare di «repressione sessuale» dei lavoratori come condizione necessaria alla formazione del nuovo lavoratore. Anzi, già da molto tempo si è avanzata la necessità di superare l’«ipotesi repressiva»: basti pensare alla «desublimazione repressiva» di Marcuse, o al rifiuto foucaultiano di considerare la sessualità un dato naturale, che nell’epoca borghese sarebbe stato represso[13].
Se si tiene ferma, tuttavia, l’interpretazione estensiva della categoria di “meccanizzazione” sopra avanzata, cioè come apporto funzionale ed eterodiretto al meccanismo della produzione, allora siamo esentati da un’interpretazione letterale della «quistione sessuale». A risaltare in altorilievo saranno non la (comunque difficile, forse impossibile) repressione sessuale, bensì l’attenzione crescente dell’impresa – secondo modalità spesso irrazionali e contraddittorie, che si risolvono in genere nel trasformare in costi sociali profitti privati[14] – alla vita biologica del lavoratore, di cui il comportamento sessuale è solo una componente, e non necessariamente la più importante. Si pensi a tutte le forme di salutismo, di cura del corpo e, più in generale, di cura di sé sempre più diffuse (dalle diete al fitness, dalla lotta contro il consumo di tabacco e di sostanze stupefacenti alla diffusione di pratiche di rilassamento e meditazione, fino alla consulenza filosofica) grazie all’intervento dei media: attività che aiutano a “star bene”, ad essere più “in forma” – cioè a risultare più efficienti nel lavoro, quindi pienamente funzionali alla produzione.
Ma anche in questo caso è possibile ipotizzare un rovesciamento dialettico, un’appropriazione personale e consapevole delle «tecniche di sé», una creazione di stili di vita più equilibrati, capaci di esprime la potenza di vita di ciascuno. In fondo, si tratta sempre della stessa questione che Gramsci poneva pensando alla classe operaia: «far diventare “libertà” ciò che oggi è “necessità”» (Q 2179).
Il sistema dei valori del marxismo italiano e il pensiero di Antonio Gramsci
Francesco Saverio Trincia
Considero essenziale ed urgente per l’affermarsi di una consapevolezza teorica e politica orientata verso ciò che viene chiamato la “sinistra” , la cui debolezza attuale dipende dalla esclusione di ogni riflessione teorica sui motivi di una discontinuità radicale , e dunque dal silenzio della filosofia , l’analisi critica approfondita dell’antropologia filosofica e morale dominante nei rappresentanti della vicenda storica del marxismo italiano tra gli anni trenta e gli anni ottanta del secolo scorso. Tale vicenda , ormai conclusa, è divenuta oggetto di riprese o aggiornamenti miranti a mantenere in vita un continuismo non teorico in senso stretto, ma spirituale , antropologico e dunque comportamentale , in ogni caso rilevante sul piano della considerazione morale. Nei casi in cui tale sotterraneo e inesplicito continuismo è mancato, tale vicenda è stata del tutto obliata , nel senso specifico che è stata rimossa, dai suoi stessi protagonisti o da coloro che si sono proclamati fino ad un certo momento suoi eredi. Nel migliore dei casi , essa è stata oggetto di serie ricostruzioni storiche. Molto raramente (forse mai) si è avvertito l’incombere dell’obbligo di una riflessione filosofica orientata dalla problematica assiologica e dunque guidata dalla finalità di ricostruire la fisionomia morale media dei marxisti italiani. Altrettante raramente (forse mai, almeno in modo consapevolmente sistematico) , si sono applicate le risorse concettuali del pensiero critico alla comprensione di quella vicenda inestricabilmente politica e teorica. Come conseguenza della più generale distrazione o rimozione dell’interesse ad esercitare criticamente il pensiero, si è del tutto trascurato il riconoscimento della tematica principale intorno a cui la filosofia del marxismo italiano è venuta svolgendosi. Per dirla in breve, non si visto che tale centro è costituito da un complessa ‘macchina’ concettuale alimentata da una potente ideologia, mirante a costruire valori , e dunque configurantesi nei fatti, anche se non nei propositi, come una problematizzazione etica, oltre che rivolta alla ridefinizione della fisionomia stessa dell’etica . A tale macchina ideologica è stato assegbato il compito di produrre e diffondere un‘etica destinata a diventare senso morale collettivo e condiviso.
La circostanza , per molti versi stupefacente , che tale tipo di riflessione critica non si sia configurata come un procedimento autocritico da parte degli intellettuali-politici dai quali , dopo la fine del marxismo italiano e soprattutto dapo la fine del comunismo, ci si sarebbe potuti aspettare una messa a punto radicale e drammaticamente impietosa di una coscienza teorica e di una convizione etica che i tempi storici li obbligavano a considerare estinte, non è l’ultima delle cause della mortificante assenza di una nuova coscienza , di un nuovo sapere etico e politico della sinistra italiana oggi. Mancherebbe un elemento essenziale al quadro che stiamo tracciando per spiegare il senso e l’obiettivo generale delle analisi di alcuni brani del Quaderni del carcere di Anronio Gramsci, se non si aggiungesse subito che un aspetto cruciale caratterizzava la fisionomia intrinsecemente etica della cultura , del modo stesso di essere e di pensare, prima ancora che della filosofia e della prassi dei marxisti italiani. Si tratta della circostanza che il nucleo etico di tale cultura doveva, per il fatto stesso che esso veniva fatto funzionare da motore e da organizzatore della configurazione complessiva di un gruppo concepitosi come il partito della rivoluzione italiana guidata della “filosofia della praxis”, essere nascosto , occultato, persino programmaticamente negato e disconosciuto .
Con una mossa teorica tipica di un’intera stagione della vicenda del totalitarismo teorico ‘progressista’ del Novecento , il nucleo etico del marxismo italiano veniva sviluppato e sfruttato, e al tempo stesso fatto oggetto della delegittimazione che investe l’autonimia della morale.. Nessuna riflessione veniva considerata accettabile allora , quando il marxismo italiano e la realtà oltre che la prospettiva del comunismo erano ancora in vita. La conseguenza del tutto comprensibile, è stata che non si è avuta nessuna riflessione autocritica capace di investire il nucleo etico di quella cultura dopo averlo riportato alla luce, quando la storia ha definitivamnete voltato la sua pagina e anche il ‘secondo’ totalitarsmo è crollato. Nulla è accaduto quando, si potrebbe dire usando il vocabolario di Gramsci, la continuità di “passato” e presente”, avrebbe dovuto essere ricostruira al di fuori delle categorie con cui Gramsci l’aveva pensata, per svelare ciò che le sue categorie dicevano e nascondevano. Sarebbero divenute così realizzabili la ricostruzione di una antropologia e la comprensione razionale necessariamente impietosa di comportamenti individuali, di scelte di pensero e di vita che , per essere stati in alcuni casi nobilmente autentici e persino eroici, non meritavano di essere sottratti alla pià severa analisi di merito, dopo essere stati svincolate dalla gabbia divenuta soffocante degli obblighi etici storicistici, e dei relativismi storici alimentati dall’ideologia.
Il marxismo italiano è, dunque, un’etica nascosta, ma molto potente. La sua forza deriva in gran parte proprio dal suo sottrarsi all’identificazione. Essa è efficace nell’organizzare una nuova coscienza morale, storica e politica per la classe considerata subalterna, proprio in virtù della sua eticità nascosta, non proclamata, denegata sul piano teorico e condannata come “moralismo”. Per questo stesso motivo, la cultura e l’atteggiamento spirituale che gli fanno da sfondo sono di tipo politicistico, non semplicemente politico. Si riassumono infatti nella convinzione non liberale, anzi antiliberale, della riducibilità della realtà storica a politica, intesa come l’agire di masse organizzate mirante alla trasformazione considerata e proclamata progressiva della formazione economico-sociale capitalistica, cementata dalla sua sovrastruttura morale egemonica . Ogni spazio per la dimensione autonomamente creativa delle vite individuali vi è programmaticamente assente. Per questo motivo , ancora, vi manca il solo soggetto imputabile di scelte morali, l’individuo appunto. Ed, infine, come ultimo anallo della catena esplicativa, l’etica nascosta che ne costituisce l’anima, è nascosta appunto perché è destinata ad assumere una forma radicalmente storicistica e collettiva. Le è impedito di costituirsi come autonoma forma dello spirito. Ma un’etica occultata sebbene presente, declinata in senso storicistico e ultraindividuale, avvicina fino a tal punto tale peculiarissima etica del marxismo italiano alla politica, da condurre alla sostanziale scomparsa dell’etica nella politica e inversamente alla assegnazione alla politica dei compiti etici sottratti all’etica autonoma. Viene così circolarmente messo in rilevo l’impasto inestricabile di etica , politica e storia e il modo peculiare in cui un’etica fa valere , entro tale circolarità e grazie ad essa, il proprio predominio politico, ossia il suo essere e voler essere considerata la politica stessa nella sua verità ed autenticità. Considerazioni ulteriori possono essere trovate nel mio La fine delle ideologie: osservazioni sulla storia degli intellettuali nell’Italia contemporanea, “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 2, 1998, pp. 5-32.
Il marxisno italiano è essenzialmente gramscismo. Quelle che abbiamo indicato sono appunto le catteristiche essenziali che il pensiero di Marx assume nell’elaborazione carceraria fattane da Garmsci. Non è un caso che altre declinazioni de marxismo italiano, che hanno tentato la via della polemica contro lo storicismo gramsciano , e che sono stati connotati da un orientamento scintifico empiristico (la linea Della Volpe-Colletti) o dall’enfatizzazione della conflittualità politica prima ancora che economico-sociale tra capitale e lavoro salariato (la linea Tronti-Asor Rosa), abbiano respinto la metafisica storicistica del gramscianeso e al tempo stesso abbiano messo la sordina alle risonanze etiche che pure in alcuni casi sono state percepite da parte di chi (lo stesso Asor Rosa, ad esempio) aveva compreso che in Gramsci si perpetuava il popolarismo etico del Risorgimento italiano (a partire da Gioberti, fino agli Spaventa e a De Sanctis ). Il destino di marginalità storico-culturale degli altri marxismi italiani è la conseguenza del fallimento del tentativo di costruire un marxismo teorico italiano mantenendosi estranei alla potenza ideologica e alla influenza pratica del gramscianesimo come etica storica e della organizzazione del Partito comunista, strumento di quella potenza e di quella influenza. Solo la messa in campo di un’analisi critica del significato dell’etica autonoma nel suo rapporto con la politica e con la storia avrebbe permesso di aprire un orizzonte teorico ulteriore rispetto al marxismo gramsciano e al marxismo in genere. Tale orizzonte non si è aperto nellla storia della cultura italiana del dopoguerra sia perché le strutture teoriche del marxismo non potevano essere messe in discussione da marxisti, per quanto critici, sia perché lo strumento di tale critica avrebbe potuto essere quella teoria dell’etica e dunque quell’etica teorica tradiziolmente assenti in una cultura oscillante tra il realismo politico alla Machiavelli e la dissoluzione idealistica e gentiliana dell’etica nella vita teorico-pratica dello spirito .
