Non posso certo essere d’accordo con Horkheimer (si veda l’intervento di Patrizia de Capua). E’ stato proprio l’abuso della ragione, per usare le parole di von Hayek, costituito dalla reificazione di entità collettivistiche che schiacciano l’uomo in una super-dimensione in cui il singolo è nulla ad aver provocato la seconda guerra mondiale, con i suoi deliri di potenza romantica dove Stato, Società, Razza, Nazione, Partito, Storia, Filosofia, Religione, Economia nelle loro stramaledette relazioni “dialettiche” riducono la persona ad ingranaggio miserabile. La Shoah non è certo la ragione¸ ne è la morte certa, ma la Scuola di Francoforte non ha capito niente di che cos’è la ragione. Quelli non sono illuministi, ed io invece, come Patrizia, cerco di esserlo.
Nutrendo supremo disprezzo per gli intolleranti di qualunque tipo, non ho potuto che compiacermi delle parole spese dal prof. Torrero in difesa di un gigante del pensiero contemporaneo come Joseph Ratzinger, beceramente attaccato per il discorso di Ratisbona (e per molti altri interventi) da pseudointellettuali anticlericali e inqualificabili fanatici votati al culto della guerra e della morte. Quando, nello stringergli la mano per complimentarmi, pensavo unicamente a come ringraziarlo per i piacevoli spunti che ci aveva regalato durante la serata, avevo completamente dimenticato che, se la serata aveva avuto un senso, è proprio perché il “dialogo fra le religioni e le culture per la pace” resta un colossale punto interrogativo.
Partiamo dalla parola che è al centro della locuzione virgolettata sopra: dialogo. Qualunque appassionato di filosofia attribuisce a questa parola un valore sovrano - se non altro perché la associa ad un pensatore elevato nei secoli al rango di semidio intoccabile, criticare il quale è ancor oggi ai limiti del sacrilego, del quale una fortuna quasi irripetibile ci ha conservato una grande mole di lavori impostati proprio su quella forma comunicativa. Che succede in quei dialoghi? Due o più personaggi, generalmente, si pongono l’obiettivo di argomentare razionalmente attorno ad un tema, di solito per darne una definizione. Né quei temi in sé né il fatto che lì si cerca di produrre definizioni mi interessa qui; richiamo al fatto che quei personaggi, nel discutere, seguono inconsapevolmente delle regole non scritte senza seguire le quali, da esseri razionali, nessuna comunicazione (diciamo pure nessun dialogo) è possibile. Per rendere l’idea, si pensi a qualcosa di simile a quanto propone Paul Grice nella sua filosofia pragmatica del linguaggio; vuoi essere ritenuto un interlocutore onesto quando parli con qualcuno? Bene, cerca di attenerti a quelle massime conversazionali (veridicità, pertinenza, chiarezza, ed altre). Ma incontriamo un primo bivio metafilosofico. Taluni propendono per la strada che porta a dire: non è necessario che si assuma alcun insieme di postulati – etici, epistemologici, linguistici, ideologici, ecc. – per poter essere in grado di condurre fruttuosamente la discussione critica sovra menzionata (continuiamo pure a chiamarla dialogo per semplicità). In altre parole, se vogliamo discutere non abbiamo alcun bisogno di sondare preliminarmente se condividiamo taluni presupposti di fondo senza i quali il dialogo, si teme, non sarebbe possibile. Questa è la posizione, ad esempio, dei razionalisti critici (Popper, Bartley, Albert…) purchè almeno si rinunci alla violenza e si opti per la ragione. L’altra strada del bivio di cui sopra è percorsa da chi sostiene in qualche misura il contrario, e cioè che, per poter dialogare¸ determinati assunti devono essere accettati dalle controparti perché il dialogo possa almeno iniziare (non è assolutamente richiesto che il dialogo debba “finire” con un risultato definito, anzi; alcuni estenuanti dialoghi platonici terminano la loro circonvoluzione con un millimetro di avanzamento, a cui corrisponde però spesso un anno luce di consapevolezza in più). In altre parole occorrerebbe appartenere, in qualche senso, ad uno stesso territorio culturale, specie assiologico.
A quale dei due partiti appartiene il campione di popolazione del Caffè Filosofico che ha animato l’ultima serata dedicata a discutere di intersezioni culturali e comune appartenenza al divino? Se si accetta la tesi del Prof. Torrero forse il problema è mal posto, possedendo noi, in quanto esseri umani produttori da millenni di cultura, una comune ancestrale struttura mentale che fa ritrovare, per vie inaspettate e traverse, le idee di Platone nelle speculazioni orientali apparentemente così aliene dalla ragione strumentale occidentale. Per farla più semplice, potremmo cavarcela dicendo che certamente, in qualche senso, siamo tutti figli dell’Assoluto abitanti del medesimo pianeta e viventi sulla base dello stesso patrimonio genetico, per concludere che intrinsecamente, fin dall’inizio, condividiamo uno spazio comune su cui costruire i nostri dialoghi.
Ma non voglio contemplare ulteriormente questo meraviglioso quadretto. Trattasi di filosofia irenistica da Mulino Bianco – o da Libro Cuore (qualcuno ha parlato di buonismo, e non fuori luogo). Non credo che andremmo molto lontano.
