IL DECALOGO IN DISCUSSIONE. QUANDO LA FILOSOFIA INCONTRA LA MUSICA: FABRIZIO DE ANDRÈ E LA RELIGIONE

11.06.2012 21:00

 

  • Voce recitante

Davide Grioni

  • Voce interprete

Ruggero Frasson

  • Chitarra acustica

Paolo Pala

  • Commento ai testi

Tiziano Guerini

Luca Lunardi

Federica Talone

 

 

Si chiamava Gesù

 
Venuto da molto lontano
A convertire bestie e gente
Non si può dire non sia servito a niente
Perché prese la terra per mano
Vestito di sabbia e di bianco
Alcuni lo dissero santo
Per altri ebbe meno virtù
Si faceva chiamare Gesù
 
Non intendo cantare la gloria
Né invocare la grazia o il perdono
Di chi penso non fu altri che un uomo
Come Dio passato alla storia
Ma inumano è pur sempre l’amore
Di chi rantola senza rancore
Perdonando con l’ultima voce
Chi lo uccide fra le braccia di una croce
 
E per quelli che l’ebbero odiato
nel Getsemani pianse l’addio
come per chi lo adorò come Dio
che gli disse “Sii sempre lodato”
per chi gli portò in dono alla fine
una lacrima o una treccia di spine
accettando ad estremo saluto
la preghiera e l’insulto e lo sputo
 
E morì come tutti si muore
come tutti cambiando colore
non si può dire che sia servito a molto
perché il male dalla terra non fu tolto
Ebbe forse un po’ troppe virtù
ebbe un volto ed un nome: Gesù
di Maria dicono fosse il figlio
sulla croce sbiancò come un giglio
 
 
 
Preghiera in Gennaio
 
Lascia che sia fiorito
Signore il tuo sentiero
Quando a Te la sua anima
E al mondo la sua pelle
Dovrà riconsegnare
Quando verrà al tuo cielo
Là dove in pieno giorno
Risplendono le stelle.
 
Quando attraverserà
L’ultimo vecchio ponte
Ai suicidi dirà
Baciandoli alla fronte
“Venite in Paradiso
là dove vado anch’io
perché non c’è l’inferno
nel mondo del buon Dio”.
 
Fate che giunga a voi
Con le sue ossa stanche
 
Seguito da migliaia
Di quelle facce bianche
Fate che a voi ritorni
Tra i morti per oltraggio
Che al cielo ed alla terra
Mostrarono il coraggio.
 
Signori benpensanti
spero non vi dispiaccia
se in cielo in mezzo ai Santi
Dio fra le sue braccia
soffocherà il singhiozzo
di quelle labbra smorte
che all’odio e all’ignoranza
Preferirono la morte.
 
Dio di misericordia
il Tuo bel Paradiso
l’hai fatto soprattutto
per chi non ha sorriso
per quelli che han vissuto
con la coscienza pura
l’inferno esiste solo
Per chi ne ha paura.
 
Meglio di lui nessuno
mai si potrà indicare
gli errori di noi tutti
che puoi e vuoi salvare
ascolta la sua voce
che ormai canta nel vento
Dio di misericordia
Vedrai, sarai contento.
 
 
 
Il testamento di Tito
 
Non avrai altro Dio all’infuori di Me
Spesso mi ha fatto pensare
Genti diverse venute dall’est
Dicevan che in fondo era uguale
Credevano a un altro diverso da Te
E non mi hanno fatto del male
Credevano a un altro diverso da Te
E non mi hanno fatto del male.
 
Non nominare il nome di Dio
Non nominarlo invano
Con un coltello piantato nel fianco
Gridai la mia pena e il suo nome
Ma forse era stanco, forse troppo occupato
E non ascoltò il mio dolore
Ma forse era stanco forse troppo lontano
Davvero lo nominai invano.
 
Onora il padre onora la madre
E onora anche il loro bastone
Bacia la mano che ruppe il tuo naso
Perché le chiedevi un boccone
Quando a mio padre si fermò il cuore
Non ho provato dolore
 
Quando a mio padre si fermò il cuore
Non ho provato dolore
Ricorda di santificare le feste
Facile per noi ladroni
Entrare nei templi che rigurgitan salmi
Di schiavi e dei loro padroni
Senza finire legati agli altari
Sgozzati come animali
Senza finire legati agli altari
Sgozzati come animali.
 
Il quinto dice “Non devi rubare”
E forse io l’ho rispettato
Vuotando in silenzio le tasche già gonfie
Di quelli che avevan rubato
Ma io senza legge rubai in nome mio
Quegli altri nel nome di Dio
Ma io senza legge rubai in nome mio
Quegli altri in nome di Dio.
 