Oltre il gramscismo logorato dalla sua stessa politicità, non ci si è interrogati sul senso di tale politicità, non si tentata di percorrere la via di una ripresa della riflessione etica e sull’etica di carattere normativo e assiologico. Non ci si è chiesti, nel momento in cui vicende storiche ma anche specificamente culturali hanno incrinato il riferimento gramsciano alla centralità della storia , alla prospettiva di un nuovo umanesimo basato su un sistema di creazione di valori intessuto da una ideologia che appariva imbattibile, se proprio a partire dalla comprensione dei motivi filosofici della crisi, il dopo-Gramsci non si configurasse come un’operazione di distruzione e ricostruzione di un edificio filosofico basata sul rifiuto della presunta ovvietà dell’etica storica del gramscianesimo. Perciò, la crisi del marxisno italiano ha lasciato dopo di sé le rovine di una cultura ‘progressista’ che non ha saputo, né forse voluto, compiere operazione radicali di ricostruzione non solo storica, ma teoretica , del passato. Che ha quindi , silenziosamente e continuisticamente sfruttato la forza inerziale ormai del tutto passiva dell’etica storica gramsciana.
Riflettere criticamente sul pensiero di Gramsci signfica dunque sottoporre ad esame il sistema dei valori del marxismo italiano che ne è stato condizionato in maniera quasi esclusiva. Significa, inoltre, mettersi in condizione di gettare una qualche luce sul vuoto di teoria politica , di definizione del rapporto politica-etica e di ridefinizione di una etica pubblica, che si è aperto nella continuità non interrotta di un pensiero in crisi, abbandonato, ma non rilelaborato, quindi non realmente respinto. Perciò, almeno sul piano antropologico, ancora in vita. Si tratta di un punto centrale che deve essere ribadito, poiché guida e condiziona l’analisi dal punto di vista degli interessi del presente. Il marxismo di Gramsci è, s’è detto, un’etica storica consapevolmente costruita come tale. Il suo contenuto principle è che etica sia la denominazione di una creazione colletiva di valori, guida di un agire esso stesso collettivo. La sua peculiare “universalità” , per usare il termine che Gramsci usa allo scopo di non recidere almeno verbalmente il legame con la principale delle connotazioni della specificità dell’agire etico da Kant in vanti, consiste nel fatto che l’obiettivo di emancipazione perseguito si realizza attraverso la trasformazione e la unificazione della società come un complesso organico lacerato. Questo è il compito storico della classe essa stessa “universale” (nel linguaggio di Marx ripreso da Gramsci) . Solo nel senso per cui quel che riguarda la totalità della società viene definito “universale”, solo cioè grazie a questo fatale slittamento semantico rispetto alla Allgemeinheit kantiana, l’etica storica gramsciana ha funzionato come una macchina ideologica edificatrice di valori..
Tale carattere del marxismo gramsciano, divenuto carattere del marxismo italiano e cultura di riferimento dei comunisti italiani, per cui esso è un sistema dinamico di valori etici attribuiti ad un soggetto sociale potenzialmente universale nel senso che è capace di universalizzare-unificare la totalità della società, costituisce il filo rosso lungo cui viene formandosi l’antropologia comunista in Italia, dalle origini, alla lotta natifascista, alla Resistenza , al comunismo della democrazia del dopoguerra , fino alla rottura del 1989. Questo sistema di valori configurantesi come un’etica universale in senso storico, ed occultante sotto la presunta necessità della storia la sua autentica ispirazione etica, è la fonte di una intrinseca ambiguità, di una costitutiva ambivalenza. In quanto sistema assiologico nascostamente normativo, il marxismo gransciano (e italiano) produce, difende polemicamente e diffonde un’etica della responsabilità anche individuale, ma mai tuttavia originariamente e costitutivamente individuale. Tale sitema di valori guida gli individui fino ai vertici di un eroismo radicale, consapevole ma antiretorico. La figura personale di Gramsci , la sua fisionomia morale, la sua riflessione più soggettiva (quella affidata alle lettere dal carcere) ne sono l’espressione non teorica, non astratta. In Gramsci , nei tanti che si sono formari sul suo modello antropologico, il marxismo come sitema di valori diventa un’autentica morale vivente. Essa trova nella resistenza contro l’oppressione fascista il suo non obliale funzione storica e la sua nobilità.
At tempo stesso, tuttavia, in quanto etica storica e collettiva, in quanto cioè espressione di una universalità che fonde, e confonde, in sè piano normativo e piano storico-sociale , e che condiziona in questo stesso senso la formazione delle coscienze individuali, il marxismo gramsciano si configura come progetto di costruzione e di difesa del “vero io” , dell’io non semplicemente empirico e contingente, degli individui (così, si ricorderà, Isaiah Berlin definisce il soggetto della libertà che chiama “positiva” ed emancipatoria) . Esso mira all’edificazione di quell’autentico ossimoro costituito dall’idea di una “cosciena universale”, ossia di quella coscienza sociale che deve essere conquista etica individuale degli individui già virtualmente universali che si battano per la universalizzazione-unificazioe della sociatà passando così dalla loro universalità “in sé” alla loro auniversalità “per sé”. Pur non esplicitamente cancellata, l’autonomia della coscienza morale individuale viene profondamente deformata attraverso la sovrapposizione ad essa di un valore morale non originariamente suo, in quanto assegnatogli dalla storia che determina ed impone il suo unico compito etico. Lungo una linea di non interrotta continuità rispetto alla tradizione idealistica e neoidealistica gentiliana, criticata ma non respinta, la moralità (individuale) trova la sua verità solo svolgendosi in eticità (pubblica, sociale, politica, cununque ultraindividuale).
Se la morale diventa etica e la distinzione tra etica e politica si attenua, è la politica , abbiamo detto, che diviene il vero e proprio centro motore, l’autentica sorgente di senso del sistema dei valori del marxisno italiano di origine gramsciana. Ciò accade ( si tratta di un punto importante che indica un aspetto non secondario del gramscismo) senza che il modo machiavlliano della distinzione tra politica e morale venga ripensato. L’etica diviene politica, ma la politica resta l’arte della conquista e del mantenimento del potere, sia pure attraverso esercizione dell’”egemonia” e non del “dominio” violento. La divaricazione tra assolutezza e universalità della coscienza morale individuale , e assolutezza sartrianamente “totalizzata” della coscienza collettiva , etica bensì, ma in senso politico radicalmente non normativo, si fa molto profonda. La morale privata è trascesa bensì nella morale pubblica identificata con la politica, ma quest’ultima non conserva affatto quel che supera , come accade nello Aufheben hegeliano. Le accuse di moralismo rivolte da Gramsci alla incomprensione da parte della mirale privata dell’assolutezza della politica-storia sono un segnale inequivocabile di quel che osserviamo. Il marxismo italiano, pur restando una macchina creatrice di valori etici del tipo che abbiamo appena descritto, anzi proprio in virtù di tale sua fisionomia, finisce quindi per autorizzare di fatto ( pur senza legittimarle teoricamente) le ambivalenze morali , se non la vera e propria sospensione dell’autonomia della morale individuale , che appaiono del tutto coerenti con il politicismo di matrice machiavelliana.
L’etica storica marxista autorizza infatti la convinzione (infondata dal punto di vista di un’etica normativa non dimentica della sua origine apriorica) della superiorità etico-storica di un gruppo sociale rispetto ad un altro e dunque del maggiore valore della sua etica, ma anche della superiore e della necessaria prevalenza dell’etica storica collettiva rispetto alla eventuale pretesa di una coscienza morale individuale di difendere la pripria autonomia. Del tutto indipendentemente dal suo valore morale individuale storicamente più volte testimoniato da scelte che possono essere assolutamente eroiche, l’intellettuale gramsciano è persona strutturalmente ambivalente. Nelle sue “due anime” , come le avrebbe chiamate Goethe, convivono e possono confliggere l’estremo della dedizione ad una causa fino al punto del sacrificio della vita, valore individuale supremo, e l’estremo della individuale irresponsabilità, ossia della disponibilità ad accettare una politica autoritaria e totalitaria , del tutto indifferente ai diritti e ai destini degli individui. Non alla sua sola coscienza, ossia non alla assoluta apriorità della norma etica risponde ogni individuo. E’ un’osservazione psicologica elementare confermata dalla storia di tanti comunisti italiani, che l’ambivalenza di cui parliamo non spezza in due la personalità ma forme piuttosto una personalità forte della sua identità ambigua, nella quale eroismo altruistico e dedizione alla causa rivoluzionaria, e indifferenza ai destini dei singoli operano reciprocamente l’uno a vantaggio dell’altro
Nel sesto quaderno (QDC, Torino 1975, pp. 750-751) incontriamo una prima indicazione molto chiara del senso della nozione di universalità utilizzata da Gramsci. Ogni associazione, scrive alludendo (secondo il modulo letteriario tipico della sua sociologia partecipe del suo stesso oggetto) al partito politico che prepara autoplasmandosi in base a principi la trasformazione dell’ordine sociale capitalistico, deve essere sostenuta appunto da determinati “ principi etici”. Questo distingue l’associazione politica dall’agostiniana banda di briganti associati. Si precisa subito quale sia il dicrimine teorico fondamentale. I principi etici hanno una funzione strumentale: essi servono infatti ha mantenere la compattezza interna e l’omogeneità necessaria al raggiungimento del fine. L’omogeneità dell’associazione politica rivoluzionaria anticipa l’unità organica della società che essa è chiamata a far sorgere. L’etica viene resa funzionale al’obiettivo della unificazione dell’organizzazione. In generale, dunque, è l’unificazione ciò che i principi etici raggiungono, fin da quando funzionano come mezzi di una organizzazione politica oreintata ad un fine. Solo dopo, e sulla base di tale tesi essenziale, si dice che la strumentalità dei principi etici non li rende “sprovvisti di carattere universale”. Gramsci ritiene tuttavia di poter ricavare l’universalità dei principi etici funzionali all’azione e ai fini dell’organizzazione politica, proprio dalla politicità dell’obiettivo perseguito. La fusione di etica e politica implica certamente la fusione antiguicciardiniana del “particulare” e dell’”universale”, ma ciò accade per una associazione definita “normale” , nei caso in cui essa si concepisce come élite ed avanguardia. Per quanto possa apparire strano e paradossale, è proprio la fisionomia di avanguardia politica che rivolge il suo operare teleologico oltre i suoi confini, ma a partire da se stessa concepita come guida della trasformazione sociale , e che supera così la propria “particularità”, ciò che eleva ad universalità i suoi principi etici. Si noti tuttavia che l’universalità viene attinta per il tramite dell’allargargamento orizzontale e spaziale-sociale della “particularità”, e non grazie ad un movimento di ascensione verticale e quindi ad trascendimento di essa. La parzialità e partiticità dell’organizzazione è condizione necessaria di una universalizzazione che può possedere solo un carattere storico e politico, non certo autenticamente morale o etico. Un aspetto ‘quantitativo’ e spaziale molto netto definisce l’universaità di una associazione che si concepisce “come legata da milioni di fili a un dato raggruppamento sociale e per suo tramite a tutta l’umanità”.
