IL DECALOGO E LA SINGOLARITA' DELL'ETICA EBRAICA - RELATORE: DON PIERLUIGI FERRARI
Le «dieci parole» (deka logoi, da cui il termine decalogo).
Significativamente il luogo giuridico della nascita del decalogo è il deserto, cioè una “u-topia”, intesa come un non-territorio, privo della giurisdizione di un re. Israele può esistere senza territorio e senza sovrani umani: la nascita (cioè essere israeliti) è più importante del luogo in cui si nasce, l’adesione libera alla legge del Signore vale più che la conduzione politica di un sovrano.
Il Decalogo, come tutta la religione ebraica, si muove tra “dono” e “dovere”, e ciò costituisce la base di un ethos originale e fornisce i criteri sia per la fondazione di un diritto basato sul consenso e sulla responsabilità, sia per la sua verifica critica che sarà esercitata dai profeti.
Infine, quella del decalogo è un’etica aperta al futuro. Se l’etica «ha per meta una vita compiuta», le «dieci parole» rappresentano un testo «interattivo», che funge da orizzonte, progetto e fine verso il quale non solo Israele, ma tutta l’umanità tende. Il decalogo chiama l’uomo a scoprire e a scoprirsi, impegna ogni generazione a interpretarlo e adattarlo al proprio mondo vitale perché le «dieci parole» chiedono di essere messe in continua relazione con l’evolversi della storia.
* Il prof. Ferrari don Pierluigi, sacerdote della Diocesi di Crema, è laureato in teologia dogmatica e in scienze bibliche; è delegato vescovile per la pastorale, incaricato dell’apostolato biblico nella regione Lombardia e docente di esegesi biblica negli studi teologici riuniti di Crema, Lodi, Cremona e Vigevano.
Grazie per il vostro invito e per l’attenzione che vorrete dedicare alle mie parole. Quando l’amico Tiziano mi ha detto che avrei parlato in un “caffè” mi sono sentito a mio agio, pensando che questo avrebbe favorito un tono amichevole della conversazione, ma vi confesso a mettermi un certo imbarazzo è quella qualifica di “filosofico”, che trovo un po’ inquietante sia per la mia incompetenza in fatto di filosofia, sia perché mi fa supporre che in questa direzione vadano le più che legittime attese dei presenti. Chiedo licenza di muovermi nell’ambito che più mi mette a mio agio, quello strettamen-te biblico. Restringo ulteriormente la prospettiva del mio intervento: considero il «decalogo» sotto l’esclusivo profilo del suo rapporto con l’Israele antico, che peraltro ne determina il senso originario. Rinvio invece ad altri contesti le pur interessanti riprese interpretative e attualizzanti fatte dal Nuovo Testamento e dalla tradizione cristiana. Percorrerò due itinerari: il primo è uno sguardo complessivo sui dieci comandamenti allo scopo di metterne i luce il carattere unico. Il secondo sarà un excursus sulle singole enunciazioni.
I. IL DECALOGO E LA SUA SINGOLARITÀ
Le “dieci parole”, ‘aseret ad-debarim, fanno da premessa a un più ampio corpo legislativo dell’antico Israele (il Codice dell’alleanza, il Codice deuteronomico, la Legge di santità) e ne costituiscono il principio ordinatore, fornendo la base e i criteri fondamentali per il diritto e la legislazione e per la critica profetica. Questo solido sistema di leggi ha delle analogie con l’analogo sistema giuridico sancito nei grandi codici mesopotamici e hittiti (l’Egitto invece non ha un corpo legislativo), ma al tempo stesso presenta una sua identità che lo rende singolare. Illustro questa idea con alcuni semplici rilievi che mi piace legare a parole simboliche ed evocative.