E’ vero: si è parlato perfino di guerra e di combattimento (spirituale). Ma per quale motivo dovremmo ribadire la presunta ovvietà che le culture si compenetrano e si contaminano, e che tutti gli esseri umani, in modo dipendente dalle proprie radici prime, errano alla ricerca di un “comune senso” (Dio, Assoluto, o qualche Mondo dei Valori sacro o profano)? La risposta è: per azzerare con la bacchetta magica il conflitto, in un’epoca in cui esso parrebbe avere riacquistato dimensioni da clash of civilizations. E allora, presi dal panico, gli uomini di buona volontà insistono piuttosto su quanto unisce e si possiede di comune, piuttosto che su ciò che distanzia e caratterizza, e questo certamente fa onore a chi si prodiga per il fine nobile della pace. Tuttavia, non sono affatto sicuro che annacquare le differenze per amore di pace sia la strategia vincente. Temo sia piuttosto una raffinata fuga da una realtà molto più oscura.
Il Dalai Lama prega (cristianamente, direi io), per i suoi persecutori mentre un moloch oppressore che ha cambiato tutto per non cambiare niente si accinge a conquistare il mondo con la sua potenza crescente (è semplicemente osceno che personalità come Vattimo o Losurdo prendano le difese, ancora una volta, di un marxismo giurassico profondamente ideologico che ormai sfiora il ridicolo, schierandosi apertamente contro i monaci tibetani e scomodando l’imperialismo britannico. La filosofia ha qualcosa di sensato da dire o è in balìa di queste assurdità?). Decine di persone morte, ambasciate devastate, ideologi trascinatori di folle inferocite e minacce ripetute ormai considerate rumore di fondo fanno seguito alla pubblicazione di pochi disegni o alla estrapolazione disonesta di qualche frase tratta da discorsi accademici, mentre il commento più alto che si ascolta è che non si deve offendere la “sensibilità religiosa” (sensibilità religiosa?). Monaci bastonati. Missionari trucidati. In larghissime aree del mondo libertà di culto e pensiero sono semplicemente dei miraggi, mentre filosofi occidentali hanno parlato e parlano di ossimori come “tolleranza repressiva” (ancora la Scuola di Francoforte) rivolgendosi proprio a qull’Occidente che pur li tutela, garantendo loro una libertà di espressione che non ha precedenti nel tempo e paragoni nello spazio. Purtroppo il mio cinismo non può far altro che pensare che riunire qualche intellettuale, e un uditorio di persone selezionate che già sanno perfettamente che il dialogo è pressoché un obbligo per persone che si ritengano dotate di ragione, finisce per essere un buon esercizio di consolidamento di una consapevolezza che già esiste in larga misura, ma fra persone che non ne hanno bisogno. Altra cosa è impedire che chi si ritiene il nuovo mahdi imponga alle donne un’esistenza da animale tribale e che si procuri ordigni per spazzare via la presenza corruttrice dei perfidi ebrei, trovandone la giustificazione nella propria tradizione religiosa. A costoro non importa nulla del dialogo, anche se non lo dicono, fondandosi su intrinseche e irriducibili menzogne e dissimulazioni, oltre che su tradizioni sclerotizzate che pongono il tribalismo collettivistico sopra la dignità della persona - cosa che non ha nessuna possibilità di conciliarsi con la democrazia, comunque si intenda questa (e non ci sono molti modi di intenderla). Tutti gli ideologi irrazionalisti portatori di istanze totalitarie sfruttano da sempre le idee umanitarie per trarne vantaggio, paralizzare le società aperte con i loro stessi principi e perfino ergersi a paladini di quelle stesse idee, contribuendo a intorpidire ancor più le acque e a confondere la vittima col carnefice. L’onere della prova spetta a chi si rifiuta di ratificare la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, motivando la scelta con il pretesto che la sua tradizione già possiede quel patrimonio in essenza, arrampicandosi in pazzesche acrobazie dialettiche degne di Hegel per non dire sì sì, no no. L’onere della prova ricade su chi rinchiude gli oppositori nei campi di rieducazione, e nel frattempo fa portare una torcia in giro per il mondo blaterando di concordia (triste che solo ben pochi si rifiutino di prestarsi a questa pagliacciata).