“Universalità” è dunque esattamente la connotazione di quel valore etico-storico intrinsecamnete sociale che consente ad una associazione di “allargarsi ad un raggruppamento sociale, che anch’esso è concepito come tende ad unificare tutta l’umanità”, L’universalità di tale valore che Gramsci vorrebbe fosse inteso come indistinguibilmente morale e politico è radicata in un gruppo sociale storico e serve a guidarne la totalizzazione. Nulla di apriorico la definisce, poiché è piuttosto il gruppo sociale storicamenete determinato e deciso a coincidere con la totalità dell’umanità alla fine di una certa vicenda storica, a decidere il contenuto e prima ancors il significato dell’universalità. Si potrebbe osservare, dopo aver notato che l’universalità autentica di ogni valore , quel che ne fa qualcosa di etico, piuttosto precede e condiziona la decisione storico empirica , e letteralmente le dà forma, che l’ampliamento ad umanità totale di un gruppo sociale non contiene nulla di etico – a meno che il termine non venga radicalmente ridefinito e semanticamente deformato. Il fatto stesso che il decidere e il volere di carattere etico siano sottratti alla loro costitutiva impersonalità ed attribuiti ad un soggetto storico empirico, per di più collettivo, indica chiaramenete la profondità di tale deformazione semantica. Il valore etico deve essere prima del tutto svuotato del suo significato teoretico, se viene chiamato a fungere nel modo che nel contesto del pensiero gramsciano gli viene assegnato: deve in sostanza essere trasformato nel vertice teorico, storicamente attivo ed operante, di una grandiosa costruzione ideologica. Gramsci compie questa operazione presentandola tuttavia come se fosse una vera e propria operazione teoretica che si serve degli strumenti concettuali e del vocabolario (la nozione di universalità, anzitutto) che sono proprie della tradizione filosofica. Ambizione evidente di Gramsci è infatti di far parlare ciò che è epistemicamente eterno e sovratemporale nella lingua della storia e della politica. Spetta alla filosofia la verifica della solidità ( o inversamente l’inconsistenza e l’eventuale pericolosotà) di tale operazione. E’ suo compito chiedere conto della legittimità di tale tracimazione semantica delle nozioni etiche e del significato stesso dell’etica che si produce in molti passi dei Quaderni.
Perché mai, ossia per quali necessarie motivazioni legittimamente definibili come “etiche” , l’etica di un gruppo, ossia il suo programma di trasformazione politica e sociale, “dev’essere concepita come capace di diventare norma di condotta di tutta l’umanità”? E’ evidente infatti che il passaggio che si vorrebbe universalizzante, e che conduce dal gruppo etico all’umanita intera unificata in nome del suo valore, presuppone la definizione e la prova delle ragioni della validità del valore considerato etico che il gruppo intende far divenire ‘di tutti’. Ma questa definizione, questa prova , mancano entrambe e vengono sostituite dalla retorica filosofica dell’unificazione dell’umanità in nome di valori di carattere storico e come tali mutevoli e manipolabili, secondo il destino di tutto ciò che è contingentemente voluto e deciso. Se si obietta che questi valori sono impliciti nella lotta autoemancipativa condotta dalla classe sfruttata e dalle classi subalterne e che si tratta dunque del valore del comunismo teorizzato da Marx, sarà agevole controbbattere che la natura assoiologica della lotta per l’emancipazione è esplicitamente respinta dalla radicale ed esplicita ostilità del marxisno marxiano ad ogni forma di progetto morale. E si dovrà aggiungere che nel compiere questa scelta teorica antietica respinta dal marxismo gramsciano, il fondatore del socialismo scientifico mostrava una coerenza superiore rispetto al suo pur acuto interprete e trasformatore, perché, storicista coerente e radicale, non avrebbe mai ritenuto che l’“universalità” della volontà morale teorizzata da Kant potesse essere per qualsiasi motivo trasformata in valore etico della lotta del moderno proletariato di fabbrica. Marx sapeva bene infatti che l’universalità morale kantiana trova il suo principale fondamento nell’essere edificata oltre e contro ogni condizionamento sensibile, oltre e contro ogni appertenenza a gruppi sociale storici. Assegnava bensi una parte consistente della tradizione della filosofia occidentale ad un destino di superamento pratico, ma proprio per questo motivo non aveva bisogno di compiere le forzature ideologiche di tale tradizione nelle quali si è esercitato Gramsci.
Il padre della tesi che ogni teoria, anche di quella etica, è una costruzione storica intrinsecamente subordinata al dominio delle condizioni sociali della produzione materiale è assai meno potentemente ideologico nel suo del tutto marginale riflettere sull’etica come pensatore dell’etica impossibile, di quanto non lo sia il suo erede ed interprete italiano. Ma Gramsci era quel che Marx non era : un pensatore politico radicale, ossia solo politico, un pensatore di partito, un uomo che dalla sua collocazione storica aveva ricavato anzitutto la traducibilità piena della “scienza”, per quanto critica, in “cultura” e in riflessione politica sulla cultura. La “scienza” marxiana ospita la franca negazione dell’autonomia della morale come forma dello spirito e della marginalità di ogni concreto agire che si voglia morale. La “cultura” gramsciana recupera silenziosamente (nascostamente, abbiamo detto) la dimensione dell’etica , senza ritenersi impegnata (e in quanto riflessione culturale non lo era di diritto) a fornire prove della sua nozione di una universalità storica e sociale.
Non meraviglia, dunque, che il passaggio successivo del frammento gramsciano che stiamo commentando contenga un passaggio alla “politica” brusco e straniante solo per chi non abbia compreso che politica è fin dall’inizio l’ispirazione di fondo del suo argomentare. Non basta tuttavia ribadire che Gramsci ragiona in chiave essenzialmente politica. Gramsci compie infatti una vera e prpria deduzione concettuale dell’assolutezza della politica, nell’ambito della quale il passaggio cruciale è dato della scomparsa dalla separazione di morale e politica. “La politica è concepita come un processo che sboccherà nella morale, cioè come tendente a sboccare in una forma di convivenza in cui politica e quindi morale saranno superate entrambe”. Nessuna autonomia dells fera etica resta pensabile, se il superamento della separazione tra politica e morale si configura come uno sfociare della prima nella seconda, ossia come una produzione politica della morale. Perché questo avvenga – a prescindere ora dalla questione della seria compromissione della libera e responsabile scelta etica individuale che è implicita in tale posizione – una qualche morale deve pur essere presupposta . Ma ciò che viene presupposto è in realtà soltanto la necessità dello svolginento circolare della morale nella politica che la produce e la riproduce. E’ morale il fatto che la politica sfoci in una morale o in un’etica unificante la società , a partire della volonta ( secondo Gramsci “etica”) storicamente determinata di un gruppo sociale. E’ morale proprio questa circolarità. Affinchè non restino degli equivoci circa il senso di questa posizione, si ricordi qul che Gramsci aggiunge tra parentesi e se ne misuri tutto il peso: “Da questo punto di vista storicistico può solo spiegarsi l’angoscia di molti sul contrasto tra morale privata e morale pubblica-politica: essa è un riflesso inconsapevole e sentimentalmente acritico delle contraddiziioni dell’attuale società, cioè dell’assenza di uguagliaza dei soggetti morali”.
Dunque: osservata restrospettivamente dal punto di vita assologico indistinguibilmnete morale e politico, ossia dal punto cui non essendoci più differenza, separazione, contrasto, tra morale e politica, viene finalmente attinta la scomparsa delle differenze morali tra gli individui, divenuti non solo materialmente ma anche moralmente uguali, la preoccupazione che qualcosa di rilevante nella necessaria limitazione della prevalenza della politica sia in gioco nel contrasto tra morale privata a e morale politica viene meno del tutto. E ‘il punto di vista restrospettivo, quello in cui è finalmente messo fine alla differenza spirituale tra gli individui (ossia, si noti, a quel che fa di un individuo appunto un insuperabile essere della singolarità coscienziale) ciò che comanda entro l’assiologia storicistica di Gramsci la condanna del sentimentalismo di chi si attarda , acriticamente o per interesse a mantenere in vita le contraddizioni di un certa società, ad angosciarsi sulla circostanza che quel che vuole la coscienza morale sia respinto come privo di valore o come di minor valore dal punto di vista politico. Per attingere il risultato dell’azzeramento del problema, la soluzione gramscian si appoggia alla prospettiva futurologica da cui il contrasto appare restrospettivamente superato. Nel punto di vista del futuro da attingere, a partire dal quale si rivolge lo sguardo critico al passato segnato dalla inconseguenza acritica che separa morale e politica , riposa nascostamente il valore storicistico che comanda l’intera argomentazione. La storia assegna agli esseri umani il compito di giungere per via politica ad un ordine esso stesso politico, ove la politica non debba affrontare contrasti, ove vengano meno i conflitti che si riassumono nella differenza del volere morale dal volere politico. Di nuovo, l’ordine sociale unificato in quanto tale è il valore che trascende ogni altro preteso “valore”.
Il quaderno 11 (QDC , pp.1484-5) offre una conferma soprendentemente chiara del vero e proprio rovescimento del kantismo morale compiuto da un Gramsci evidentemente convinto che le sorti della “filosofia della prassi” e della nozione chiave di “egemonia” dipendano dalla capacità di trasformare l’etica kantiana dell’autonomia, mentre si tenta al tempo stesso di mantenersi all’interno della tradizione della filosofia morale moderna. L’operazione fallisce , ma è interessante che Gramsci la compia poiché ciò rende micrologicamnete visibile il progetto filosofico cui egli lavora. Un vocabolario viene svuotato dei suoi contenuti originali e viene riempito di altri contenuti, senza che il senso dell’operazione venga reso comprensibile. E’ molto rilevante, naturalmente, ma non sposta di nulla l’obiettività del problema , il fatto che Gramsci ponga tutta la sua sincerità e passione di pensatore politico nell’atteggiamneto ambivalente del conservare per distruggere un caposaldo della filosofia morale. Nel testo intitolato Etica egli si propone di esaminare criticamente quella che Kant chiama della Critica della ragion pratica, pgf. 7, la “Legge fondamentale della ragion pura pratica” .