1. L’aquila. Per la comprensione del decalogo è indispensabile partire dalla cornice narrativa nella quale avviene la sua proclamazio-ne: quella del riscatto di Israele da una condizione di schiavitù e suc-cessivamente del patto che Dio stabilisce con questo popolo. Tutto il contesto sottolinea il proposito di Dio di costituire una sua “famiglia” nella quale egli esercita il ruolo di padre e di madre, assume il dovere, riservato al parente più prossimo, di affrancare dalla schiavitù i suoi figli, dà l’avvio ad un vero e proprio apprendistato per farli passare progressivamente da una mentalità di servi alla consapevolezza e all’esercizio della libertà. All’origine del decalogo c’è dunque una azione liberatrice di Dio e solo dopo viene data la Legge, cioè la richiesta al popolo di ubbidienza al Dio liberatore. La Legge è un dono che Dio fa a un popolo già liberato ed è una sorta di tirocinio per diventare credente adulto. E qui si inserisce la bella immagine dell’aquila che apre il discorso di Dio: “Vi ho portato come su ali d’aquila” (Es 19,4). E’ l’aquila femmina che protegge con le sue ali i piccoli oppure li porta in alto e li stacca perché imparino a volare. L’immagine è riferita a Israele: è stato liberato, cioè portato come su ali d’aquila, e ora sta per essere lanciato in volo, per vivere la libertà e assumerne le responsabilità. Questa è l’unica risposta chiesta da Dio al popolo con il quale e entrato in alleanza.
2. Il deserto. Il decalogo viene consegnato in un luogo strano, per lo meno atipico, quel deserto che rappresenta una sorta di de-creazione, dove la vita è impossibile e che quindi è il territorio di nessuno, una u-topia cioè un non-luogo. I sistemi giuridici legislativi antichi (e anche quello della Grecia come appare ad esempio nel Critone di Platone) hanno due pilastri: la figura del re e il territorio. Israele invece può esistere senza monarchia e senza territorio. La sua carta d’identità contiene un elemento basilare: la genealogia, cioè il fatto di nascere israelita. E questo lo abolita a entrare liberamente nella alleanza del Sinai impegnandosi a osservare i comandamenti e la Legge. Di qui l’originalità della tradizione etnico-religiosa di Israele: la nascita è più importante del luogo dove si nasce, l’adesione libera alla Torah è più che la conduzione politica di un sovrano. Ci chiediamo se non è forse questa la radice della millenaria sopravvivenza di Israele alla scomparsa della monarchia, all’esilio e alla diaspora. Ma è questa anche la radice di un diritto che ha vocazione ad essere universale, svincolato com’è da strutture politiche e fondato sul consenso e sulla responsabilità personale.
3. Il silenzio. Il decalogo si apre in maniera singolare: da un lato Colui che detta la legge rivela la propria identità: ‘anoki Jhwh ‘eloheka, “Sono io, YHWH, il tuo Dio”. Dall’altro sembra voler circondare questa rivelazione di un mistero che è racchiuso, a livello lessicale, nel suo nome, il Tetragramma YHWH, quattro consonanti senza vocali che è possibile scrivere ma non pronunciare. Pronunciarle ponendovi le vocali significherebbe riempire il nome, saturare per così dire il suo significato. La sua eternità e la sua infinità verrebbero cinte nei limiti di una parola. Se volessimo tradurre il Tetragramma bisognerebbe dire: “Silenzio”. Allora potremmo tradurre così: «Io sono, io, il Tetragramma che non puoi pronunciare perché è il silenzio».
Questa formula ricorre per la prima volta in un passo prece-dente, all’inizio del libro dell’Esodo, quando Dio apparso nel roveto ardente si sente domandare da Mosè: “Qual è il tuo nome?”. La risposta è “Io sono colui che sono”, una frase di sapore enigmatico. Prima ipotesi: Dio nasconde il suo nome: mentre lo pronuncia ribadisce che esso non è disponibile all’uomo, tanto meno per essere manipolato. Seconda ipotesi: la libertà di Dio. Il nome rivelato a Mosè indica che Dio è libero di essere quello che vuole essere!, non è determinato se non da se stesso, dalla propria “volontà” e libertà. Dio ha esclusivamente nella sua libertà il proprio fondamento. Terza ipotesi: gioca sulla parentela del nome di Dio con il verbo “essere”: le stesse consonanti delle quali si compone questo nome permettono di scrivere il verbo essere al passato, al presente e al futuro. Se consideriamo che in ebraico il verbo essere è “attivo”, allora questo nome suona come splendida promessa di impegno in relazione alla storia e alla vita del suo popolo: “Io sono colui che liberamente è stato, è e sarà accanto a te. Dovunque tu sia io ci sarò”. Colui che dona il decalogo vuole rispettata la sua alterità, ma promette una presenza fedele. E’ lui l’unico referente delle dieci parola, la loro disobbedienza non è trasgressione, ma “peccato”, in senso teologico.