Le tradizioni religiose e culturali non sono uguali. Ciò è bene, è la manifestazione di un’infinita varietà che è allo stesso tempo ricchezza. Ma l’appello ad un presunto comune fondamento, quando vuole irenisticamente abbracciare tutto per esorcizzare la paura, finisce per aggrapparsi ad un appiglio troppo esile e sterile – viviamo in pace perché siamo tutti esseri umani: magnifico, ottima soluzione. Ma il Cristianesimo non è l’Islàm. Il Buddismo non è la religione atea dei governanti comunisti. Non tutte le religioni predicano la non violenza, e non è necessario essere dei polemisti a tutti i costi per sostenerlo – basta andare alle fonti. Questo ci porterebbe lontano e non voglio certo imbarcarmi in questa avventura; faccio solo notare che, se qualcuno crede che il jihad islamico sia unicamente uno sforzo spirituale, facendo leva sulla radice etimologica, cerca di avallare una tesi che è cara solo a entusiasti commentatori occidentali e a modernisti musulmani attestati su posizioni apologetiche, a cui le anime belle abboccano senza nemmeno verificare; la quasi totalità delle fonti e delle tradizioni, a partire dal Corano, mette in primo piano il combattimento militare in difesa della fede – sulla via di Dio, per innalzare il Suo nome al livello più alto - , con gli ovvi corollari di preparazione ideologico-religiosa. Un grande numero di versetti in cui compare il verbo combattere nel Corano non è nella radice jhd, ma nella radice qtl - che significa battagliare, uccidere, eliminare fisicamente – e hrb, muovere guerra. Abbastanza imbarazzante, ma è chiaro che non dovremmo prendercela tanto con Muhammad, quanto con chi lo prende alla lettera. Eretici mistici sufi, sostenitori del Grande Jihad e autentici riformatori, da sempre sulla difensiva, sono oggi addirittura ridotti al silenzio, a parte qualche eccezione estremamente coraggiosa e sovente costretta ad espatriare (verso Occidente) o a vivere blindata, la cui influenza culturale è purtroppo prossima allo zero. Queste considerazioni non hanno nulla a che vedere né con forme di razzismo culturale, né con qualche politica “muscolare” neoconservatrice, né con approcci squisitamente “euro-centrici” tanto avversi a certi intellettuali progressisti, né con un bieco spirito di rivalsa identitaria: lascio questi schiamazzi ad altri e non me ne curo. Ribadisco che culture e tradizioni sono da osservare con mente lucida per esaminarne il rispetto per la vita e per la libertà dell’individuo, valori non negoziabili: ecco il mio territorio, unito al requisito di parlar chiaro ed evitare di giocare con le parole. Non mi interessa dialogare con chi non lo condivide, in primo luogo con gli ipocriti con la doppia e tripla faccia che propongono “moratorie” delle pene corporali coraniche in attesa che qualche sapiente, per onorare la “giustizia”, sancisca la corretta lettura dei testi che le autorizzano (Tariq Ramadan). Molti applaudono in buona fede a queste irricevibili turlupinature, basate tra l’altro su equivoci linguistico-concettuali di fondo: giustizia, o libertà, la stessa dialogo, sono parole semanticamente dipendenti dalla cultura, ma troppi europei sembrano non saperlo, chiedendosi in che cosa stanno sbagliando. Ovviamente ad interessare sono i concetti e non le parole, ma mentre per un europeo dialogo significa scambio razionale di idee, per un musulmano arabo significa sostanzialmente da’wa, chiamata all’Islàm. Libertà, per un europeo, è in primo luogo libertà per l’individuo (limitata da quella altrui); per un musulmano arabo è al-hurriyya, pressoché sinonimo di caos, anarchia, instabilità (memoria collettiva dell’endemico stato di guerra intertribale dell’Arabia preislamica, quando ogni tribù aveva il proprio dio onorato o bestemmiato secondo l’andamento della battaglia di turno). Per lo stesso mondo culturale arabo, tirannide è contrapposta a giustizia, non a libertà, dove tirannide equivale a “governo alieno da principi islamici autentici”, e non oppressione della libertà individuale (qui c’è purtroppo qualche eco del peggior platonismo politico). Anche volendo sospendere il giudizio su quale dovrebbe essere il significato “corretto” di queste parole (non ho dubbi in merito, ma fingo per un attimo di essere un relativista), tutto questo è fonte di gravi incomprensioni di fondo, ma anche una volta che queste contrapposizioni concettuali si comprendono il loro superamento resta questione difficilmente risolvibile. Il territorio culturale non è lo stesso; occorre spostare all’indietro la linea di demarcazione del medesimo. A mio modo di vedere, l’unica frontiera possibile è il riconoscimento dell’inviolabilità della vita e della libertà dell’individuo di determinarsi in tutte le sue scelte teoriche e pratiche – i diritti umani citati alla fine dell’intervento di Piero Carelli. Su tutto il resto si potrà e dovrà dialogare.
Probabilmente i più considerano queste posizioni come un ostacolo alla soluzione dei problemi che danno luogo alla ricerca del dialogo medesimo, a cui anche il Caffè Filosofico, nel suo piccolo, contribuisce; mi chiedo se esiste un limite al dialogo. Scusate se è poco, questa è una questione filosofica mortale. Temo l’uomo che legge un libro solo, diceva Tommaso d’Aquino – fosse anche il Libro Cuore, che ovviamente potremmo decidere di continuare a leggere, sistemandoci la coscienza mentre fuori infuria il Mein Kampf (esistono anche oggi tante battaglie totalitarie scritte a chiare lettere). Chi non conosce l’altro, infatti, ne ha paura; ma anche conoscendolo potremmo averne. E dobbiamo conoscerci. Ma potrebbe non bastare leggere tutti i libri del mondo per sapere come affrontare i problemi devastanti derivanti dalla diversità culturale, ed io non lo so proprio. Non mi sogno di dare soluzioni, a differenza di altri che pensano di dissolverli semplicemente con il dialogo ecumenico fra il diavolo e l’acqua santa.
