Vi sono altri possibili "colpi d'ala" dopo la scoperta della ragione, della filosofia, del pensiero, della ricerca di senso? O piuttosto pretendiamo di capire senza cambiare? Davvero siamo il prodotto di un determinismo naturale? Siamo un DNA "adulto" che ha prodotto un po' di coscienza o è la coscienza che si è gettata nel mondo, nella materia, per consapevolizzarla? E' questa la sfida grandiosa che è così difficile da accettare? E' perchè non se ne sente il richiamo, della bellezza? Siamo malati di bruttezza? A furia di contemplarla siamo diventati brutti? Pensiamo e basta, senza poesia? Perchè gli dei dovrebbero interessarsi degli uomini, se gli uomini desiderano rimanere quello che sono? Si può mutare? O si pretendono risposte senza mutare il punto di vista, la fissità di una postazione evolutiva, la coscienza generata dal pensiero comune, dalla somma di abitudini imparate qui e là, o filtrate da preferenze personali che ci fanno credere di essere diversi dagli altri, di essere qualcuno. Se la coscienza è qualcosa, si può lavorare con essa, per vedere come reagisce, se risponde, per verificare se e cosa succede? Gli dèi sanno che gli uomini preferiscono adorare, ma non diventare (dèi). Meglio mettere dio su un altare, piuttosto di provare a "esserlo", rinunciando alle miserie umane? Che ci inseguono, ci abbruttiscono, ma dentro una coscienza intangibile e gioiosa rimane intoccata. Osservatrice distaccata e senziente, sensibile e intelligente, non trascinata nel gorgo delle virtù e del vizio. Dentro le cose senza smarrirsi. Oltre la mente ma dentro il corpo, i sensi. Essere dentro la propria pelle ogni momento, per allenare la consapevolezza di sè, inizio della coscienza. Ed è qui che si crea il destino umano: si diventa quel che "si crede di essere". Gli esseri umani non credono di potercela fare, non hanno fede nelle loro potenzialità, nel loro divenire, e così giustificano la loro pigrizia? Credono che il male sia male e il bene sia bene, quando è evidente che dal bene a volte nasce il male e dal male nasce il bene. Allora è la pochezza e la scarsità di visione che fa percepire il mondo come luogo tragico? Oppure lo è veramente? Il mondo è lo specchio del conflitto interno della coscienza umana? E se lo è, la coscienza può cambiarlo? Ma allora, ci sono delle modalità per farla evolvere, metterla alla prova, accelerarla, intensificarla, interrogarla? Se queste vie esistono, perchè non le conosciamo? In passato hanno fallito? Ma chi dice che la storia è quella scritta dai falliti della coscienza? Si trova quel che si crede possa esistere. Si diventa quel che si è e si trova quel che si vuol diventare. Cosa leggono, cosa scrivono, come vivono quelli che non hanno fede nel loro divenire, che credono che la mente, la religione e la scienza siano tutto? Le vie della coscienza sono rischiose? Come si vede e come si percepisce il dolore, proprio e altrui, da una coscienza spostata un poco più in là, appena un poco oltre la visione comune, la percezione comune, il credo comune? Ma chi è disposto a rischiare, chi è disposto a tutto pur di tentare di conoscere, di esercitare, coltivare, "stressare" la sua coscienza? O piuttosto finirà come sempre, a chiederci cosa è la coscienza? E passare la vita a trovare varie definizioni eleganti e astratte, a studiare la coscienza ma non a insidiarla, abitarla, interrogarla con il corpo. Tutto meno che provare a fare un esercizio di ginnastica della coscienza, per provare ad espanderla e osservare cosa succede. Tutto per non cambiare. E allora il mondo rimane tale e quale. Perché il mondo è la coscienza e la coscienza è il mondo.