4. La visita. C’è una bella espressione che gli ebrei leggono nel “Rosh ha-shanah”, il capodanno ebraico: “Dio si è ricordato (ha visitato) di Sara”. Lo stesso verbo significa anche “essere ordinato a”. Dio si è ricordato di quello per cui Sara, la sposa sterile di Abramo, era “ordinata”: le ha concesso di generare, ponendola nell’ordine della genealogia e della benedizione. Quando Dio «ordina» le Dieci parole pone Israele nella condizione di generare, quando Israele le osserva si pone nell’ordine della trasmissione della vita. Queste parole proiettano Israele verso il futuro, costituiscono la base di un ethos in continua espansione che “si propone quale meta una vita compiuta” (P. Ricoeur). Le future generazioni che ricevono il Decalogo si sentono visitate da Dio, chiamate a interpretare sempre nuovamente i suoi precetti, adattarli ai propri mondi vitali, a farli interloquire con l’evolversi della storia, con l’atteggiamento di chi scopre e si scopre. Lasciare all’uomo il compito di scoprire, di formulare la propria etica non è un gioco pericoloso che apre la porta a ogni delirio individuale, a ogni ideologia collettiva? E’ il rischio della libertà che Dio vuol correre con l’uomo. Gesù ne sarà il massimo attualizzatore che ne espliciterà tutte le potenzialità fino alle esigenze più radicali.
II. ATTRAVERSO I SINGOLI PRECETTI
1. 3 “Non avrai dei altri di fronte a me… 5Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso…
Per comprendere questo precetto, che compare esclusivamente nella religione d’Israele è necessario indagare sul significato della parola “altri” Cosa significa «dei altri»? I profeti lo spiegheranno con due ardite metafore: la prima è quella della paternità e della maternità di Dio, due ruoli senza possibili alternative: Israele può forse avere un “altro”padre, una madre “altra”? La seconda è una metafora matrimo-niale per la quale Jhwh è lo sposo d’Israele (Os 11; Is 49,15.26; Ger 31,9.20; Ez 16). In tal caso “altri” sono gli amanti più o meno occasionali, i complici del tradimento. Non è casuale che il comandamento parli di un «Dio geloso», ‘el qan'a, che chiede un at-taccamento esclusivo: la gelosia non è forse l’altra faccia di un amore «forte come la morte» (Ct 8,6), che non tollera tradimenti o slealtà, che non è indifferente a ciò che Israele fa della libertà ricevuta?
C’è un giudizio duro contro questa “alterità” degli dei stranieri: secondo la riflessione profetica l’idolo è un soggetto che non risponde, cioè non si rende “responsabile”. Il Dio di Israele si definisce invece tramite la responsabilità di un rapporto che avviene «faccia a faccia» (Dt 5,4), di un Dio che risponde alla invocazione degli uomini, ascoltare il loro grido. Questa fiducia salva Israele da una religione intesa come “nevrosi ossessiva”, direbbe Freud, quella di doversi assicurarsi instancabilmente l’improbabile favore di potenze ultraterrene ed estranee alla vicenda umana.
2. 4 Non ti farai idolo né immagine scolpita (pesel) di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra […] Io sono un Dio che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, 6 ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi”.
Per la tradizione ebraica (seguita dalle chiese ortodosse e anglicana) questa proibizione costituisce un secondo comandamento distinto, mentre è unificata in un solo primo comandamento dalle tradizioni cattolica e luterana. Il divieto, secondo il quale nessuna realtà creata può rappresentare Dio creatore sottolinea – quasi anticipando le riflessioni atee di Feuerbach - il pericolo di proiettare su Dio la nostra immaginazione. Vedere, toccare Dio, raffigurarselo a propria immagine non è la grande tentazione dell’uomo religioso o la sua illusoria sponda di sicurezza? La fede biblica esclude ogni immagine che pretende e rischia di fissare un mistero che non può essere de-finito, che non è prevedibile né disponibile: Dio dev’essere accolto come egli stesso liberamente si rivela e vuole essere conosciuto. Individuiamo qui una trasformazione della coscienza religiosa che non ha paralleli nell’Oriente antico. Questa disparità è ben drammatizzata dall’episodio del vitello d’oro quando il popolo sembra nostalgico della solida concretezza degli dei “altri”: si costruisce un dio che è sempre Jhwh, ma che si possa vedere, portare a destra o a sinistra, avanti o indietro. Alla fine sarà la sfiducia a prevalere: “Ma Dio è in mezzo a noi sì o no?” (Es 17,7). E’ forse questa la “fine di una illusione”!? (Freud). Minacce e benedizioni fanno seguito al primo precetto. Dio è colui che punisce perché non è irresponsabile verso il male che minaccia l’uomo: la pena colpisce 4 generazioni, cioè tutti quelli che vivono in una famiglia patriarcale (padri, figli, nipoti e pronipoti). La sua grazia (hesed) raggiunge mille generazioni, cioè va ben oltre ciò che l'uomo può immaginare.