IL DIALOGO FRA LE RELIGIONI E LE CULTURE PER LA PACE (CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL CRISTIANESIMO E AL BUDDISMO) - RELATORE: CLAUDIO TORRERO
“ Le tre vie d’uscita dal “mito” sono state: - la “mistica” che può essere esemplificata dalla spiritualità orientale, specie quella buddista; - “la rivoluzione monoteista” iniziata con l’Ebraismo e culminata con il Cristianesimo; - “l’illuminismo”, cioè un’idea di ragione, quale quella della cultura filosofica greca, del tutto separata dalla fede religiosa.” (Card. Ratzinger)
La situazione attuale porta alla luce quello che da sempre le caratterizza: la loro interdipendenza, il fatto che ciascuna si sia generata ad opera di fattori che in ultima istanza la collegano alle altre. La mondializzazione in corso è un vortice che da un lato unifica i gruppi sociali, dall’altro li frammenta, rendendo ciascuno scheggia impazzita. Ricercare dunque il senso del “logos”, di ciò che unisce e conferisce ordine a ogni cosa: questo è ciò a cui ciascuno è chiamato.
(1) Claudio Torrero, di Torino, è docente di filosofia nella scuola superiore, è co-presidente del Centro Studi Maitri Buddha e direttore della rivista “Interdipendenza”.
Il problema della costruzione di una filosofia interculturale si pone oggi a diversi livelli.
C’è innanzitutto un’esigenza ovvia per chiunque, cioè che i processi di globalizzazione in corso avvicinano i popoli, talvolta li mescolano e in ogni caso rendono inevitabile pensare la pluralità delle tradizioni e delle culture del pianeta.
Quello che comunemente si pensa e si dice, che i vari soggetti che compongono il mosaico dell’umanità devono imparare a convivere nel rispetto reciproco, presuppone evidentemente in un certo senso la conoscenza gli uni degli altri, e una conoscenza che non si limiti agli aspetti più superficiali tra quanti definiscono un’identità ma vada a cogliere le radici più profonde.
Riguardo a ciò, è convinzione oggi assai diffusa che tali radici siano costituite essenzialmente dalle tradizioni religiose, e anche per questo le religioni si trovano al centro dell’attenzione generale. Ci si sente in dovere di conoscere la religione degli altri, di riscoprire la propria, in ogni caso di farsi un’idea del fenomeno nel suo insieme.
Per quanto tale intento sia lodevole, è però possibile che vada incontro a problemi insormontabili.
Ciascuna religione si presenta come un edificio la cui ampiezza e complessità impedisce allo sguardo di afferrarlo nella sua totalità; tant’è vero che solo vivendone all’interno le sue infinite articolazioni acquistano senso, man mano che la vita ne è plasmata.
Uno studio comparato delle religioni è dunque impresa tanto indispensabile quanto impossibile: indispensabile perché solo attraverso il confronto i vari universi diventano consapevoli dei tratti che più li identificano e li caratterizzano; impossibile in quanto quegli stessi tratti assumono, nel vissuto proprio e in quello altrui, una tale varietà di significati da mettere in discussione ogni certezza al riguardo.
In realtà, pur ammettendo che le religioni costituiscano effettivamente la radice più profonda dell’identità dei popoli, è evidente che il confronto si può fare essenzialmente tra filosofie, cioè sistemi di asserzioni coerenti e razionali che possano legittimamente essere considerate come fondanti per una cultura.
Tali sistemi si desumono in taluni casi da testi scritti, in tal’altri devono essere ricostruiti attraverso l’esame delle fonti orali. In ogni caso si tratta di affermazioni sulla struttura della realtà e sulla condizione umana il cui senso può essere, almeno al livello più immediato, comunicato e compreso anche al di fuori del contesto di appartenenza.
Ma qui cominciano i problemi, perché la civiltà occidentale pare aver coltivato per due millenni e mezzo il singolare pregiudizio che la filosofia sia sua pertinenza esclusiva, che il pensiero degli altri popoli sia rimasto confinato in un limbo prerazionale.
In realtà, a ben guardare, tale pregiudizio è più che altro moderno: i Greci antichi si comportarono al riguardo né più né meno di altre civiltà, come ad esempio quella indiana o cinese, vale a dire misero in primo piano se stessi e lasciarono sullo sfondo gli altri popoli con cui sapevano di dover convivere. E’ stata invece l’Europa moderna, assumendo la consapevolezza di un ruolo di predominio mondiale, a compiere l’operazione ideologica di considerare intrinsecamente inferiori le culture che veniva di fatto assoggettando: e all’interno di una simile visione tornava comodo pensare che la filosofia greca fosse già sul nascere il superamento di quell’orizzonte mitico entro cui gli altri restavano senza rimedio relegati.
Naturalmente ciò presuppone una completa deformazione dell’altrui immagine e anche della propria, le cui conseguenze non vengono a sufficienza valutate.
Oltre a precipitare interi continenti di pensiero nel più totale disconoscimento, tale mistificazione ha forse contribuito a fraintendere il senso stesso della filosofia greca. Un senso che in epoca moderna era già del resto non più trasparente a causa di una frattura intervenuta nel cuore della storia occidentale, quando il progetto che era implicito nel pensiero antico fallì e il suo posto venne preso dal Cristianesimo.
Diciamo che il problema si pone, come già si diceva all’inizio, a diversi livelli.