Sarebbe ovviamente molto importante comprendere le ragioni della fomulazione che Gramsci offre, vigolettandola, di tale legge , ma questo problema (rinviante alle fonti delle letture carcerarie di Gramsci) esula in questa sede dal nostro interesse. Viene da chiedersi in ogni caso come Gramsci abbia potuto prendere per buona una così profonda deformazione della famosa legge kantiana, se la aveva trovata in qualche opera di Kant tradotta. Si stenta a credere che egli sia vittima semplicemente della propria ignoranza della storia della filosofia . Rilevante resta comunque (in virtù della eccezionale notorietà anche scolastica della tesi kantiana) il dato di fatto che il Kant di Gramsci ennunci la sua massima come segue :”Opera in modo che la tua condotta possa diventare una norma per tutti gli uomini, in condizioni simili”. Kant si esprime , come è noto, altrimenti: “Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale”. Non è difficile comprendere che il punto in cui interviene la deformazione gramsciana è quello in cui l’universalità della massima dell’azione individuale, ricavata dalla sua compatibilità con una legislazione universale che la include e legittima , viene fatta cadere. Secondo Kant , la legge che sovraintende al comportamento morale è quella che impone al singolo di agire in modo che il suo comportamento individuale sia compatibile con , compreso in e sottoponibile a una legislazione valida per tutti “in ogni tempo” . Essa dunque viene sottratta ai condizionamenti che sulla sua validità può esercitare il mutamento dei tempi. Tra l’universalità di una legislazione che impone ed obbliga (non quindi di un semplice comportamento che empiricamente accade) e la sovratemporalità di una validità non dipendente dal tempo il rapporto è strettissimo e circolare.
Gramsci distrugge il senso della legge kantiana, grazie a quella aggiunta, “in condizioni simili”, che ne rovescia letteralmente il significato , poiché fa dipendere il valore morale della massima dalla esitenza di condizioni di applicazioni simili. All’universalità apriorica si sostituisce l’emprica confrontabilà di condizioni storiche più o meno simili. Nella Fondazione della metafisica dei contumi (tr. it. Roma-Bari 1997 , p.87) Kant accentua l’apriorità razionale della legge : “E’ una legge necessaria per tutti gli esseri razionali giudicare sempre le proprie azioni secondo massime tali che essi possano volere debbano servire da leggi universali? Se tale legge è necessaria, allora non può non essere (del tutto a priori) già connessa con il concetto della volontà di un essere razionale in generale”. Tutto diviene problematico, rispetto alla tesi kantiana, se si tenta di farle dire quel che essa non dice , ossia che l’universalità della legge richiede la somiglianza delle condizioni. Ne consegue la pura e semplice scomparsa di ogni significato dell’universalità – e la totale insignificaza della legge stessa, che finisce per non poter comandare nulla. Dato che, osserva Gramsci , la nozione di “condizione” è vaga poiché in effetti, divenuta il surrogato della apriorica universalità, essa designa un indeterminato ed empiricamente incerto ambito del reale e della sua latitudine, la legge kantiana finisce per essere un semplice “truismo, poiché è difficile trovare uno che non operi credendo di trovarsi nelle condizioni in cui tutti opererebbero come lui” .
In Kant il problema morale non si porrebbe affatto se l’universalità della massima consistesse nella empirica convinzione di ognuno dell’opportunità di agire come ogni suo simile agirebbe, se le condizioni fossero “simili”. Gramsci sostiene invece proprio questo. La sua distruzione dell’autonomia , universalità e apriorità dell morale kantiana è totale, e , conviene ribadirlo, pienamente consapevole. L’evidente brutalità, l’ovvia immoralità degli esempi che adduce (“chi ruba per fame ritiene che chi ha fame ruberebbe , chi ammazza la moglie infedele ritiene che tutti i mariti traditi dovrebbero ammazzare ecc.”), rispondono allo scopo di far capire che con il termine “etica” si può intendere, in base alla formula che viene attribuita a Kant, nient’altro che la giustificazione di qualsisi peggiore azione compiuta per semplice spirito conformistico. “Etica”, secondo il Kant distrutto da Gramsci , è ciò che tutti fanno e sono psicologicamente portati a fare. Soltanto i “matti” , che “operano senza ritenere di essere nel giusto” sono esclusi da tale conformismo etico. Essi infatti , non si conformano al comportamento generale ceteris paribus, che non conoscono e non posso quindi essere “etici”.
E’ in qualche misura impressionante il modo in cui Gramsci, avvertendo la distanza della sua ‘interpretazione’ da ogni traccia di universalità (non per caso non nominata, sebbene si mantenga il termine “norma”), ne deduce la conseguenza della cecità e insensibilità di Kant di fronte alla presunta evidenza della coesitente molteplicità delle culture. Il punto è di grande interesse, poiché coinvolge la tematica del cosiddetto “multiculturalismo” non eurocentrico, che costituisce uno dei temi di filosofia sociale più caldi nella cultura occidentale odierna. Essendo ovvio per Gramsci che Kant abbia voluto assegnare alla pur non nominata universalità etica il significato secondo cui “ognuno opera secondo la sua cultura”, ne deduce da tale presunta e paradossale nozione di universalità kantiana che Kant abbia esteso a tutti gli uomini del mondo quel che può valere solo per gli uomini del suo ambiente storico empirico. Kant , per tener fermo il senso gruppale della sua universalità etica e cionostante ritenere che si tratti appunto di una autentica universalità, sarebbe stato costretto a presupporre ciò che oggi i multiculturalisti rimproverano ai filosofi universalisti ispirati da Kant, ossia che si diano una solo cultura, una sola religione , un conformismo ‘mondiale’”.
L’obiezione che va rivolta a Gramsci e agli odierni multiculturalisti che mostrano di essere gli eredi del suo storicismo investe naturalmente il punto di principio, sul quale convergono le tesi di universalisti postkantiani pur tanto diversi come Leo Strauss e Edmund Husserl. Non si ricava alcuna etica normativa da un fondamento storicistico. Lo storicismo in etica conduce alla deformazioni del tipo di quelle che Gramsci esibisce con tanta chiarezza, perché esso presuppone e riproduce la convinzione scettica e relativistica della inesistenza di una norma apriorica universale , indipendente da condizioni giustificative di qualsiasi tipo. Bisogna aggiungere che, proprio in virtù dell’universalità aprioririca che connota tale norma, può produrre quella vera unificazione normativa e di principio degli esseri umani, alla quale soltanto lei può accompagnare il pieno rispetto della variopinta e non unificabile serie delle scelte culturali degli esseri umani . Tali scelte sono garantite, e non cancellate, dalla richiesta kantiana che ogni essere umano agisca in modo che la massima del suo agire possa essere fatta propria da esseri umani fattualmente diversi da lui, ma come lui esseri razionali. La legislatività della norma etica universale consiste nel riconoscimento dell’esistenza di principi generalissimi dell’egire umano che devono essere rispettati se l’universalatà empirica del genere umano deve trovare un corrispettivo fondativo nell’universalità apriorica . Quest’ultima consente che “tutti gli uomini” si riconoscano uguali in linea di principio e in linea di diritto nel perseguimento delle rispettive scelte esistenziali , all’interno delle rispettive culture di appartenenza.
Tale tesi viene rovesciata se si presuppone che un gruppo sociale storico sia e resti estraneo ad un universalismo etico che per principio non gli appartiene perché è appunto un principio e non indica un semplice comportamento culturale. Gramsci ritiene di poter attribuire ad un certo gruppo sociale la capacità di far crescere in direzione di una universalità totalizzante ed unificante il genere umano quella virtualità “etica” che gli viene attribuita per motivi ideologici e non apriorici . Il suo presupposto è falso . Su quale base filosofica, infatti, si ritiene che un certo gruppo sociale sia virtualmente capace di unificare il genere umano e perché mai tale unificazione comunque producentesi dal basso, dovrebbe realizzare una unificazione mondiale dell’umanità su cui non gravi il pericolo di sacrificare le differenze e le libertà individuali? Non meno falso e pericoloso è l’esito pratico di quel presupposto che, configurandosi appunto come una preventiva negazione della normatività universale, conduce alla creazione di unità politico-sociali esplicitamente contrassegnate dalla scomparsa del diritto alla libera scelta “privata”. In tali progetti di unificazione sociale perseguite da una politica che ha assorbito in sé la morale avremo comunque un orizzonte politico totalizzante, ove trova piena conferma il presupposto antietico dell’intero progetto. Il progetto stesso non potrebbe sussistere senza il radicale noscondimento dell’universalità etica realizzato grazie al mantenimento di un’apparente eguaglianza semantica, di un’illusoria, initerrotta continuità concettuale.
La crisi della grandi narrazioni storicistiche, e dunque la crisi del gramscismo, non ha provocato nel nostro paese la scomparsa dello storicismo antietico. Tutte le declinazioni del multiculturalismo , ma anche le dottrine dette “comunitariste”, come quella dei seguaci di Charles Taylor, costituiscono l’esito di una sorta di orizzontalizzazione e spazializzazione del relativismo antietico specificamente antikantiano, originariamente declinato da Gransci nella forma della temporalità progressiva e teleologica dello storicismo dominante nel marxismo italiano. Dopo Gramsci, ma non senza la sua indiretta e persistente influenza, la scelta antietica si esprime nella convinzione della assurdità dell’esistenza di un ordine del valore e dunque della valutazione morale intrinsecamente superiore alle scelte di comportamento che guidano gli esseri umani entro questo o quell’ambito culturale. Rivive nel multiculturalismo contemporaneo il rimprovero di Gramsci a Kant , di aver voluto imporre , con la nozione di universalità, il riconoscimento dell’esistenza di una sola cultura sulla scena del mondo. Rimproveri di questo genere, tanto palesemnte forzati e ingiustificati da apparire come falsità ideologiche, per quanto motivate da cause nobili, non dovrebbero più avere diritto di accoglienza acritica nella polis filosofica in cui oggi viviamo.
GRAMSCI E IL PROBLEMA DELLA FILOSOFIA ITALIANA
(nel 70° della morte)
1. Affrontare il tema dei rapporti tra il pensiero gramsciano e la tradizione filosofica nazionale, significa essere rimandati innanzi tutto al problema del suo rapporto con il neoidealismo di Croce e Gentile. Ma – ed è il punto di vista che vorrei proporre in queste note – tale rapporto (benché a prima vista dominante) non esaurisce affatto il problema della concezione gramsciana della «filosofia» e della definizione conseguente di Gramsci come «filosofo italiano». A ben guardare, quello del debito o della «eredità» hegeliana della marxiana «filosofia della prassi» rivendicata in termini espliciti dall’estensore dei Quaderni del carcere ha finito per rivelarsi più un «pregiudizio» (quando non addirittura come un autentico «ostacolo epistemologico» per la disamina spregiudicata del contributo gramsciano al rinnovamento della filosofia italiana contemporanea) che uno strumento utile alla penetrazione ermeneutica della «novità» gramsciana. In una prima fase (quella degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta) a dominare era il rapporto con Croce, e la controversa valutazione della valenza «materialistica» o «idealistica» della proposta – contenuta nei Quaderni – dell’«Anti-Croce» quale antidoto necessario alla involuzione metafisica e positivista del marxismo e contributo dialettico al suo rinnovamento teorico [Q,1234 (q 10 § 11)]. Nella polemica tra marxisti «storicisti» e «dellavolpiani», che ebbe un peso decisivo nella maturazione di un «neomarxismo» nelle «nuove generazioni», prima ancora del problema – che appariva allora attuale – del «ritorno a Marx»[15], a condizionare il giudizio sulla accettabilità o meno della provocazione gramsciana era la persistenza (sovente acritica) di uno scontato luogo comune storiografico, che identificava filosofia italiana con «dittatura idealistica di Croce-Gentile» sulla cultura nazionale del primo Novecento, che assumeva con tono largamente autoconsolatorio il topos banfiano del neoidealismo italiano quale sinonimo di «provincialismo» e di «arretratezza», che era disposta persino a riconoscere la «valenza filosofica» del marxismo, purché rimpannucciato in vesti accademicamente più consone: «neopositiviste», «esistenzialiste», «cristiane», e via discorrendo. La vicinanza di Gramsci a Croce, abilmente sfruttata nella politica culturale togliattiana per «traghettare» verso posizioni ideologiche non più scontatamente anticomuniste (e più «virtuosamente» antifasciste) numerosissimi intellettuali di formazione crociana o gentiliana, appariva come una riuscita operazione «egemonica», ma poteva facilmente ritorcersi sull’immagine stessa di Gramsci, nel suo ingenuo proporsi come «filosofo italiano», il cui «rovesciamento materialistico» dello hegelismo di Croce (anziché di quello originario di Hegel, su cui aveva operato la «rodente critica» di Marx ed Engels) non poteva che restituirci una versione «idealistica», «sovrastrutturale», e in definitiva anch’essa «provinciale» del marxismo. In questo giudizio liquidatorio la raffinata versione del marxismo «galileiano» di Galvano della Volpe (specialmente nella versione popolare dei suoi epigoni di destra e di sinistra: Lucio Colletti e Mario Tronti) finiva per incontrarsi con il «semplicismo» semi-tolstojano e il «marxismo letterale» di Amadeo Bordiga[16].