3. “5Non pronuncerai invano il nome di YHWH», tuo Dio, perché YHWH non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano”.
Abbiamo visto come rivelando il proprio nome Dio ha rivelato la sua essenza (Es 3,14). Nessuno può servirsi di questo nome “invano”, ma lassaw significa piuttosto “abusivamente”. Vasta è l’esemplifica-zione offerta dai testi profetici sull’uso “strumentale” del nome: il voto che ambisce di ipotecare il futuro (cfr. Gn 28,20-22; Nm 30,2 sa.), la falsa profezia che trancia giudizi nel nome di Dio (Dt 18,20 ss.) (cfr. Es 22,7), la divinazione che colloca il Signore del mondo nella sfera della magia (Es 22,17; Dt 18,10-11), il giuramenti che lo chiamo a testimone per coprire l’incapacità delle parole a dire la verità. Le riflessioni profetiche si addentrano in terreni di grande attualità quando stigmatizzano un abuso del nome di Dio si manifesta in riti carichi di ipocrisia, nella legittimazione religiosa di poteri umani, nello zelo di interessati inquisitori, nei sistemi teocratici che dichiarano guerre sante, nei palcoscenici politici dove uomini di potere si autoproclamano protettori della cristianità o «difensori della fede», magari togliendo spazio di vita ad altri che vivono una fede diversa. Il nome di Jhwh non deve dividere, ma unire gli uomini. Egli abita sulla rocca di Sion, dove egli si fa invocare (cfr. Gn 4,26; Es 3,15; Dt 12,5) e dove tutti i popoli “negli ultimi tempi” convergeranno per lodare il nome del Signore. Allora “si dirà di Sion: l’uno e l’altro è nato in essa e Jhwh la tiene salda” (Sal 87).
4 “8Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: 9sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; 10ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schia-va, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. 11Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il gior-no settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro.
Non poteva mancare tra i comandamenti un riferimento al tempo, essendo questa una dimensione essenziale della religione d’Israele secondo il grande insegnamento del racconto della creazione (Gn 2,1-4). Il Creatore ordina l'universo, lo sottrae al caos e lo consegna all'uomo come spazio e come tempo. Lo spazio è aperto alla trasformazione, consegnato all'uomo e alla donna, fatti a immagine di Dio, perché completino l'opera della creazione. Il tempo è anch'esso sottratto al caos attraverso l’alternanza giorno-notte, ma non è gestito dall’uomo, appartiene a Dio. Lo "shabat", il giorno senza mattina né sera, è come la firma del Creatore alla sua opera, rappresenta la sua signoria sul tempo. Per questo il terzo comandamento invita l’israelita non a gestire , ma a «ricordarsi» di shabbat». Ricordare due realtà.
Anzitutto quella suggerita dal Deuteronomio (Dt 5,15) che fa del sabato il ricordo settimanale della liberazione dall’Egitto, l'affranca-mento dal lavoro servile, attraverso una interruzione dal lavoro che struttura anche la vita sociale con la benefica divisione in sei giorni lavorativi e uno di riposo. Così il 3° comandamento tutela la libertà dell’uomo chiedendogli di porre un limite alla sua potenza creatrice di trasformazione e di dominio del mondo. Il sabato richiama, in modo permanente, che la libertà è riconciliazione con il proprio limite.