HANS VON BALTHASAR: L'UOMO DI FRONTE AL DOLORE INNOCENTE - RELATORE: STEFANO VIGNATI
Nell’esperienza del dolore innocente l’uomo avverte una profonda ingiustizia. In proposito scrive Von Balthasar filosofo e teologo tedesco:“ si dà pure l’incomprensibile dolore dei relativamente innocenti, dei bambini (a causa dei quali Ivan Karamazov restituisce a Dio il biglietto di ingresso nell’armonia celeste), degli umiliati, oppressi e dilapidati dai potenti, che non possono difendersi e devono rassegnarsi, di coloro che vengono irrisi per la loro umana dignità, forse per il loro eroismo, di coloro che vengono privati della loro libertà o uccisi per la loro pretesa a un pezzo di terra, di tutti i ‘poveri’ e gli ‘affamati’. Il dolore costituisce una sfida ineludibile che esige una risposta perchè la vita non sia rifiutata o anestetizzata.
Troppo spesso siamo costretti a nasconderci al dolore o nascondere il dolore: si tratta di una sfida che attraversa la storia perchè è di ogni uomo e sfida la fede in Dio. Perché di fronte al dolore innocente anche Dio è sottoposto a giudizio : come può permettere tanto male ? "Una risposta in parole o concetti che possa procurare una intelligenza dall’alto non esiste. Perciò io vi dico: rinunciate ad ogni risposta, anche la più ben intenzionata, se consiste di parole. Tutte le risposte che scaturiscono solo dal pensiero, comunque combinato, filosofico, teologico, dialettico o politico, sono niente. Nelle parole non c’è risposta"
nota: con questo incontro parte la collaborazione fra Caffè Filosofico e Istituto musicale Folcioni: ad ogni nostro appuntamento interverranno alcuni allievi dell’Istituto civico per presentare qualche brano musicale. Un particolare ringraziamento al Cda della Fondazione S. Domenico e al direttore Alessandro Lupo Pasini.
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Dibattito
Data: 10.06.2013
Oggetto: Per il dolore innocente
La conoscenza dell’uomo si basa su tre aspetti: la fede (sentimento compreso), la scienza, la filosofia. I primi due aspetti sono la ragione di vita, senza i quali l’uomo – ma anche gli animali – non potrebbero vivere. Sono quindi presenti – diversamente dalla filosofia - all’azione dell’uomo fin dalle sue origini qualsiasi esse siano. Senza aver fede – nel futuro, nel perdurare delle condizioni di cui si ha avuto esperienza, in alcuni valori che si ritengono comuni (fino a prova contraria) – non compiremmo un passo, rimarremmo paralizzati dall’incertezza. Compresa la Fede religiosa, qualsiasi cosa ci voglia far credere. E poi c’è la scienza con il progresso che normalmente la caratterizza. In tutti campi, sempre più e sempre meglio. E’ inutile aggiungere che entrambe queste forme di conoscenza hanno come caratteristica comune la contingenza, la provvisorietà, la necessaria disponibilità al cambiamento e quindi il carattere ipotetico di ogni risposta data. Proprio come la vita, come la storia. Ma… a un certo punto, l’uomo si è chiesto di più. Ha avuto la pretesa di un colpo d’ala della ragione che lo proiettasse oltre la contingenza, oltre la propria vita, oltre la storia. Non quindi per rispondere ai problemi dei propri brevi giorni, non per affrontare i pericoli del mondo, né per sopravvivere alle malattie e alle brutalità del dolore: per tutto questo va bene, fin che può, (quindi nella migliore delle ipotesi, sempre più e sempre meglio, senza fine) fede e scienza. La filosofia non risponde a tutte le cose, ma risponde alla totalità. Alla dimensione della trascendentalità totale. E’ qui che la totalità si identifica con l’essere: ed è qui che l’essere è la definitiva opposizione al nulla. Ed è qui che il “male” (trascendentale) è il non appartenere al “cerchio” dell’essere. Ed è qui che chiunque, e qualsiasi cosa, che invece appare appartenere alla dimensione dell’essere (per noi attraverso la constatazione empirica), dimostra la propria “salvezza”. E’ all’interno di questa definitiva appartenenza all’essere (perché chiunque appare appartenervi, non vi è mai, né potrà mai sfuggirvi) che la filosofia dà la propria risposta definitiva ( e quindi contingentemente inutile) in ordine alla “salvezza” dall’ oblio e dalla morte, per tutte le cose: tutti e tutto destinati comunque alla Gloria. Allora… buttiamo via la fede e la scienza? Sarebbe come buttar via il “senso” della nostra vita. Buttiamo via la filosofia? Sarebbe come buttar via il “senso” definitivo e totale di noi e della realtà più profonda che è quella che tutto accomuna. Ciò che ancora non appare è il nesso profondo fra contingenza (la relatività) e necessità (l’assoluto). Potrebbe venire presto anche il tempo di quest’ultima parola.