In una seconda fase (che si apre con la crisi degli anni Settanta e con i revisionismi successivi, che ancora in larga misura ci condizionano) a venire in primo piano è il rapporto con Gentile, che – a partire dal fondamentale libro di Augusto Del Noce, Il suicidio della rivoluzione del 1978 – prende il posto di Croce, nella posizione di «antecedente logico-storico» del marxismo di Gramsci[17], fino a trasformare in una formula di senso comune quella di Gentile e Gramsci come «i due pensatori maggiori del totalitarismo italiano» e fino a penetrare senza resistenza nella consapevolezza culturale di molti esponenti della odierna cultura di sinistra post-comunista e «democratica»[18]. Sostenitore della tesi della «antecedenza ideale» della filosofia gentiliana rispetto a quella crociana – tesi che si veniva sostituendo, sul terreno della revisione storiografica dei giudizi sul nostro idealismo novecentesco, alle precedenti formule: quella della «antecedenza ideale» della filosofia crociana rispetto alla gentiliana, ovvero quella del «carattere affatto diverso» delle due filosofie, che le rendeva inconfrontabili – Del Noce finiva per indicare in Gentile «il punto ultimo dello svolgimento dello hegelismo in termini di filosofia della prassi»[19] e nel suo «attualismo» la più «radicale critica della filosofia speculativa o contemplativa»[20] che si fosse avuta nel Novecento. Con la conseguenza di considerare la crociana «filosofia dello spirito» una «ritraduzione in termini di filosofia speculativa della filosofia della prassi di Gentile»[21] e lo stesso Anti-Croce di Gramsci un falso «rovesciamento» materialistico, destinato a rimanere succube dell’attualismo: «Gramsci, nella sua ritraduzione, avrebbe dovuto ritrovare Gentile, o ripensare in forma attualistica il marxismo, dato che la filosofia di Croce è l’esatta traduzione in termini di filosofia speculativa, non del pensiero di Marx, ma di quello di Gentile»[22]; o ancora: «si tratta di porre in chiaro come nell’attualismo, e più precisamente nella veduta attualista della storia della filosofia, ci siano possibilità politiche diverse: l’una porta il risorgimentale Gentile all’adesione al fascismo, l’altra al rivoluzionario Gramsci»[23]. Che non si trattasse solo di una lettura «apologetica» (culminante nell’idea di un «suicidio della rivoluzione», in perfetto contrappasso al «suicidio della religione» intravisto da Gramsci come probabile destino storico del cattolicesimo) bensì fortemente «suggestiva» (non solo perché basata su una conoscenza approfondita degli scritti gramsciani, di cui in quegli anni si andava approntando l’edizione critica, ma per la stessa autorevolezza di Del Noce come studioso della filosofia italiana), è testimoniato anche dalla facilità con cui la nuova idea di un Gramsci «inconsapevolmente gentiliano» ha finito con l’imporsi nella vulgata storica giornalistica, di pari passo con l’immancabile «sdoganamento» ideologico di Gentile come «filosofo europeo».
Si potrebbe concludere – con una ironia che non sarebbe affatto dispiaciuta a Gramsci – che tra la Scilla di Croce e la Cariddi di Gentile non c’era scampo per un anticonformista autentico come lui, non rassegnato a svolgere il ruolo del «povero untorello» della tradizione filosofica «italica». Ma prima di adagiarci in questa conclusione polemica e di provare poi a spostare l’ottica tutt’ora prevalente sul Gramsci «filosofo italiano», possiamo aggiungere qualche parola di apologia della sua «verità»[24] filosofica, ricavandola dagli stessi testi gramsciani. Per quanto riguarda Della Volpe e la retorica del marxismo «scientifico» o «galileiano», da lui contrapposto a quello «idealistico» o «crociano-hegeliano» di Gramsci (una retorica che non ha del tutto esaurito la sua forza di suggestione, nell’ambito del neomarxismo odierno), si potrebbe citare un brano dell’articolo Misteri della cultura e della poesia, su «Il Grido del Popolo» del 19 ottobre 1918, in cui si legge tra l’altro:
Il metodo sperimentale e positivo, come metodo di ricerca scientifica spassionato e disinteressato, è anche del materialismo storico, ma non è dipendente da esso: è il metodo proprio delle scienze, e il primo a dargli una sistemazione logica è stato Galileo Galilei. Il materialismo storico ha dimostrato che la ricerca storica doveva svolgersi sistematicamente anche e specialmente ai fenomeni economici, senza la conoscenza dei quali la storia è pura esteriorità senza sostanza, […] caos fraseologico appassionato e non ordine, non scientifica ricreazione. Il materialismo storico ha quindi integrato il metodo sperimentale e positivo applicato alla ricerca e allo studio degli accadimenti umani, dei fenomeni sociali, e non si confonde neppure con esso come non si confonde col positivismo filosofico.[25]
Ma, soprattutto, si potrebbero citare diversi luoghi dei Quaderni, in cui il significato niente affatto «sovrastrutturale» del concetto gramsciano di egemonia è espresso mediante formule inequivoche, del tipo: «la filosofia della praxis è uguale a Hegel + David Ricardo» [Q,1247 (q 10 § 9)]; o lo stesso concetto marxiano di «astrazione determinata» (nella sua essenziale diversità dalla quella «generica» dell’idealismo speculativo) è richiamato [Q,1271 (q 10 § 32)] con largo anticipo (ma anche con un più immediato riferimento alla critica decisiva dell’homo oeconomicus, di quanto non traspaia dalla impervia argomentazione dellavolpiana) rispetto alla celebre Logica come scienza positiva (1950) dell’«ex-gentiliano» Galvano Della Volpe.
Meno facile liberarsi della «suggestiva» interpretazione di Del Noce (costruita com’è su un’acuta rilettura dei Quaderni gramsciani, sollecitati da una originale interrogazione «transpolitica», sulla esperienza novecentesca del «fenomeno totalitario» in Italia e in Europa) con un mero esercizio di citazioni. E tuttavia alcune cose vanno precisate, anzitutto a livello filologico. Si può osservare ad esempio la evidente forzatura con cui Del Noce si sbarazza della precisa affermazione gramsciana: «io ero tendenzialmente piuttosto crociano» [Q,1233 (q 10 § 11)], sostenendo che Gramsci «crociano, in senso proprio, non fu mai, neppure in gioventù»[26], adducendo a riprova del fatto che il filosofo della sua giovinezza fosse Gentile, e non Croce, un breve testo redazionale sul «Grido del Popolo», di introduzione all’articolo di Giuseppe Saitta, Il socialismo e la filosofia attuale, indebitamente enfatizzato e decontestualizzato[27]. Il critico non avverte che il brano (ipoteticamente attribuito a Gramsci dal curatore della antologia de «Il Grido del Popolo») è solo premesso all’articolo di Saitta (che viene sorprendentemente attribuito da Del Noce allo stesso Gramsci), e assume dunque il valore strumentale di una captatio benevolentiae rivolta ad ambienti (come quello universitario pisano) non pregiudizialmente ostili al socialismo, ma di cui non si nasconde la chiara appartenenza di classe al campo avversario. L’elogio di maniera al «filosofo italiano che più in questi anni abbia prodotto nel campo del pensiero» e l’iperbole (che potrebbe anche suonare ironica sotto la penna di Gramsci) sul suo sistema come «sviluppo ultimo dell’idealismo germanico» diventa una aperta confessione di «attualismo», o forse piuttosto un lapsus dell’inconscio, in colui che – secondo la «insuperabile» lettura delnociana – non poteva non approdare ad una «accettazione della critica gentiliana, inconsapevole, ma necessaria»[28].