La seconda realtà che l’uomo deve ricordare è la speciale santità del sabato. I testi sacerdotali invitano a «entrare» in questo tempo di Dio dove l'eternità sembra resa disponibile anche all'uomo. Il venerdì sera gli ebrei intonano il canto Lekhah dodì likré eshkà: “Vieni mio amato incontro alla sposa”. C’è come un matrimonio tra il tempo e l’uomo e tutta la liturgia dello shabbat ruota intorno a questa immagine. Quando gli Ebrei perderanno la terra e il tempio sarà distrutto, Torah e shabat costituiranno lo spazio mantenere viva l’iden-tità d’Israele. Sarebbe bello aprire qui un sipario su come la dimensione “tempo” agisce nell’ebraismo fino ai nostri giorni: dalla Recherche di M. Pruost all’interazione tempo-materia di A. Einstein.
5“ 12Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio”.
E’ curioso constatare come nel quarto comandamento, che tratta del rispetto dovuto ai genitori, il padre e la madre vengano messi sullo stesso piano nella attribuzione di un “onore” sul cui significato vale la pena di indagare. Il verbo kabbed ha una valenza semantica molto ampia: “dare o riconoscere il giusto peso”, “glorificare”, esaltare”, termini che la Bibbia riserva anche per definire il rapporto dell’uomo con Dio. Perché i genitori devono essere “glorificati”? Perché sono la fonte della vita! In una società che ancora non conosce l’aldilà, né una ricompensa ultraterrena, essi rappresentano la vita che si perpetua nel tempo, la realizzazione della benedizione originaria di Dio creatore: “Li benedisse e disse loro: Siate fecondi e moltiplicatevi” (Gn 1,28). C’è una conseguenza interessante: il più ampio contesto biblico dice che in ragione di questa funzione i genitori hanno diritto alla loro storia, ad essi va riconosciuta – direbbe P. Ricoeur - una «identità narrativa». L’ebraismo, soprattutto dopo la diaspora si è sviluppato come una religione a carattere marcatamente familiare e questo gli ha consentito di mantenere una propria identità a partire dal racconto fatto dai genitori durante liturgie conviviali. Dunque: dai il peso giusto alla storia dei tuoi genitori per prenderti la responsabilità di trasmettere una tradizione vitale.
I comandamenti che seguono sono formulati con una serie di enunciazioni icastiche, la cui comprensione richiede una paziente analisi lessicale e il rimando a un più ampio contesto biblico.
6“13Non commetterai omicidio”
L’azione proibita nel quinto comandamento è espressa con la radice rsh, relativamente rara nell’AT (46 volte) rispetto ad altri verbi che contemplano altri possibili modi nei quali la vita è tolta (harag, hemit). Originariamente riguarda solo l’assassinio di una persona innocente (cfr. Dt 27,24; Ger 7,9) e vuole proteggere la vita umana contro ogni violenza illegale o arbitraria. Con l'evoluzione della coscienza morale, soprattutto nella letteratura profetica e sapienziale (Is 121; Os 6,9: Gb 24,14; Prv 22,13; Sal 94,6), l'interpretazione viene allargata per sottolineare il rispetto di ogni vita umana, per scongiurare ogni atto di violenza contro la persona. Il comandamento getta qualche luce su problemi quali la pena di morte, il suicidio, l'eutanasia, l'uccisione della vita ancora non nata, la legittima difesa, gli omicidi durante la guerra, l'uccisione degli animali, che vengono regolati in altri passi dell'AT.
La più forte motivazione offerta dalla Bibbia è il rinvio alla parola originaria del Creatore: “perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l’uomo” (Gn 9,6). Eliminare un uomo significa annullare un sé personale, un volto di Dio, ciò che conferisce a ciascuno un carattere unico. Vasta nella Bibbia è la documentazione di immagini e di episodi. Abele, ‘evel, significa soffio, vapore, un nulla. Caino considera l’altro di fronte a sé come un nulla, la sua unica possibilità di rivolgersi a lui è chiamarlo “Nulla”. Ecco un modo di uccidere. Davide, giunto al suo massimo potere ordina un «censimento», fatti di per sé innocuo, ma che ha la sua gravità in quanto operazione anonima di conteggio, che cancella i volti, ossia l’originalità di ciascun essere umano, incasella gli uomini per il potere, li riduce a calcoli matematici, a numeri e campionari. Alla fine riconosce: Ho commesso una grave colpa. Qual è questa colpa? Davide trasforma il suo popolo in una folla di senza volto, di semplici numeri che si possono contare come oggetti, come strumenti della sua potenza.