Non commettere atti che non siano puri
Cioè non disperdere il seme
Feconda una donna ogni volta che l’ami
Così sarai uomo di fede
Poi la voglia svanisce e il figlio rimane
E tanti ne uccide la fame
Io forse ho confuso il piacere e l’amore
Ma non ho creato dolore.
 
Il settimo dice Non ammazzare
Se del cielo vuoi essere degno
Guardatela oggi questa legge di Dio
Tre volte inchiodata nel legno
Guardate la fine di quel nazareno
E un ladro non muore di meno
Guardate la fine di quel nazareno
E un ladro non muore di meno.
 
Non dire falsa testimonianza
E aiutali a uccidere un uomo
Lo sanno a memoria il diritto divino
E scordano sempre il perdono
Ho spergiurato su Dio e sul mio onore
E no, non ne provo dolore
Ho spergiurato su Dio e il mio onore
E no, non ne provo dolore.
 
Non desiderare la roba degli altri
Non desiderarne la sposa
Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi
Che hanno una donna e qualcosa
Nei letti degli altri già caldi d’amore
Non ho provato dolore
L’invidia di ieri non è già finita
Stasera vi invidio la vita
 
Ma adesso che viene la sera e il buio
Mi toglie il dolore dagli occhi
E scivola il sole al di là delle dune
A violentare altre notti
Io, nel vedere quest’uomo che muore
Madre io provo dolore
Nella pietà che non cede al rancore
Madre ho imparato l'amore
 

Dibattito

Data: 12.06.2013

Autore: Federica Talone

Oggetto: Il testamento di Tito

« Siamo situati all'interno della natura; e dovrebbe essere posto fuori di essa il nostro inizio, la nostra origine? Viviamo nella natura, con la natura, della natura e dovremmo tuttavia non essere derivati da essa? Quale contraddizione! »
(Ludwig Feuerbach, Essenza della religione)



Partirei da questa citazione di Feuerbach per commentare un testo carico di significati profondi.

De Andrè non credeva nel Dio delle Chiese, ma si è sempre interrogato sull’esistenza di una “paternità” superiore. Ha sempre coltivato il dubbio, cercando nelle sue canzoni le tracce del divino, con uno spirito religiosamente ribelle, polemico verso ogni culto organizzato.

Non possiamo parlare di De Andrè come di un “cristiano anonimo”, ma piuttosto come di un instancabile esploratore del significato della vita e del Dio nascosto, che per lui non era il Dio canonico ed ecclesiastico, ma quelle presenza misteriosa che soffia un’anima nel mondo e a cui ci si rivolge quando si ama intensamente la vita e si vuole penetrare nel senso delle cose e del tempo che passa.

Il Testamento di Tito è una canzone d'amore, ancora una volta ciò che trapela è infatti il sentimento del cantastorie per l'umanità, specialmente per quella parte più segnata dalla vita e, proprio per questo, più vera. Quando Cristo moriva, lassù sul Golgota, anche se nelle nostre Vie Crucis i ladroni sono soltanto comparse da affiancare al giovanotto più bello del paese, De Andrè ci urla che non era solo, a fianco a lui c’erano altre persone che morivano nello stesso modo. Come una sorta di riscatto, la parola viene quindi data al ladrone buono presente nei Vangeli apocrifi come Tito, che passa in rassegna, uno dopo l’altro, i 10 comandamenti. Fabrizio De André a proposito della scelta ne La Buona Novella, di raccontare i Vangeli Apocrifi rispetto a quelli ufficiali disse “(non me ne frega) un bel cacchio di mettere in musica la propaganda dell’ufficio stampa di Gesù Cristo”. Questa frase la dice lunga sulla spiritualità profonda di una persona che sappiamo non essersi risparmiata durante la vita. I Tito e i DA dei nostri giorni sono le persone, più o meno fortunate, che hanno fatto della propria vita una missione di ricerca, che non si sono sedute, fatte scegliere, che non hanno letto e imparato delle regole, subendo una “verità”, magari dettata da qualcuno troppo diverso e lontano.

De Andrè dà quindi la parola a colui che nei testi ufficiali non è che una comparsa, il paragone in negativo, l’esempio da non seguire, colui che fa splendere ancora di più Gesù, il “vero figlio di Cristo”. In questo modo viene subito lanciato un messaggio molto forte: cosa significa davvero essere un Uomo.

Ne Il testamento di Tito abbiamo la sintesi del messaggio de La buona novella: nella prima parte il condannato commenta tutti i comandamenti, così come li ha capiti e li ha vissuti nella propria esistenza. Egli li smonta uno per uno, “smascherando - secondo DA - l’ipocrita convenienza di chi li aveva dettati”. Si vuole contestare quindi una “moralità” formale e dogmatica che non tiene conto della singolarità della persona ma, al contrario, spesso difende il privilegio, o comunque la situazione, dei potenti a svantaggio dei deboli e dei poveri. Nella seconda parte della canzone, che poi è l’ultima strofa, Tito riscopre il senso della “moralità”: “nella pietà che non cede al rancore” egli “ha imparato l’amore”. E’ questo amore in-umano del Gesù grande rivoluzionario che gli fa vedere tutto in modo diverso e lo riporta al senso profondo e pieno della sua umanità.