Corretta (ma anche abbastanza scontata) è l’osservazione di Del Noce, circa la «lontananza» della versione «hegeliana» del marxismo occidentale – che si riscontra in autori come Bloch, Lukács o Gramsci – da quella «oggettivistica»: non solo dalla vulgata marxista (Bucharin), ma anche dalle più raffinate versioni (come quella rappresentata in Italia da Mondolfo) insistenti sul significato «rivoluzionario» del «materialismo»[29]. Ma da qui a sostenere che Gramsci si sia limitato a «versare vino nuovo in otri vecchi», a travasare cioè nella «terminologia marxista» la «dialettica soggetto-oggetto» di derivazione hegeliana (restando addirittura «al di qua» della «rivoluzionaria» riforma dell’attualismo, da lui solo superficialmente sfiorata), ce ne corre. Non a caso, pur muovendo da sponde scopertamente anticomuniste, Del Noce finisce per sottoscrivere la requisitoria «marxista-leninista» di chi (come Riechers) «vede analogie tra l’opera di Gramsci e quella di Bogdanov, criticata da Lenin in Materialismo ed empiriocriticismo»[30]. Nell’intento di negare (in polemica astiosa con il pensiero «gramsciano-azionista» di Norberto Bobbio) al concetto gramsciano di «società civile» qualsiasi significato di apporto originale alla «tradizione marxista»[31], Del Noce non esita a riprendere l’accusa più scolastica, di avere inteso – con l’introduzione di questo terzo elemento mediatore tra «economia» e «politica» – «abolire il primato della struttura», finendo per «rimettere la dialettica sulla testa, sia pure in modo diverso da quello che aveva fatto Hegel»[32]. Egli ricade cioè nel vieto luogo comune di quanti (da sinistra come da destra) «ascrivono a Gramsci un altro elemento introvabile nella sua teoria, vale a dire una precisa separazione tra la società civile e la sfera economica»[33]. Si potrebbe citare, di contro, il brano (tutt’altro che isolato) dei Quaderni, che afferma: «una riforma intellettuale e morale [sinonimo di società civile] non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale» [Q,1233 (q 10 § 11)]. Ma è poi la stessa arma usata da Del Noce per inchiodare Gramsci al suo presunto «idealismo» e «soggettivismo» a rivelarsi spuntata: l’accusa di utilizzare i termini di «forma» e «contenuto» per alludere al concetto di «blocco storico», in cui Gramsci traduce il nesso di unità/distinzione tra struttura e sovrastruttura. Se è infatti ovvio che egli si rifaccia alla terminologia filosofica corrente, per criticare la deviazione «economicista» del marxismo della Seconda Internazionale, non è meno evidente che il suo modo di concepire il nesso forma/contenuto è del tutto diverso da quello – con cui Del Noce lo identifica – della crociana «filosofia dello spirito». Croce rende sinonimi «forma» (ideale) e «contenuto» (materiale), risolvendo la differenza reale dei momenti nel «circolo» dei distinti: tutto è «forma» (ad es. l’economico, ridotto all’utilitario) e tutto è «spirito»; solo che nel momento del trapasso (storico sì, ma pur sempre ideale) da un distinto al successivo, il grado precedente si abbassa dal rango di «forma» a quello di «contenuto», fornendo al grado successivo (l’estetico rispetto all’economico, il teoretico rispetto all’estetico, ecc.) la «materia» del proprio divenire. Gramsci utilizza il concetto di unità/distinzione per correggere il modo ingenuo e «letterale» di intendere il rapporto base/sovrastruttura introdotto da Marx nella Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica (tipico, ad esempio, di Amadeo Bordiga: Gottlieb, come lo chiama affettuosamente e ironicamente Gramsci nei Quaderni), ma non dice in alcun luogo (né – a mio modesto avviso – dà adito al sospetto di pensarlo) che per lui le «ideologie» possano avere vita separata dalle «forze materiali» che organizzano.
Perfino rispetto all’altro scontato luogo comune, di un Gramsci marxista «occidentale», «anti-engelsiano», avverso a qualsiasi idea di «dialettica della natura» (una sorta di Sartre ante-litteram, contro cui da opposti e antitetici versanti Althusser e Colletti, non senza qualche ragione, lanceranno i propri strali) Del Noce cade nell’equivoco di accreditargli un inconscio «attualismo» (la natura come «passato» o «errore» dello spirito), laddove sarebbe bastato sottolineare il rifiuto gramsciano di sviluppare il marxismo teorico come Weltanschauung generale, ponendosi piuttosto nel solco di Labriola: con – la volontà di affermare l’«autonomia teorica» del materialismo storico, applicandolo in modo «scientifico» e «creativo» all’analisi della società moderna. A leggere bene i Quaderni si può addirittura avere la sorpresa di imbattersi in un giudizio del genere nei riguardi dell’autore di Storia e coscienza di classe:
Pare che il Lukacz affermi che si può parlare di dialettica solo per la storia degli uomini e non per la natura. Può aver torto e può aver ragione. Se la sua affermazione presuppone un dualismo tra la natura e l’uomo egli ha torto perché cade in una concezione della natura propria della religione e della filosofia greco-cristiana e anche propria dell’idealismo, che realmente non riesce a unificare e mettere in rapporto l’uomo e la natura altro che verbalmente. Ma se la storia umana deve concepirsi anche come storia della natura (anche attraverso la storia della scienza) come la dialettica può essere staccata dalla natura? Forse il Lukacz, per reazione alle teorie barocche del Saggio popolare, è caduto nell’errore opposto, in una forma di idealismo [Q, 1449 (q 11 § 34)].
Idealismo e materialismo come opposte «visioni generali», della cui verità o falsità solo la storia può decidere, in quanto dialettica concreta di forze e di rapporti sociali determinati, in cui la praxis (specialmente nel momento del suo «rovesciamento») esalta il proprio potere «realizzatore» e «creativo»: «il filosofo reale è e non può non essere altri che il politico, cioè l’uomo attivo che modifica l’ambiente, inteso per ambiente l’insieme dei rapporti di cui ogni singolo entra a far parte» [Q,1345 (q 10 § 54)]. O ancora:
La filosofia classica tedesca introdusse il concetto di “creatività del pensiero”, ma in senso idealistico e speculativo. Pare che solo la filosofia della prassi abbia fatto fare un passo avanti al pensiero, sulla base della filosofia classica tedesca, evitando ogni tendenza al solipsismo, storicizzando il pensiero […]. Creativo occorre intenderlo quindi nel senso di “relativo”, di pensiero che modifica il modo di sentire del maggior numero e quindi della realtà stessa che non può essere pensata senza questo maggior numero. Creativo anche nel senso che insegna come non esista una “realtà” per se stante, in sé e per sé, ma in rapporto storico con gli uomini che la modificano ecc. [Q, 1485-86 (q 11 § 59)].
2. L’ultima citazione, che richiama il concetto gramsciano di «buon senso» o «senso comune», ci avvicina al secondo livello di considerazione del problema che ci siamo proposti in queste note: la novità gramsciana nel modo di concepire la filosofia, nella sua problematica relazione con la «tradizione italiana». Ancora una volta, si dovrà partire da Croce: non tanto per insistere nella abusata formula dell’Anti-Croce o nella infelice metafora del «rovesciamento» dell’idealismo speculativo, quanto piuttosto per rilevare il «positivo» rapporto con il suo «stile» filosofico, e l’originale rilettura marxista del significato «ideologico» ed «egemonico» della sua pratica culturale, sviluppata nei Quaderni. Affrontando il problema della «relativa popolarità» del pensiero di Croce, Gramsci annota i seguenti motivi: 1. quello stilistico, che colloca gli scritti crociani «nella linea della prosa scientifica italiana che ha avuto scrittori come Galileo» [Q,1215-16 (q 10 § 4)]; 2. quello etico, che Gramsci riassume nella formula della «serenità» goethiana: che segnala la «fermezza di carattere» del grande intellettuale, nelle tempeste e nei turbamenti della storia [Q,1216 (q 10 § 4)]; 3. quello propriamente filosofico o metodico, che Gramsci individua nella «maggiore adesione alla vita della filosofia del Croce che di qualsiasi altra filosofia speculativa» [ibid.]. Si direbbe che quel più Gramsci apprezza di Croce è il suo isolarsi dalla schiera dei «filosofi» tradizionali, avvicinandosi ad un modo di intendere il compito del teorico «moderno», di cui Galileo (e Machiavelli) da lato, e Marx dall’altro, sono i principali riferimenti: «dissoluzione del concetto di “sistema” chiuso […] affermazione che la filosofia deve risolvere i problemi che il processo storico nel suo svolgimento presenta volta a volta» [ibid.].
Proprio in riferimento alla tradizione italiana, Gramsci sottolinea come Croce (almeno nei momenti più alti) si distacchi dal modo «retorico» di affrontare i problemi (che trova ampiamente presente nella tradizione Vico-Gioberti-Gentile), per avvicinarsi piuttosto a quella filosofia del «senso comune», cara agli anglosassoni. Rovesciando il topos polemico di un Croce e un Gentile «tedeschi», scrive:
questa impostazione spiega la popolarità del Croce nei paesi anglosassoni, superiore a quella dei paesi germanici; gli anglosassoni hanno sempre preferito le concezioni del mondo che non si presentavano come grandi e farraginosi sistemi ma come espressione del senso comune, integrato dalla critica e dalla riflessione, come soluzione di problemi morali e pratici [ibid.].
La tradizione italiana che si tratta di continuare è quella «cosmopolita» di Machiavelli, Galileo e (anche se Gramsci non lo dice), Leopardi: esempi altissimi di «egemonia» intellettuale, che si misurava con i temi moderni della autonomia e della laicità (della politica, dell’etica, della scienza), con uno sguardo decisamente europeo, ma in una condizione drammatica, di isolamento dal «popolo» e di assenza di un autentico referente «nazional-popolare». E’ con questa ampiezza di sguardo che sono affrontati nei Quaderni i temi ricorrenti del «risorgimento» e degli «intellettuali», rispetto ai quali la figura di Croce assume un profilo ambiguo. Il tema – com’è noto – è quello della «rivoluzione passiva» o della «rivoluzione-restaurazione» che, nei momenti cruciali della storia d’Italia (Comuni, Riforma, Risorgimento) ha visto l’isolarsi degli intellettuali dal popolo, il loro rifugiarsi in un ruolo di complemento, nella difesa del privilegio delle tradizionali classi dirigenti feudali o conservatrici, sottraendosi al compito di una classe dirigente autenticamente egemonica: quello altamente «pedagogico» della «formazione del carattere» nazionale-popolare, quello «giacobino» della coniugazione di democrazia e sviluppo economico borghese, della creazione (come la chiamava Leopardi) di una società «larga», al posto di quella «stretta» del sordido «interesse» familiare e localistico feudale-corporativo (si rileggano in tal senso le Noterelle sulla politica del Machiavelli del 1932-1934, nel tredicesimo dei Quaderni [Q,1559 (q 13 § 1)]). Pare di risentire a tratti il doloroso e scettico interrogarsi di Leopardi sul «carattere degli italiani», in tante pagine dei Quaderni su Passato e presente:
Si osserva da alcuni con compiacimento, da altri con sfiducia e pessimismo, che il popolo italiano è “individualista”: alcuni dicono “dannosamente”, altri “fortunatamente”, ecc. […] Ma questo individualismo è proprio tale? Non partecipare attivamente alla vita collettiva, cioè alla vita statale […] significa forse non essere “partigiani”, non appartenere a nessun gruppo costituito? Significa lo “splendido isolamento” del singolo individuo, che conta solo su se stesso per creare la sua vita economica e morale? Niente affatto. Significa che al partito politico e al sindacato economico “moderni”, come cioè sono stati elaborati dallo sviluppo delle forze produttive più progressive, si “preferiscono” forme organizzative di altro tipo, e precisamente del tipo “malavita”, quindi le cricche, le camorre, le mafie, sia popolari, sia legate alle classi alte. Ogni livello o tipo di civiltà ha un suo “individualismo”, cioè ha una sua peculiare posizione e attività del singolo individuo nei suoi quadri generali [Q, 814-15 (q 6 § 162)].
Del resto è lo stesso Gramsci, che aveva intitolato Caratteri italiani una rubrica fissa sull’Avanti, di polemica culturale, negli anni 1914-1918, a individuare nella «educazione della volontà» o del «carattere» il momento essenziale in cui si esercita l’egemonia dell’intellettuale sulla società.