Data: 10.06.2013
Oggetto: Ammutoliti
Rassegnati. Impietriti. Ammutoliti. Non malediciamo più gli dèi. Non eleviamo più il nostro grido angoscioso al “nostro” Dio. Non ci poniamo più il drammatico interrogativo che ha tormentato per millenni tanti uomini colti o meno colti. Perché mai dovremmo porcelo? Il velo è stato squarciato. La natura è stata sdivinizzata e denudata. Contro chi dovremmo urlare la nostra disperazione? Contro la natura “matrigna”? Tutto ha cause “naturali”: perché allora andare alla ricerca di un digitus divino? Quasi tutto è scritto nel DNA: perché decifrare altre “scritture”? Il male che non perdona accade e basta: perché scrutare il cielo nella speranza di trovare una causa superiore? L’uomo è solo. Chi dovrebbe pregare? A chi dovrebbe aggrapparsi? Non abbiamo più bisogno delle acrobazie filosofiche di un santo combattente, ossessionato dal pericolo del manicheismo. Non è vero che tutto il “creato” è bene. Non è vero che il male è “non-essere”. Un non-essere uno tsunami che con la sua furia distruttiva spazza via uomini e cose? Un non-essere un cancro che divora e strappa una vita umana? Un non-essere il precipitare nel tunnel senza fine dell’Alzheimer? La natura agisce iuxta propria principia. Il resto lo mette l’uomo faber fortunae suae che deliberatamente decide di immolare vittime sull’altare del dio-profitto, delle Cause umanitarie, del mito della velocità… È l’uomo che ha creato un sistema in cui le sofferenze dei singoli contano ben poco rispetto alla Storia che avanza, al trionfo dell’Asse del Bene contro l’Asse del Male, alla “mano invisibile” della libera concorrenza, al progresso nonostante tutto… Perché allora dovremmo scaricare la nostra indignazione contro Dio, invece che contro l’uomo? Aveva colto bene il problema il buon Epicuro nella sua polemica nei confronti della “provvidenza” stoica. Gli dèi non si curano degli uomini, non lanciano strali contro chi pecca di hýbris. Gli strali li lancia la natura. Senza alcuna volontà. Senza alcun fine. Così per combinazioni genetiche casuali. Il “caso” e la “necessità” hanno detronizzato gli dèi. Ma gli dèi sono davvero morti? In una società sempre più desacralizzata, qualcosa di “sacro” è rimasto: la coscienza. È lì, in quel tempio, che ciascuno di noi fa i suoi conti col “mistero” che lo circonda (un mistero che va ben oltre lo scandalo del dolore innocente). È lì che anche il laico più incallito può tornare a pregare, addirittura a sperare nel “miracolo”. Un residuo di magia? Forse no, ma solo un “bisogno di senso”, un bisogno di andare oltre i nudi e freddi referti medici, oltre la spiegazione delle cause “naturali”. Un bisogno individuale, personale che nessuno, impugnando la bandiera della Scienza, ha il diritto di estirpare. Il tempio è sacro: nessuno ha il diritto di profanarlo.
Crema, 16 novembre 2012
Piero Carelli
PS: grazie, Stefano, per lo stimolo che, con la tua lucida e appassionata relazione, ci hai offerto.