Tito in croce, alla sua destra, pare aver violato ogni comandamento, ma questi precetti, riletti con i suoi occhi, ci paiono presto così avulsi dalla sua realtà, e probabilmente anche dalla nostra, da suonare vuoti. Il ladrone non ha avuto la possibilità di seguire quelle leggi, ma nonostante la continua lotta alla sopravvivenza non ha smesso di interrogarsi sul loro senso, sul senso delle cose.

Si svela presto l’ipocrisia e la stupidità nel credere che le differenti fedi cattoliche rappresentino differenti Padri per l’uomo, causa dei fanatismi religiosi, causa di odio; la tenerezza estrema che traspare nell’immaginare una persona sola, ferita, disperata, maledire e imprecare contro quel Dio che vorrebbe tanto al suo fianco, ma che tarda a lasciargli una carezza; il perbenismo di chi smette di ascoltarsi per seguire una vita scritta da chissachì; la falsità nello stabilire dove e a chi debba andare il proprio rispetto; l’ipocrisia di chi per santificare le feste adorna i templi, gli stadi, le piazze, convincendosi che tutta quella festa abbia ragione d’essere, proprio lì, con i cecchini pronti a sparare, nella città blindata tracotante d’oro, nel voltare le spalle, tapparsi le orecchie, chiudere gli occhi per non vedere chi, magari dietro l’angolo, fuori dai confini del tempio, aspettando da una vita la loro solidarietà, è costretto a tradire l’ennesimo comandamento, pronto a rubare per fame, a causa loro.

Dove soffierà più Dio?

Tito ha violato tutti i comandamenti, ma non ha causato dolore.



E’ questo il messaggio centrale de La buona novella, in cui De Andrè mira a contestare la morale formale e dogmatica dell’istituzione (incapace di comprendere la singolarità della persona e di custodire la dignità di ogni uomo, specie se debole, povero e sconfitto) riscoprendo il senso puro e autentico della “moralità” che senza cedere al rancore riscopre l’amore, unico vero comandamento.

Data: 12.06.2013

Autore: Tiziano Guerini

Oggetto: Si chiamava Gesù

“Un grande poeta è sempre anche un grande filosofo!” dice Emanuele Severino.
Non so se Fabrizio De André si può definire un grande poeta, credo di no; ma certo nelle sue canzoni c’è della poesia . E se c’è della poesia credo si possa dire che c’è anche della filosofia: insomma, c’è dietro un’idea, una considerazione non banale. Personalmente, nella poesia “Non nominare il nome di Dio invano” ci leggo il problema del “perdono”


“Non intendo cantare la gloria
né invocare la grazia o il perdono…
“Ma inumano è pur sempre l’amore
di chi rantola senza rancore
perdonando con l’ultima voce…
“accettando ad estremo saluto
la preghiera e l’insulto e lo sputo… (cioè capendo sia l’amore che l’odio verso di lui)


“Non nominare il nome di Dio invano” cioè non tirare in ballo dio o la fede religiosa quando basta la ragione dell’uomo a spiegare le cose.
Eppure ci sono delle circostanze in cui dio (il sacro) l’abbiamo dentro di noi: lo evochiamo, lo invochiamo, lo preghiamo …
Intendo il nome di dio come riferimento al divino, al sovrumano, all’ultra-razionale – Laicamente possiamo chiamarlo filantropia, sim-patia, compassione, amore…
Il gesto del perdono (gratuito) è irrazionale. La ragione chiede giustizia (non dico occhio per occhio, dente per dente…ma certo: “hai fatto il male e il male ricevi: dal mio odio e disprezzo, dalla società, dallo Stato…). Per andare oltre la (semplice) giustizia “occorre nominare il nome di dio”: il venir mano della ragione è l’impazzimento nel sentimento.
Dice Umberto Eco nel “Cimitero di Praga”: “E’ l’amore che è una situazione anomala. L’odio è la vera passione primordiale. Per questo Cristo è stato ucciso: parlava contro natura”.
(ricordo di aver sentito questa espressione “il perdono è disumano” dalla voce di un padre camaldolese, con grande scandalo dei presenti. Argomentava facendo riferimento ad un episodio. Un padre che gli confidava “non riesco a perdonare” e si sentiva cristianamente in colpa per questo. Aveva perso il giovane unico figlio in seguito ad un semplice intervento chirurgico eseguito malamente e drammaticamente da un chirurgo sotto l’effetto della droga. E padre Paolo si sentì, in confessione, identificandosi col dolore di quel padre, di dire “Anch’io non lo perdono!”)
Eppure il perdono ha una sua forza: dicono che riesca a metterci in pace con noi stessi.
E’ il “credo quia absurdum” dei mistici
E’ “l’abditum animae” di Hekkart
E’ la scommessa di Pascal
E’ “Abramo che vibra il pugnale contro il figlio” secondo Kierkegaard
E’ la “compassione” di Schopenhauer
E’ insomma il “nominare, evocare dio” ( il sacro, l’irrazionale, il livello della follia…) per andare – esistenzialmente – oltre la razionalità.