Il primo livello è di ordine storico. Una coscienza mondiale quale oggi è richiesta comporta una ricostruzione del passato e delle sue radici culturali che non sia limitata a una sola civiltà, sia pure quella che è stata più determinante nell’unificazione del pianeta.
E’ ovvio che questo compito richiede un cambiamento nelle categorie interpretative e nei criteri di ordinamento del sapere. Tutto un impianto storicistico in funzione dell’idea di un progredire umano che culmina nella civiltà occidentale deve essere evidentemente abbandonato e lasciare il posto a un diverso paradigma.
Come osserva Giangiorgio Pasqualotto, il percorso dialogico che mette in luce analogie e corrispondenze tra il pensiero di culture diverse, nel quale il soggetto dialogante è a sua volta coinvolto e si ridefinisce all’interno del percorso stesso, ci rinvia a un senso originario della filosofia, la quale in se stessa è forse sempre interculturale.
Ebbene, non sarà che questo diverso orientamento sia gravido di conseguenze di notevole portata? Non è implicito in questa idea di dialogo che le diverse filosofie vadano concepite, non come inerti vestigia allineate lungo il cammino evolutivo dell’umanità, bensì come possibilità in ogni momento compresenti, rispetto a cui l’umanità di volta in volta si ridefinisce?
Il secondo livello riguarda il vissuto esistenziale.
Un tempo gli orizzonti culturali coesistevano l’uno accanto all’altro, mai del tutto separati e senza tuttavia richiedere che l’uomo comune si confrontasse più di tanto col problema della loro pluralità. Oggi invece si è tutti costantemente sollecitati a un’esperienza che mette più a dura prova di quanto comunemente non si ammetta.
La percezione continua della pluralità degli orizzonti comporta il pericolo di una perdita di senso: chi ha dovuto rinunciare a quella fede ingenua nell’unicità del proprio orizzonte può non riuscire a trovare una fede più matura e cadere in un banale relativismo, il cui senso ultimo è una visione nichilistico della realtà.
Ora, se intendiamo la filosofia come generica consapevolezza culturale, la questione può essere indifferente; ma non lo è qualora la si pensi, in un senso più profondo e coinvolgente, come cammino di ricerca della verità le cui conseguenze sono essenziale per l’esistenza. In questo caso essa deve aiutare l’uomo comune ad attraversare l’esperienza della relatività degli orizzonti, per tornare ad attingere in modo più maturo la certezza di un fondamento comune.
Veniamo dunque al terzo livello, quello che nel linguaggio della tradizione occidentale si definisce ontologico.
L’idea corrente, che il presupposto ontologico sia inconciliabile con una visione pluralistica, è in realtà smentita, non solo dalla filosofia di tutti i popoli non occidentali, ma anche da alcune tra le esperienze più profonde che abbiano avuto luogo in occidente: pensiamo ad esempio a Cusano oppure, nel Novecento, a Luigi Pareyson.
Quest’ultimo ha formulato un’ontologia dell’inesauribile, per cui la verità, pur mantenendosi nella sua unicità, si manifesta nell’infinita varietà delle interpretazioni. Ovvero: se solo il pensiero si sottrae all’ambito strumentale e ideologico, cioè si sottrae all’essere espressione di esigenze altre per quanto inconfessate e inconsapevoli, e si dispone a farsi creativa rivelazione della verità, ottiene di manifestarla nella sua interezza pur senza mai precludere altre manifestazioni.
Dal punto di vista buddhista il rifiuto moderno dell’ontologia, e quindi la caduta nel nichilismo, ha la sua radice in una concezione sostanzialistica dell’essere, di cui il nichilismo rappresenta l’inevitabile rovescio. Ovvero le identità sono pensate come separate. Ma fino a che punto tale concezione è originaria nella filosofia greca? Fino a che punto lo è nel Cristianesimo? Non sarà che in entrambi sia almeno implicita un’ontologia della relazione o dell’interdipendenza?
Di fatto una prospettiva di pensiero come quella proposta da Pareyson rimane oscura fino a che le identità siano pensate come separate. In questa ottica non si può neppure intendere come la verità si manifesti in altro da se stessa.
Ma le cose cambiano non appena il presupposto ontologico sia pensato come interdipendenza. Ogni identità non sussiste nella separatezza ma per sua stessa natura rinvia ad altro ed è da altro prodotta e definita.
Un’ontologia dell’interdipendenza potrebbe essere un ottimo fondamento per una filosofia interculturale e anche per la filosofia in genere. Potrebbe venire incontro a quella rinnovata esigenza di filosofia che nella società vediamo emergere: una filosofia non certo solo accademica, a cui si richiede ciò che indubbiamente è inseparabile dal suo senso originario: cioè un insegnamento di vita.
Interdipendenza dunque come legame profondo tra tutti gli esseri e fondamento di ogni etica; come ciò che ciascuno può cogliere nell’immediatezza del sentimento e al tempo stesso deve cercare attraverso attenta investigazione e rigorosa disciplina di vita.
Interdipendenza come verità nascosta delle cose, come ricchezza inesauribile dell’essere, come frutto di una più ampia consapevolezza.
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Dibattito
Data: 20.06.2013
Oggetto: Irenismo
Data: 20.06.2013
Oggetto: DI FRONTE AL MISTERO: “CREDERE” O “TACERE”?