Da questo punto di vista, quella assunta da Croce è la fisionomia di un Giano bifronte. In riferimento all’atteggiamento da lui tenuto di fronte alla guerra, Gramsci ne sottolinea con approvazione la distanza dalle posizioni più apertamente nazionaliste, la reazione «contro l’impostazione popolare della guerra come guerra di civiltà», che rivela Croce come il rappresentante della «grande politica contro la piccola politica, <del> machiavellismo di Machiavelli contro il machiavellismo di Stenterello», e gli assegna un ruolo egemonico, nella intellettualità europea, paragonabile «solo a quello del Papa» (anzi in una posizione di superiorità assoluta, giacché quest’ultimo non era in fondo che «il capo dei vescovi che benedicevano le armi dei tedeschi e degli austriaci e di quelli che benedicevano le armi degli italiani e dei francesi») [Q,1212 (q 10 § 1)]. Se in questa capacità di imporre uno sguardo di olimpica «serenità» non al di sopra, ma dall’interno del travaglio storico del tempo, Croce rivela la statura di «un vero riformatore religioso» – non a caso combattuto come tale dalla quasi totalità degli intellettuali cattolici, che hanno ben inteso come la sua affermazione: «dopo Cristo siamo diventati tutti cristiani» equivalga a: «la parte vitale del cristianesimo è stata assorbita dalla civiltà moderna e si può vivere senza “religione mitologica”» [Q,1218-19 (q 10 § 5)] – ben diverso è il ruolo pratico che rivelano le sue prese di posizione determinate, nei confronti del movimento modernista (di cui ignora volutamente il significato progressivo, di alleanza tra intellettuali e popolo, di incontro tra cattolicesimo e democrazia, finendo nella oggettiva condivisione delle posizioni più reazionarie della gerarchia ecclesiastica [Q,1213 (q 10 § 1)]), ma specialmente nel riconoscimento (teoreticamente insostenibile) di una funzione «pedagogica» della religione «mitologica», in quanto «necessaria per il popolo», a cui la riforma gentiliana della scuola (predisposta nelle sue linee generali da Croce) avrebbe poi conferito un significato concreto, e un segno di classe inequivocabile [Q,1218-19 (q 10 § 5)]:
La concezione dualistica e della “obbiettività del mondo esterno” quale è stata radicata nel popolo dalle religioni e dalle filosofie tradizionali diventate “senso comune” non può essere sradicata e sostituita che da una nuova concezione che si presenti intimamente fusa con un programma politico e una concezione della storia che il popolo riconosca come espressione delle sue necessità vitali. Non è possibile pensare alla vita e alla diffusione di una filosofia che non sia insieme politica attuale, strettamente legata all’attività preponderante nella vita delle classi popolari, il lavoro, e non si presenti pertanto, entro certi limiti, come connessa necessariamente alla scienza [Q, 1295 (q 10 § 41, 1)].
Abbiamo insistito sul tema della «religione», non tanto perché è nota l’importanza paradigmatica assegnata da Gramsci alla forma di organizzazione cattolica della cultura, per la delineazione del concetto stesso di «egemonia», al punto da far propria l’idea di Croce come «papa laico», su cui misurare la reale efficacia egemonica di cattolicesimo e filosofia idealistica nella cultura italiana [Q, 1306 (q 10 § 41, 4)]; ma perché proprio sulla identificazione di «filosofia» e «religione» (o tra «filosofia» e «ideologia politica») Gramsci basa il proprio programma di «autonomia» filosofica del materialismo storico ( filosofia della prassi), mediante una «decostruzione» del concetto crociano di «storia». Se ogni storia è «storia contemporanea» e se filosofia e storia sono «inscindibili», nel senso che «formano “blocco”», viene meno la distinzione (che Croce pretende di mantenere) tra filosofia e ideologia, come tra filosofia e politica [Q, 1241 (q 10 § 2)]. Negata sul piano della teoria, questa identità è rivelata dall’atteggiamento pratico di Croce, che è «un elemento per l’analisi e la critica del suo atteggiamento filosofico» [Q, 690 (q 6 § 10)]. Non vi è infatti ombra di dubbio che Croce intenda la filosofia come «strumento pratico» di organizzazione e di azione: «di organizzazione di un partito, anzi di una internazionale di partiti, e di una linea di azione pratica» [ibid.]. Ma ciò si rivela anche nella teoria, nel nesso di «filosofia, religione, ideologia» [Q, 1269 (q 10 § 31)]. Se per religione si deve intendere «una concezione del mondo (una filosofia) con una norma di condotta conforme» [ibid.], quale reale differenza può esservi tra religione e ideologia, ideologia e filosofia? Esiste «o può esistere filosofia senza una volontà morale conforme?» [ibid.]. Se la filosofia e la morale sono sempre unite, «perché la filosofia deve essere logicamente precedente alla pratica e non viceversa?» [Q, 1270 (q 10 § 31)]. Il «superamento» marxiano della filosofia non può significare la sua soppressione, ma il suo inveramento («non si può negare la filosofia se non filosofando»), la ricerca di «una filosofia che produca una morale conforme, una volontà attualizzatrice e in essa si identifichi in ultima istanza» [ibid.]. Di qui il valore «strumentale» che la filosofia della prassi riconosce al concetto di «storia etico-politica» [Q, 1209 (q 10 <Sommario>)], quale correzione dell’economicismo e del meccanicismo fatalistico, e come ermeneutica storica (di cui le Storie d’Italia e d’Europa di Croce offrono un modello che va decostruito) del fenomeno dell’egemonia.
Se la pars denstruens del discorso sulla filosofia è ampiamente elaborata da Gramsci nei Quaderni e condotta ad un punto di sintesi nelle Noterelle sulla politica del Machiavelli, la pars construens (né poteva essere altrimenti) è affidata a isolate e folgoranti intuizioni sulla natura e funzione del linguaggio, sul rapporto tra filosofia e senso comune, sul concetto ambiguo di «spirito», concentrate specialmente nell’undicesimo quaderno. Mi limito a richiamare le formule più compiute, dagli Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio della filosofia e della storia della cultura [Q, 1375 e sgg (q 11 § 12)]. Sono pagine ben note, in cui rientrano anche le celebri Osservazioni e note critiche sul Saggio popolare di sociologia di Bucharin, ma che sono state di recente richiamate in modo originale da Amartya Sen, per suggerire l’idea di una «circolazione europea» della gramsciana filosofia della prassi, per il tramite di Piero Sraffa, che avrebbe influenzato niente meno che la «svolta linguistica» del secondo Wittgenstein (nel suo transitare da una concezione «logica» del linguaggio ad una «antropologica», suggeritagli anche dalla critiche ricevute al suo Tractatus, frutto delle quotidiane conversazioni con l’esule italiano[34]). Gramsci distingue la filosofia come attività intellettuale «professionale» specialistica dalla «filosofia spontanea», propria di «tutto il mondo», secondo l’antico adagio che ogni uomo è «filosofo». Respingendo ogni idea astratta di «genere», egli traduce l’universalità logica in quella antropologica del «maggior numero». Compito del filosofo (come specialista) è districare gli elementi generali di questa filosofia spontanea, traendoli: 1. dal «linguaggio», 2. dal «senso comune», 3. dalla «religione» e dal «folclore» [Q, 1375 (q 11 § 12)]. Per quanto concerne il linguaggio, Gramsci respinge l’approccio meramente «grammaticale» o astrattamente logico, concependolo come «insieme di nozioni e di concetti determinati» (egli stesso offre molteplici esempi di questo interesse per il lato semantico della lingua, nelle accurate «voci» di dizionario, di cui sono costellate le pagine dei Quaderni). Gramsci è particolarmente attratto dalla questione della rispettiva «traducibilità dei linguaggi scientifici e filosofici», non tanto come problema di traduzione dei singoli «gerghi» specialistici (su cui si esercitava la genialità del nostro Vailati), ma come più ampio problema di «civiltà» e di «cultura»:
è da vedere se la traducibilità è possibile tra espressioni di fasi diverse di civiltà, in quanto queste fasi sono momenti di sviluppo una dell’altra, e quindi si integrano a vicenda, o se un’espressione data può essere tradotta coi termini di una fase anteriore di una stessa civiltà, fase anteriore che però è più comprensibile che non il linguaggio dato ecc. [Q, 1468 (q 11 § 47)].
Il terreno cui attingere questa variazione dei giochi linguistici è quello del senso comune, che costituisce il «folclore» della filosofia: una concezione «disgregata, incoerente, inconseguente, conforme alla posizione sociale e culturali delle moltitudini di cui esso è la filosofia» [Q, 1396 (q 11 § 13)] che si tratta di ricondurre ad unità. Si dividono qui i compiti (e il modello di «egemonia») due concezioni, su cui grava il peso della secolare divisione tra lavoro intellettuale e manuale: quella «tradizionale» della separazione tra gli «intellettuali» e i «semplici» e quella della «filosofia della prassi», che punta alla loro riunificazione. Vi è una evidente distinzione (su cui ragionava Cartesio) tra «senso comune» e «buon senso». Il primo deriva il proprio insanabile «dogmatismo» dalla religione, ed è il motivo per cui nonostante i moderni progressi della scienza (anzi talvolta proprio in conseguenza di essi), il senso comune «è ancora rimasto tolemaico, antropomorfico, antropocentrico» [Q, 1396 (q 11 § 13)]. Il secondo ha la possibilità di aprirsi a una visione «critica», che trova però un ostacolo epistemologico non facilmente sormontabile nella prassi teorica degli intellettuali «organici». La chiesa cattolica offre un esempio classico di attenzione al rapporto degli «intellettuali» con i «semplici» (condizione per l’esercizio efficace dell’egemonia), mirato tuttavia prevalentemente al mantenimento del popolo in una condizione di minorità intellettuale (che non a caso si traduce in un controllo ossessivo e autoritario sulla élite intellettuale). Ma anche i rappresentanti maggiori della filosofia laica mostrano una «subalternità» alla egemonia cattolica, che si rivela proprio nel loro diverso rapporto con il senso comune. Quello più schietto di Gentile, che non mistifica l’intento reazionario della propria filosofia religiosa, nella affermazione triviale: «l’uomo sano crede in Dio e nella libertà del suo spirito» [Q, 1399 (q 11 § 12)]. Quello più ambiguo di Croce, che ama «civettare col senso comune», ma si ritrae con sdegno di fronte alla possibilità di dover riconoscere la vicinanza del proprio modo di concepire la storia e quello della filosofia della prassi. Così, sarebbe disposto a sottoscrivere, come «verità per il popolo», la forma religiosa e dogmatica del senso comune, affermante che «in tanti non si può sbagliare» [Q, 1391 (q 11 § 13)] (di qui la necessità di mantenere, per il popolo, la religione «mitologica»). Ma insorgerebbe (come di fatto insorge nella Storia d’Europa, opponendo la «religione della libertà» al «materialismo storico»), di fronte alla eventualità di dare un «inveramento prassistico» (come «coscienza di classe» e «democrazia») a quella formula, in cui Gramsci suggerisce a più riprese, nei Quaderni, di leggere la verità «mondana» della teoria crociana (speculativa) dell’errore [Q, 1569-70 (q 13 § 10)]. Sarà la «vita» storica (e la «volontà» disciplinata delle moltitudini) a risolvere il problema della «passionalità» del conoscere, correggendo l’illusione tipica del filosofo, di togliersi da sé la «cataratta», che ne obnubila lo sguardo.