Data: 12.06.2013

Autore: Luca Lunardi

Oggetto: La canzone della misericordia

La canzone della misericordia.

Quando Tiziano Guerini mi chiamò a commentare una delle canzoni di Fabrizio De André per l'ultima serata del Caffè Filosofico prima della pausa estiva, Preghiera in Gennaio fu una scelta obbligata. Non avrei mai potuto intervenire sugli altri testi, che mi risultano sgradevoli alla lettura, sebbene riconosca la grandezza poetica. La poesia può essere un veicolo di espressione filosofica, e per De André di fatto lo è, specie quando verte su temi così gravi come il suicidio per cui il silenzio sarebbe forse l'unico atteggiamento intellettuale degno - accanto, appunto, alla preghiera. Va da sé che la poesia di De André è una preghiera sui generis, che ha però il pregio di cogliere un frammento di verità che in ultima analisi anche un cristiano può condividere.

La canzone, composta dopo il suicidio di Luigi Tenco nel 1967, evita sia le posizioni dissacranti che si ascoltano altrove dal De André "religioso", sia altri filosofemi che pure sarebbero possibili meditando sul suicidio. Atto estremo sotto ogni prospettiva, togliersi la vita per scelta deliberata è l'opzione autocontraddittoria dell'uomo che porta in sé la libertà come essenza del proprio essere. L'essere umano è libero, anche di negarsi; e come tutti i casi in cui si annida un autoriferimento, pare di cogliere un assurdo logico nel violare il quinto Comandamento in riferimento a se stessi, se nel contempo non lo si può più confessare. Ogni peccato è commesso, infatti, se lo si percepisce in piena vertenza e deliberato consenso, ma anche, sempre, con la certezza che la misericordia di Dio, previa sincero pentimento, non manca mai. Privandosi della vita, la riconciliazione in questi termini non è possibile. D'altra parte, il suicidio in quanto tale non è certamente giustificabile - fatte salve circostanze anche fortemente attenuanti - non appena si ricorda che la vita, a rigore, appartiene a Dio, non alla persona che l'ha ricevuta in dono. Questo per un credente che ama un po' troppo le verità logiche.

Filosofi e sociologi, a parere di chi scrive, hanno solo scalfito il problema, anche se devo ammettere di non aver indagato oltre le quattro nozioni che un appassionato può ricordare. Quanto può dire la medicina è certamente rilevante, ma qui a contare è la prospettiva esistenziale in un senso che va al di là sia dei meccanismi di azione degli psicofarmaci, sia di quanto può elucubrare la psicanalisi (verso la quale chi scrive nutre severe perplessità, se non vago disprezzo). Se nella storia della filosofia il suicidio è generalmente condannato (con l'unica eccezione rilevante degli stoici), quello che possono pensare uno Schopenhauer (suicidio come atto che in realtà ancora tradisce volontà di vivere, ma un'altra vita), o un Durkheim con le sue catalogazioni, resta tutto sommato alla superficie. La tragedia del singolo che non vede altra strada possibile che uccidersi è qualcosa che trascende qualunque speculazione, per lasciare spazio solo al silenzio, alla preghiera, alla pietà. Ecco che allora, quando De André canta

Venite in Paradiso
Là dove vado anch'io
Perché non c'è l'inferno
Nel mondo del buon Dio

non si può non provare una speranza che è certezza della misericordia, anche di quel figlio disperato che non ha potuto, non ha saputo trovare una via d'uscita, schiacciato dal male, dalla sofferenza, dalla solitudine, dal dolore. Poco importa che poi il nostro canti anche l'inferno esiste solo - per chi ne ha paura. Un cristiano sa che purtroppo non è così, ma poco importa nell'economia della poesia.
Mi piace concludere immaginando il suicida, dinanzi al Volto del Padre, che vede finalmente la luce che il suo dolore gli aveva impedito di vedere, sperimentando l'amore a cui innumerevoli suoi fratelli anelano meditando lo stesso tragico gesto. Se potessero tornare, per dire loro di non farlo.

Meglio di lui nessuno
Mai Ti potrà indicare
Gli errori di noi tutti
Che puoi e vuoi salvare

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