IL GRIDO DEI SOFFERENTI. LUOGO TEOLOGICO, ANTROPOLOGICO ED ESCATOLOGICO DI RIVELAZIONE. UNA RILETTURA DI J.B. METZ - RELATORE: ALESSANDRO BENZI

12.09.2016 21:00

Il progresso della medicina e il crescente utilizzo delle biotecnologie influiscono sul modo di comprendere la salute e il dolore, creando nell’immaginario collettivo la percezione che sarà possibile oltrepassare le conseguenze negative della malattia garantendo uno stato di benessere stabile all’essere umano. In questo contesto viene alimentata una visione del mondo nel quale l’uomo è padrone della vita, dove gli aspetti faticosi vengono anestetizzati eludendo il dramma della vulnerabilità e della sofferenza; quest’ultima giunge ad espressione in diversi modi: uno dei più tangibili e riconoscibili è il grido.

La riflessione propone di considerare l’esperienza del grido – quello che è originato da situazioni di sofferenza – come momento nel quale l’uomo può trovare una dimensione essenziale del proprio essere, diventando luogo privilegiato di rivelazione antropologica, teologica ed escatologica. Per questa riflessione si farà riferimento in particolare alla raccolta di saggi Memoria Passionis di J.B. Metz, teologo che all’analisi dell’esperienza dei sofferenti ha dedicato molta parte della sua ricerca teologica.

 

Alessandro Benzi (1971), laureato in Scienze Religiose presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Crema – Cremona – Lodi collegato con la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, lavora presso una locale banca di credito cooperativo. Impegnato attivamente nelle attività pastorali della Diocesi di Crema, membro della Commissione Diocesana per la Catechesi, collabora alla stesura del Nuovo Itinerario di Iniziazione Cristiana. Sposato e padre, è candidato al Diaconato Permanente per la Diocesi di Crema.