Che cosa c’è in Oriente che noi occidentali non abbiamo?
L’Oriente folgora ancora, come folgora da millenni: ha catturato filosofi, scrittori, ha attirato – in un passato recentissimo – migliaia e migliaia di giovani hippies sulla scia di figure carismatiche.
Ma vale proprio la pena farsi abbagliare? Che cosa c’è di significativo nelle religioni orientali che non ci sia nel nostro “angusto” mondo occidentale? Il monismo? Il panteismo? Il Divino inteso come apertura al Mistero? Il misticismo? Non c’è bisogno di intraprendere viaggi più o meno virtuali o più o meno di moda, in Oriente: li troviamo tutti a casa nostra. E i valori? Se andiamo oltre le metafore (più o meno guerresche), non troviamo gli stessi valori che rinveniamo nelle tradizioni della filosofia occidentale e del Cristianesimo? Non sono nostri il primato della ragione sugli impulsi, la lotta dello “spirito” contro la “carne”, la sacralità della vita, la dignità di ogni singolo uomo, la solidarietà, l’amore…?
Superare la distinzione tra “fede” e “ragione”, tra “religione” e “filosofia”? No, grazie!
Che cosa andiamo a cercare, allora, in Oriente? Il superamento dell’autonomia della “ragione” rispetto alla “fede”, della “filosofia” rispetto alla “religione”? Perché mai? Non ci è bastato quanto di funesto ha provocato il “nostro fondamentalismo”? Si vuole superare la “relatività” del nostro “punto di vista” occidentale in un mondo in cui ci si rende sempre più conto che non esiste “la civiltà”, ma una pluralità di modi di pensare e di valori? Un’aspirazione - espressa molto bene dal prof. Torrero - legittima, ma… sono davvero compatibili il Cristianesimo e il Buddismo, il Cristianesimo e l’Induismo? Si possono davvero coniugare il Dio “personale” da un lato e il Dio-Tutto dall’altro1? La “sincresi” la si vuole trovare sul piano dei valori2? Qui torno al quesito di prima: esiste almeno un solo valore che sia “aggiuntivo” ai nostri? Dobbiamo arrivare a un confronto tra “filosofie” rinunciando - come suggerisce il prof. Torrero - al nostro “impianto storicistico” secondo cui il progredire umano “culmina nella civiltà occidentale”? Ma… ci sono davvero “filosofie” orientali confrontabili con ciò che noi chiamiamo “filosofia” nel mondo occidentale? Dobbiamo cercare, oltre l’approccio storico, oltre l’approccio esistenziale, il terzo livello “ontologico”, vale a dire quella “verità nascosta” che è comune a tutte le culture e che è “fondamento di ogni etica”? Facciamolo, ma dubito che siamo in grado (ha ragione Patrizia) e dubito che quel patrimonio etico che ci accomuna sia di più di quello che noi abbiamo consacrato nelle varie Carte sui diritti dell’uomo.
Si dirà che solo l’Oriente, col suo afflato “spirituale”, può essere in grado di guarire il “materialismo edonistico” dell’Occidente. Ma… non c’è abbastanza “spirito” nella nostra tradizione e siamo proprio sicuri che nell’Oriente ci sia più spiritualità che da noi? Si dirà che è solo la concezione spirituale dell’Oriente in grado di salvarci dal “materialismo scientifico”. Ma perché la scienza dovrebbe perdere l’autonomia che ha faticosamente guadagnato? La scienza, è vero, ha un ambito di azione molto ristretto, ma almeno è fecondo di risultati sperimentali. Si tratta di risultati limitati, provvisori? È questo, forse, un limite?
Religioni (occidentali e orientali) e filosofie: costruzioni umane per dare un nome all’“Enigma”.
È un limite il fatto che la scienza non sia capace di rispondere alle “domande di senso”? Dovremmo tuffarci nell’“irrazionalità” perché il “razionale” non ha gli strumenti per dipanare l’Enigma in cui siamo immersi3? Perché mai? La scienza non ci chiude affatto, anzi ci “apre al Mistero”: non è essa che ci rende socraticamente consapevoli di non sapere o, comunque, del poco che sappiamo? Si dirà che l’uomo avverte il bisogno di dare un nome al Mistero, di riempirlo di contenuti. Già, le religioni sono nate proprio per questo: per dare un volto all’Enigma. Da qui la creazione degli “dèi”: di un “Dio-Persona” che possiamo pregare e che ci può aiutare, di un “Dio-Tutto” di cui siamo delle parti, di un al di là… Tutte “nostre costruzioni” per riempire il “Grande Buco” che la scienza, nonostante gli straordinari progressi compiuti, scopre sempre più grande. Tutte “credenze” - diventate pesanti tradizioni (sia in Occidente che in Oriente) - per sopportare meglio il nostro fardello quotidiano.
“Miti” utili, ma non necessari
Credenze “utili” a detta dello stesso “blasfemo” Voltaire. Utili al popolo ignorante, direbbe lui. Utili anche all’uomo dotto, direi io. Utili, ma non necessarie. Si può benissimo vivere senza “credere” né nei miti religiosi occidentali né a quelli orientali e affidarsi alle argomentazioni razionali della filosofia. Anche la filosofia, è vero, è una costruzione umana che serve a tappare il “Buco”, ma la filosofia (una delle tante) cerca di “convincere” col ragionamento (per quanto possa valere un ragionamento del tutto “storico”). Si può vivere sulla base delle conquiste della scienza che, pur parziali e provvisorie che siano, possono convincere incommensurabilmente di più delle mitologie religiose e dei più o meno sofisticati ragionamenti filosofici.