Meno felice è il riconoscimento «utopico» (che ha fatto esclamare ai suoi critici prevenuti: «vedete l’idealista!») che Gramsci, in più luoghi, è disposto a concedere alla nozione di «spirito». Ciò che è falso e mistificatorio nella preistoria della società divisa in classi – l’unità del genere in uno spirito universale comune – sarà vero nella società dell’avvenire [Q, 1490 (q 11 § 62)]. Ma, a parte il fatto che della stessa visione è «colpevole» Karl Marx, che nel terzo libro del Capitale, nel divinare una «società dei produttori associati», civetta con il linguaggio herderiano, ipotizzando il salto dal «regno della necessità» al «regno della libertà»; è possibile intendere in un significato antropologico niente affatto arbitrario questa «traduzione» dei termini «spirito» e «società». Vi è (per il «soggettivista» Gramsci) una autentica «lotta per l’oggettività»: il processo pratico-teorico di liberazione dalle «ideologie parziali e fallaci» [Q, 1416 (q 11 § 17)]. Essa corrisponde alla «stessa lotta per l’unificazione culturale del genere umano»: ciò che per gli idealisti è spirito «non è un punto di partenza, ma di arrivo». Ossia «l’insieme delle soprastrutture in divenire verso l’unificazione concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario ecc.» [ibid.]. In questo esito si può riconoscere il debito di Gramsci nei confronti della «filosofia italiana», nel suo indulgere (nonostante la critica «definitiva» di Croce alla «filosofia della storia») a una visione «teleologica» del divenire. Ma altro è riconoscere questo limite (che la filosofia italiana condivide con il marxismo in quanto «grande narrazione»: con tutte le riserve «ipercritiche» del caso), altro è concludere, da questa constatazione (in cui la «miseria» della filosofia italiana coincide forse – pascalianamente – con la sua «grandezza»), all’«utopismo» ovvero al «carattere gnostico del marxismo», e maramaldeggiare sul «suicidio della rivoluzione» e sulla «decomposizione» dell’«intellettuale organico» gramsciano nelle complementari figure sociali – di «funzionario dell’industria culturale» – dell’«intellettuale dissacratore» e dell’«esperto aziendale»[35]. Il genio solitario di Antonio Gramsci – forse l’unico o certo il maggiore pensatore originale nel marxismo del novecento – non è in ogni caso toccato da queste battaglie culturali da epigoni. Alla sua sofferta lezione di vita e di pensiero ci inchiniamo, in questo settantesimo della sua (non inutile) morte.
Amedeo Vigorelli
[1] Ringrazio Andrea Micocci per aver letto e discusso il presente testo, permettendomi di migliorarlo in alcuni punti.
[2] Le opere di Gramsci sono citate nel testo con le seguenti abbreviazioni: L = Lettere dal carcere, a cura di A.A. Santucci, 2 voll., Editrice l’Unità, Roma 1988; Q = Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino (1975) 19772.
[3] «Tra queste due date si colloca un intenso periodo di “studi americani”» (G. Baratta, Americanismo e fordismo, in Le parole di Gramsci. Per un lessico dei Quaderni del carcere, a cura di F. Frosini e G. Liguori, Carocci, Roma 2004, pp. 15-34, p. 15; articolo dove si possono trovare utili informazioni sulla stesura delle note “americane” di Gramsci in tutti i Quaderni e una bibliografia aggiornata).
[4] Il Quaderno 22 occupa solo 42 pagine dell’attuale edizione critica: cfr. Q 2139-2181.
[5] A. Gramsci, Quaderno 22. Americanismo e fordismo, introduzione e note di F. De Felice, Einaudi, Torino 1978.
[6] In quest’ultimo caso mi riferisco ovviamente al fortunato libro di J. Rifkin, The End of Work (1995); trad. it. La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Baldini&Castoldi, Milano 1995.
[7] Quest’ultimo aspetto è trattato da Gramsci nel § 14, Azioni, obbligazioni, titoli di Stato (Q 2175-8): sebbene assai interessante, non può essere qui preso in esame per motivi di spazio. Mi limito a ricordare che per Gramsci il liberismo (ma il discorso deve valere anche per il neoliberismo, nonostante la vulgata contraria, comune anche a tanta parte della sinistra radicale) esige un attivo protagonismo dello Stato e non una sua estenuazione/estinzione: «il liberismo è una “regolamentazione” di carattere statale, introdotto e mantenuto per via legislativa e coercitiva […] è un programma politico, destinato a mutare […] la distribuzione del reddito nazionale» (Q 1590) .
[8] Va da sé che l’espressione «metodo» riferita alla dialettica ha un significato del tutto peculiare. Sulla dialettica di Gramsci mi limito a segnalare G. Pristipino, Dialettica, in Le parole di Gramsci, cit., pp. 54-73, che fa il punto sugli studi e offre una essenziale bibliografia, alla quale aggiungerei almeno le considerazioni che L. Sichirollo svolge nel capitolo Storia, “blocco storico” e ideologia in Gramsci, del volume Dialettica (1973), Mondadori, Milano 1983, pp. 187-197.
[9] Un efficace quadro comparativo tra il modello fordista e quello postfordista dell’organizzazione della produzione è offerto da M. Revelli, Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo, in P. Ingrao, R. Rossanda , Appuntamenti di fine secolo, con saggi di M. Revelli, I.D. Mortellaro, K.S. Karol, manifestolibri, Roma 1995, pp. 161-224.
[10] Le novità e le sostanziali continuità tra la «produzione a flusso continuo» e il precedente «brutale dispositivo fordiano» erano già evidenti alla fine degli anni Settanta: il nuovo modo del consumo produttivo della forza lavoro appariva già allora caratterizzato dallo snellimento produttivo consentito dal passaggio dell’unità lavorativa dal lavoratore singolo al gruppo: 1) non cambia però la natura eterodiretta del lavoro; 2) né viene meno il controllo, che si fa più sofisticato perché diviene autocontrollo che il gruppo esercita sul tempo e sulla qualità della produzione, 3) è però possibile, per la maggiore complessità dell’organizzazione della produzione, sfruttare le attitudini “professionali” che la scolarizzazione di massa ha esteso (B. Coriat, L’atelier et le chronomètre (1979); trad. it. La fabbrica e il cronometro. Saggio sulla produzione di massa, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 142-157).
[11] La riflessione gramsciana coinvolge anche la situazione dell’Unione Sovietica (cfr. Baratta, Americanismo e fordismo, cit., p. 23), che non tratto, considerati i fini della nostra riflessione.
[12] Di qui l’attenzione a quella che Gramsci chiama la «composizione demografica» (Q 2140-7, § 2, Razionalizzazione della composizione demografica europea), termine nel quale rientrano sia gli assetti propriamente socio-economici (come ad esempio la differenza fra la parte attiva e quella inoccupata nella società americana e in quella europea, a tutto vantaggio della prima, assai più razionale e quindi adatta alle nuove forme di produzione e di lavoro), sia quelli più specificamente demografici, biologici. Riferendosi alla situazione italiana, Gramsci nota come la composizione demografica sia «malsana» (le virgolette sono dello stesso Gramsci) non solo a causa dell’emigrazione a lungo termine, dalla scarsa occupazione femminile nelle nuove produzioni e nel rapporto particolarmente sfavorevole tra popolazione potenzialmente attiva e popolazione passiva, ma anche a causa delle malattie endemiche come la malaria e del cronico stato di denutrizione dei contadini (Q 2144). Più in generale, altri rilevanti aspetti demografici – come l’innalzamento delle medie della vita umana, attribuita da Gramsci ai «progressi dell’igiene», la bassa natalità, con la conseguente immigrazione di elementi stranieri, il disequilibrio tra la bassa natalità delle città industriali e la prolificità della campagne – pongono difficili problemi di ordine politico, sociale, culturale ed economico (Q 2149).
[13] Mi riferisco, rispettivamente, a H. Marcuse, One-Dimensional Man (1964); trad. it. L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967, cap. 3; e a M. Foucault, La volonté de savoir (1976); trad. it. La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978.
[14] Si pensi, solo per limitarmi all’esempio dell’alimentazione, alla diffusione dei fast food che produce obesità e, quindi, costi per la sanità pubblica, e alla parallela attenzione ossessiva negli stessi soggetti per la “linea” .
[15] Mi permetto qui di rinviare, più come a una rievocazione di «clima» che per la pertinenza filologica dei giudizi allora espressi, a: A. Vigorelli, Filosofia come scienza: Galvano della Volpe e l’autocritica dello storicismo marxista, “aut aut”, 142-143, n. s., lu.-tt. 1974, pp. 97-129.
[16] Ne è una conferma la fortuna di cui poté godere negli anni Settanta in Italia un libro come Antonio Gramsci. Marxismus in Italien di Chr. Riechers (Frankfurt a. M., 1970).
[17] Il libro fu edito dall’editore Rusconi di Milano, ma è stato di recente riproposto per i tipi di Nino Aragno, Torino, 2004, con una post-fazione di Giuseppe Riconda (edizione da cui citerò in seguito).
[18] Si legga ad esempio la assertiva dichiarazione di Salvatore Natoli: «il nesso Gentile-Gramsci è stato messo in chiaro, magistralmente e una volte per tutte, da Augusto del Noce e tanto basta per non doverlo nuovamente porre in discussione» (Gentile filosofo europeo, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, pp. 94-95).
[19] A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione cit., p. 108.
[20] Ivi, p. 124.
[21] Ivi, p. 130.
[22] Ivi, p. 135.
[23] Ivi, p. 114.
[24] Mi piace ricordare qui il titolo di una fortunata raccolta di scritti gramsciani, a cura di Renzo Martinelli: A. Gramsci, Per la verità. Scritti 1913-1926, Editori Riuniti, Roma, 1974.
[25] A. Gramsci, Scritti giovanili. 1914-1918, Einaudi, Torino, 1958, p. 328.
[26] A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione cit., p. 115.
[27] A. Gramsci, Scritti 1915-1921, a cura di S. Caprioglio, Mozzi, Milano, 1976, pp. 348-50.
[28] A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione cit., p. 136.
[29] «Non c’è nulla di più lontano […] della posizione di Mondolfo e di quella di Gramsci» (ivi, p. 144 n).
[30] Ivi, p. 142 n.
[31] Ivi, p. 136.
[32] Ivi, pp. 137-38.
[33] J. A. Buttigieg, Il dibattito contemporaneo sulla società civile, in AA VV, Studi gramsciani nel mondo. 2000-2005, a cura di G. Vacca e G. Schirru, il Mulino, Bologna, 2007, p. 65.
[34] A. K. Sen, Sraffa, Wittgenstein e Gramsci, in AA VV, Studi gramsciani nel mondo. 2000-2005 cit., pp. 23-53.
[35] A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione cit., p. 164.
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Dibattito
Data: 21.06.2013