7 “14 Non commettere adulterio”
Il sesto comandamento non va inteso in primo luogo in senso sessuale, bensì sociale. Trascende infatti la sfera della vita privata in quanto mira a salvaguardare un altro fondamento della comunità: l’istituzione familiare, alla quale spetta la produzione di tutto ciò che è necessario per la vita. Nell’AT adulterio è il rapporto che un uomo ha con una donna sposata o fidanzata; correlativamente si proibisce a qualsiasi donna sposata o nubile di avere rapporti sessuali con altri uomini sposati o fidanzati. L’adulterio è considerato grave perché in questo rapporto intimo una persona, affidandosi a un’altra persona, gioca tutta se stessa e allora il tradimento è distruttivo. Il verbo n’p, che significa “infrangere il legame coniugale” invita a non fare del rapporto coniugale una relazioni di schiavitù o di sfruttamento.
Possiamo rifarci a quella stessa immagine del «dio altro», che non risponde, e dunque non si rende «responsabile» verso gli uomini. Così nel rapporto uomo-donna, all’interno della coppia, l’interruzione della comunicazione rende l’uno estraneo all’altro, si declina la responsabilità. Responsabilità che è descritta in termini realistici nel libro del Levitico (18-20): Non dice «non farai l’amore con la moglie del tuo prossimo», ma «alla moglie del tuo prossimo non donerai il tuo seme che la renderebbe impura», ossia che produrrebbe una filiazione di cui è impossibile assumersi la responsabilità. Per l’ebreo la gravità dell’adulterio è legata strettamente alla generazione: un uomo e una donna commettono adulterio quando il rapporto che li lega rende impossibile rispondere del futuro di un figlio.
8 “15Non rubare”
Il divieto del settimo comandamento consiste di due sole parole e manca di un oggetto specifico. Si riferisce originariamente al possesso vitale della terra. E’ una immagine bellissima che considera Dio unico proprietario della terra, che egli distribuisce equamente, in piccoli appezzamenti, ad ogni israelita liberato dalla schiavitù come condizione che garantisce stabilità, sopravvivenza e futuro. Nessuno può privare l’altro di questo diritto elementare né i beni destinati a tutti possono essere accumulati nelle mani di pochi. Non è casuale che profeti come Amos abbiano attualizzato questo “non rubare” stigmatizzando la disonestà di ogni ricchezza che crea squilibri sociali.
Giocando sulla particolare sfumatura del verbo gnb, che sottolinea quanto di segretezza, di inganno, o di raggiro vi è nel rubare, i commentatori ebraici del midrash e della tradizione mistica sono andati oltre la fisicità del furto e hanno affermato: tu non ruberai il nefesh di una persona cioè il suo corpo e ciò che in esso è trascendente, cioè il modo di ascoltare, di toccare, di guardare, di odorare, di gustare che gli sono propri perché spesso è proprio la soggettività di una persona ad essere derubata quando è ridotta a non dire, non ascoltare, non vedere non odorare, non gustare se non ciò che è imposto o ciò che il conformismo sociale richiede loro. Dunque si può dire: tu non ruberai quel che costituisce la personalità dell’altro, la sua originalità e ciò che gli permette di essere se stesso. Interessante la punizione inflitta al ladro scoperto: una restituzione pari 2, 4, 5 volte tanto, quale misura medicinale per una persona che, abitata dalla voglia di essere di più e di essere in modo migliore, realizza il suo desiderio sul registro dell’avere e non su quello dell’essere. Sarà proprio l’avere, sul quale ha scommesso la sua fortuna, a venirgli meno davanti agli occhi.
9 “16 Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo”.
Il lessico qui usato si comprende meglio in una società a prevalente trasmissione orale, nella quale il giudizio era fondamentalmente basato sulla parola e sulla responsabilità dei testimoni, che in molti casi potevano condurre alla perdita dell'onore e persino della vita del “prossimo”, come attesta l’episodio terribile della vigna di Nabot (1Re 21). Le frequenti lamentele nelle preghiera dei Salmi contro le accuse di testimoni falsi confermano la diffusione di abusi (Sal 27,12 ecc.), che la legge cercò di stroncare stabilendo che “nessuno potrà essere condannato sulla deposizione di un solo testimone” (Nm 35,30; Dt 19,5), ma di almeno due o tre e, nel caso di condanna capitale, questi sono tenuti ad assumere la responsabilità di scagliare la prima pietra (cfr. Gv 8,7; At 7,58), mentre nel caso venga provata una testimonianza falsa, “si farà al testimone ciò che intendeva fare al proprio fratello” (Dt 19,19).