Ma la scienza tace sul Mistero. Già: ma quale “mortale” ha parole da dire su di esso? Di fronte all’“Assolutamente Altro” (quand’anche ci fosse: il che non è per nulla escluso in linea teorica) non c’è che il “Silenzio”.
Il patrimonio comune è già noto: i “diritti umani”.
Parole in libertà, del tutto “soggettive”. Parole… “occidentali”, scritte in una contingente fase di ricerca di un individuo. Parole che esprimono un “credo”. Già: io “credo” che le religioni (tutte le religioni, anche quella religione - qual è il Cristianesimo - che è nata in Oriente, ma che poi si è occidentalizzata) siano delle magnifiche costruzioni“umane”, dei prodotti “storici”. Non “credo” a “verità nascoste” comuni, ma a un patrimonio di credenze comuni (in valori). Ciò che mi preoccupa è che la globalizzazione crescente in corso nei Paesi orientali arrivi a sradicare quei valori (che sono comuni ai nostri) e a imporre un unico valore, quello del dio-dollaro. È questa l’“interdipendenza” che sta vincendo, non quella culturale. Vogliamo contrapporre a questa interdipendenza una “filosofia interculturale” (per usare l’espressione del prof. Torrero)? Non c’è bisogno - a mio modesto avviso - di esplorare i meandri e la stessa “Babele” delle varie mitologie4 o cosiddette “filosofie”. Il patrimonio comune è già noto: i “diritti umani”. È solo facendo leva su questi che potremmo in qualche misura controllare la globalizzazione selvaggia in corso rendendola la più “umana” possibile e mettere in crisi i regimi totalitari.
Crema, 15 aprile 2008
Piero Carelli
1 La domanda-obiezione del prof. Giorgio Carniti nell’ultimo appuntamento del “Caffè” è illuminante.
2 Il sincretismo funziona all’interno dei valori occidentali: non sono coniugabili (e non sono stati, di fatto, coniugati) il liberalismo che esalta l’individuo e il socialismo che esalta, invece, l’istanza della giustizia sociale?
3 Condivido pienamente la posizione di Patrizia De Capua.
4 Una Babele presente non solo nelle storiche “interpretazioni” del Cristianesimo, ma anche nella stessa ortodossia cattolica: basterebbe leggere L’anima e il suo destino di Vito Mancuso per accorgersene.
Data: 20.06.2013
Oggetto: Né uno, né nessuno, né centomila
Quando Horkheimer scriveva L’eclisse della ragione s’era da poco conclusa la seconda guerra mondiale, in cui la ragione soggettiva - “capacità di calcolare le probabilità e di coordinare i mezzi adatti con un dato fine”- aveva dato ben tristi prove di sé. Lo sterminio degli ebrei, la stessa soluzione finale apparivano il frutto perverso della ragione soggettiva, la ratio come calcolo, per l’appunto, l’efficienza eretta a valore e fine a se stessa.
D’altro lato la ragione oggettiva indicherebbe una struttura oggettiva della realtà, una struttura che si manifesta a chi si sobbarca la fatica di “pensare dialetticamente o che (ed è lo stesso) è capace di eros”. Questo secondo tipo di ragione avrebbe a che fare con i fini piuttosto che con i mezzi, e esprimerebbe lo sforzo di riflettere una verità oggettiva. Su questo terreno, la religione e la filosofia affrontarono una storica guerra nella convinzione di avere, ciascuna, la capacità di conoscere questa verità.
La critica che Horkheimer rivolge alla ragione soggettiva viene oggi ripresa dal prof. Torrero come denuncia dell’insufficienza del singolo e affermazione dell’interdipendenza di uomini, idee, discipline (politica, scienza, religione, economia…) che si occupano dei vari ambiti in cui gli esseri umani applicano i propri sforzi conoscitivi. In assenza di questa interdipendenza, la fondamentale domanda di senso che ogni uomo si pone (io chi sono?) verrebbe meno, e con essa ogni ricerca autenticamente filosofica. Viceversa, quella domanda di senso riproporrebbe il valore delle religioni e in particolare di quella religione coincidente con una raffinatissima attività intellettuale, che è il buddismo.
Nutro un profondo rispetto per religioni come il buddismo o l’induismo: non è vero che da sempre vengono ignorate nei programmi scolastici. Parlo dell’insegnamento della filosofia perché riconosco nel prof. Torrero quella stessa passione che Platone attribuisce al maestro Socrate (“filosofia, musica per le mie orecchie!”) e che condivido con convinzione. Molti anni orsono partecipai a una lezione in cui si metteva in guardia da un eventuale pregiudizio etnocentrico: non dimentichiamo, diceva il professore, che in settori geoculturali lontani dal bacino Mediterraneo secoli o addirittura millenni prima dell’era volgare fiorirono importanti civiltà che produssero religioni, cosmologie, concezioni del mondo molto ricche tra l’altro di interesse etico e di ammaestramento per la vita. I greci svilupparono un materiale in buona parte ereditato dai popoli orientali, anche se poi lo riorganizzarono con tale rigore, coerenza e sistematicità che non è affatto azzardato considerarli i veri e propri iniziatori del pensiero filosofico-scientifico. Trascrivo dai miei appunti di prima liceo, prima ora di lezione con il prof. Franco Fergnani.