Ritorniamo sulla questione dell’importanza della parola. Nel contesto biblico, a differenza che in quello occidentale influenzato dalla cultura greca, non esiste un atto di pensare separato dalla parola: il pensare è sempre “in parole”; il parlare rappresenta l’attività dell’uomo in quanto soggetto intelligente, capace di dare senso. L’uomo è soggetto parlante. E sulla realtà della parola la Bibbia ha costruito una antropologia della relazione: la parola è libertà di creare una novità nel mondo e nel tempo; la parola ha una forza incredibile di costruzione, ma, analogamente, di distruzione. Sotto questo profilo è interessante osservare come il lessema ‘ed, che significa testimone, sia imparentato con due altri termini: 1) ‘ad, che significa eternità: il testimone contribuisce a costruire per il futuro; 2) edà, cioè comunità, un gruppo di persone che aspira a costruire insieme il proprio avvenire. Si può pensare che la menzogna impedisce di costruire una comunità, chiude le porte al suo futuro.
10 “17Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo”.
Il nono e il decimo comandamento formano secondo la tradizione ebraica un unico precetto, ed escludono in una sola proibizione la cupidigia verso la “casa” del prossimo, intesa in senso ampio: non solo l’edificio, ma tutti i beni in essa contenuti, compresa la moglie, gli schiavi e gli animali. Il verbo hamad, desiderare, spostando la prospettiva dall’azione all’intenzione, tocca l’opzione di fondo in quanto il desiderio giunge alla radice della trasgressione della legge. Questo comandamento non vuole uccidere i desideri, che restano uno dei motori della storia. L’ebraismo del resto è stato maestro di desideri, ha coltivato lungo i secoli un sogno e una nostalgia: la speranza che ogni cosa resti sempre possibile, tanto che la saggezza ebraica dice che «è vecchio colui che ha cessato di desiderare” e anche: “Come il bambino nessuno deve smettere di dire: quando sarò grande, io...”.
Qui il comandamento deplora la dimensione di bramosia che è nel desiderio e che fa regredire l’uomo allo stato originario di schiavitù. La liberazione dalla schiavitù d'Egitto non serve a nulla se non giunge fino alla libertà del cuore dell'uomo. Ciò che Freud denun-cia come il “disagio della civiltà” alimentato dalle contraddizioni tra desiderio e Legge, va in direzione opposta rispetto alla concezione biblica. Nel giardino di Eden l’albero della conoscenza del bene e del male, che è il simbolo della Legge e dei comandamenti, stabilisce un limite al desiderio: non devi mangiarne: non mangiarne significa porre un punto di “non conoscenza” che permette alla Legge di esistere come altro da noi, assolutamente trascendente. Questa proibizione vuole salvare la nostra libertà da ogni possibile deriva individualista, mangiare significa sopprimere questa differenza. Per questo mangiare di quest’albero significa morire. Gesù porta alla massima espressione il comandamento che impone un limite al desiderio quando proibisce non solo l’adulterio ma anche il desiderio della donna (Mt 5,27-28): in questo comando c’è la possibilità di sperimentare una libertà radicale dalla legge stessa e il suo superamento.
Conclusione
Israele è uscito dall’Egitto grazie alla mano liberatrice di YHWH. Si è messo in cammino e, giunto al Sinai, il suo Signore prima di donargli il Decalogo gli si rivolge così: “Voi avete visto come ho sollevato voi su ali di aquila e vi ho fatto venire fino a me” (Es 19,4). E’ un’immagine che ricorre solo qui. Offre una simbologia che ci fa pensare. Ali d’aquila richiama l’intimità e la protezione dello svezzamento materno che Dio riserva ai suoi piccoli. Ali d’aquila evoca il planare leggero nell’aria della regina degli uccelli che porta i suoi piccoli in alto per farli misurare con l’ebbrezza di una superba visione. Ali d’aquila allude forse ad un addestramento al volo: la madre porta i piccoli in alto per lanciarli nell’aria e insegnare loro a volare con le proprie ali.
Forse il Decalogo è qualcuna di queste ipotesi o forse tutte insieme. Vi ringrazio del vostro invito e dell’attenzione con la quale avete voluto prestarmi ascolto.
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