Nell’intervento del prof. Torrero al Caffè filosofico del 7 aprile si avvertono profondità, autenticità, serietà nella scelta di un percorso di fede di grande impegno sia teoretico che morale. Un impegno raro, in un mondo come il nostro, in cui a volte le conversioni religiose diventano occasione di esibizione spettacolare, ostentazione di mode, pose, travestimenti all’insegna del gusto dell’esotico, o persino ipocriti e opportunistici camaleontismi.
Detto questo, ritorno su un concetto a me caro: la difficoltà di esprimere la nostra visione del mondo nei termini di una civiltà tanto lontana e diversa. Sarà mai possibile che ci impadroniamo completamente delle nostre radici culturali occidentali? Ci basterà una vita per comprenderne una sola scheggia di verità filosofica? E quante vite ci serviranno per saperci orientare in una cultura altra che ha alle spalle una storia che non conosciamo, che esprime concetti e parla un linguaggio che involontariamente rischiamo di travisare e quasi inevitabilmente fraintendere?
Forse non è un caso che nel suo intervento il prof. Torrero si sia trovato a fare ricorso più di una volta ad espressioni del tipo “…detto in termini cristiani…”. Già, perché le parole ci mancano e senza parole le idee impallidiscono, si squagliano come ghiaccio sul calorifero. Per esprimere concetti occidentali, invece, le parole non ci mancano, e neppure per dialogare con il cristianesimo, foss’anche per negarne ogni contenuto di verità.
Può darsi che quella che propongo sia una filosofia troppo legata alla tradizione (senza maiuscole) di un mondo non ancora globalizzato. Domani tutti gli uomini parleranno lo stesso linguaggio e si comprenderanno perfettamente e profondamente. Oggi non ancora. Le differenze di civiltà e culture costituiscono certo una ricchezza, ma creano difficoltà nella comunicazione. Gadamer, alla soglia dei cento anni, invitava tutti a studiare le lingue straniere, unico modo per capirsi e interpretarsi vicendevolmente. Ma nel frattempo?
Posso ad esempio capire che cosa significa l’eccesso narcisistico nell’affermazione del sé, posso lamentare l’egoismo dell’individuo proteso nell’autorealizzazione economica, posso denunciare l’abbrutimento della solitudine di giovani che trascorrono più ore al computer che con i coetanei, così come posso studiare la crisi di identità dell’uomo del Novecento nella letteratura, nell’arte e nella filosofia. Posso insomma analizzare, giudicare e magari compiangere quell’essere che è uno, nessuno, centomila. Non so, invece, non ho gli strumenti per comprendere una cultura in cui la soggettività rappresenta una sorta di colpa, di fardello dal quale dobbiamo liberarci per non accumulare karma (avrò inteso bene?). Non capisco, in altri termini, che cosa significa non essere né uno, né nessuno, né centomila. Il concetto cristiano di persona mi è molto più familiare, e nel volto di ogni uomo di ogni colore ne ritrovo le tracce, sia che io creda sia che io non creda nella religione cristiana. Qui la fede e le convinzioni personali sono del tutto indifferenti. Il nostro non poter non essere cristiani, dal mio punto di vista, fa tutt’uno con il nostro non poter non essere di cultura in senso lato occidentale. Allo stesso modo, posso non sapere nulla di ciò che la scienza definisce io, la stessa genetica non sa dare una chiara definizione dell’identità personale: si veda l’intervento del prof. Boncinelli alla prima edizione di “Crema del pensiero” (“Non avrai altro io all’infuori di me”). Eppure, come direbbe Hume, non appena chiuso il libro, torno a credere di essere io, di avere un’identità, di essere un soggetto. E il bello è che non me ne vergogno affatto. Certo, anche Pitagora parla di metempsicosi, e in Platone ci sono tracce di saperi remoti, di chissà quale provenienza, tali da avergli guadagnato l’attributo di divino. Ma questi frammenti di antichissime culture orientaleggianti non modificano l’essenziale occidentalità della filosofia a me accessibile.
Altrimenti che resta? La terza via verso Dio di cui parla Vattimo in un recente articolo (La Stampa, 7 aprile 2008): al di là del “mito” biblico e della razionalità spinoziana con il suo rigore matematico, non c’è che “l’inaccessibilità di Dio al pensiero logico e razionale”, la via della mistica, sulle tracce dei grandi mistici cristiani come Meister Eckhart e San Giovanni della Croce. Un’esperienza religiosa, al dire di Vattimo “tutta puramente razionale e proprio per questo rigorosamente mistica”. E anche in questo caso, si affaccia inquietante la domanda posta al relatore dal prof. Giorgio Carniti: ma allora chi pregheremo? L’assoluto mistero, secondo il prof. Torrero, l’Uno-Tutto che è Dio stesso, secondo il misticismo vattimiano.
Grazie, per ora rimango illuminista.