Dibattito

Data: 16.09.2016

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: La fine della teodicea

Che malattia e sofferenza fossero d’origine divina era già convinzione dei Greci, i quali non a caso definivano l’epilessia “morbo sacro”. Divenuta “diabolica” nel Medioevo, l’epilessia è simbolo di quell’attribuzione al sovrannaturale dell’eziologia di numerose malattie che da tempi immemorabili vengono ascritte a una qualche colpa inconfessata e inconfessabile, come gli “amici” di Giobbe si ostinano a rinfacciare al poveraccio. “Ricordalo: quale innocente è mai perito e quando mai furon distrutti gli uomini retti?”, “Dio non rigetta l’uomo integro, e non sostiene la mano dei malfattori”, e ancora: “Se allontanerai l’iniquità che è nella tua mano e non farai abitare l’ingiustizia nelle tue tende, allora potrai alzare la faccia senza macchia”. Con queste parole Elifaz, Bildad e Zofar “consolano” il presunto innocente Giobbe, insinuando dubbi sul carattere integerrimo della vita da lui condotta prima che il suo corpo si trasformasse in “un’unica piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo”. Ma Giobbe non si arrende e parte all’attacco, difendendo il suo Dio e ribattendo agli amici: “Siete raffazzonatori di menzogne, siete tutti medici da nulla”.
Il grido di Giobbe è limpido esempio di quella relazione che si instaura fra l’uomo e Dio, di cui Alessandro Benzi ha parlato nell’incontro del 12 settembre al Caffè filosofico. Nel caso di Giobbe, però, al grido non fa seguito un silenzio. “Quante volte gridiamo al nostro Dio ritenuto buono e giusto per chiedergli conto della sofferenza presente e otteniamo come risposta il silenzio”, nota Benzi. Ma ciò non è motivo, per la coscienza del credente, né di sfiducia né di sconfessione. Al contrario: chi ha fede ne trae ulteriore incentivo alla preghiera e all’invocazione, vissute come uno scambio vicendevole, là dove chi non crede scorge soltanto la disperazione di un vano monologo. Fortunato Giobbe, a cui Dio risponde, e sia pure per rinfacciargli la sua infinita insignificanza e finitudine, a fronte dell’immensità del Creatore dell’universo.
Purtroppo dire che il grido chiama in causa un interlocutore, anche se Lui, l’interlocutore supremo, resta muto, non può valere come consolazione se non, per l’appunto, per la coscienza del credente.
Oggi pare che l’ortodossia cattolica stia abbandonando l’idea che Dio possa essere in qualche modo chiamato in causa come responsabile del dolore umano. Non si tratta più, dunque, di spiegare che il male può nascere dalla giustizia punitiva divina, né di giustificare Dio per il fatto che, pur essendo onnipotente e infinitamente buono, abbia creato un mondo in cui è presente tanto dolore. Nel primo caso troviamo la variante teologica, nel secondo quella più propriamente filosofica della teodicea. Né l’una né l’altra variante della domanda hanno trovato una risposta capace di placare l’ansia dell’uomo che interroga e si interroga. Neppure S. Agostino, opportunamente citato da Gabriele Ornaghi, risulta convincente, quando si affanna a dire che il male non è nulla, è non-essere, è mancanza di essere, poiché tutto ciò che è, in quanto creato da Dio, è bene. Filosoficamente parlando, che c’è di diverso fra questa tesi e il “tutto ciò che è reale è razionale, e viceversa” di hegeliana memoria? Peggio ancora, poi, quando il vescovo di Ippona si addentra nella giustificazione del male morale (peccato) e di quello fisico (dolore): del primo bisognerebbe piuttosto ringraziare l’Onnipotente poiché, concedendo all’uomo il libero arbitrio, gli ha offerto con ciò stesso la possibilità di ribellarsi a Lui e peccare, salvo poi subirne le conseguenze. Per il male fisico non c’è altro da dire che questa è appunto la conseguenza. E se a soffrire è un innocente, è perché, dopo il peccato originale, nessuno è più innocente. Al che il monaco Pelagio obietta che ciascuno dovrebbe essere considerato responsabile esclusivamente del male che commette, e Agostino ribatte che in Adamo e con Adamo ha peccato l’umanità intera, trasformandosi in “massa dannata”. Insomma, le colpe dei padri ricadono sui figli. Storia antichissima e multiforme, già sentita in differenti civiltà. Quanto poi al fatto che Dio conosca la scelta di Adamo prima del peccato originale, Agostino si avventura in sottili disquisizioni, distinguendo fra prescienza e predeterminazione: Dio sa, ma non costringe nessuno, come chi vede una nave allontanarsi all’orizzonte sa già che presto scomparirà, ma non è la causa del suo scomparire. Sottigliezze sofisticate o sofisticherie tout court?
Bene ha fatto chi, nella serata del 12 settembre, ha ricordato che, se pure recentemente la Chiesa ha insistito sulla misericordia piuttosto che sull’aspetto della giustizia infinita di Dio, non possiamo prescindere dal racconto della Genesi, dove Dio scaccia Adamo ed Eva dall’Eden: lei partorirà con dolore, lui guadagnerà il pane con sudore, entrambi sono polvere e polvere ritorneranno. Il fatto che questo sia “solo un racconto”, cioè un mito, una leggenda, un modo figurato di esprimersi, non può cancellare la sostanza del racconto stesso, che si traduce in una catena di dogmi e sacramenti, a partire dal fatto che l’uomo nasca con la macchia del peccato originale, che solo il battesimo può lavare; ma prima ancora il Padre deve mandare sulla terra il Figlio, il cui sacrificio soltanto, rinnovato in ogni momento nell’eucarestia, può riconciliare Dio con gli uomini.
Dio non è più responsabile del dolore umano. Ma incolpevole è anche la Natura, nella nuova teodicea, a riprova della quale si cita Papa Francesco (“il terremoto non uccide, uccidono piuttosto le opere dell’uomo”). La Natura carnefice, la provvidenza nera del marchese de Sade, che decreta “les malheurs de la vertu” e “les prospérités du vice”, la Natura matrigna o indifferente della poetica leopardiana, la Natura sterminatrice di cui si lagna una lunga schiera di filosofi e poeti pessimisti cosmici, non è più nemica, non è più neppure sordamente ignara della felicità o infelicità degli uomini: è la casa un tempo accogliente di cui gli uomini hanno fatto scempio. La colpa è solo degli uomini.
Oppure…la colpa è della società.
1762: “Tutto è bene ciò che esce dalle mani del creatore, tutto degenera nelle mani dell’uomo”. Così Rousseau esordisce nel suo romanzo pedagogico Emilio. Passaggio fondamentale per la teodicea, poiché se, come sostiene Rousseau, l’uomo nasce buono e la società lo corrompe, “Dio è assolto e la colpa di ogni male è attribuita all’uomo”. Rousseau, tre secoli fa, ha creato “un nuovo soggetto dell’imputabilità. Questo soggetto non è il singolo individuo, ma la società umana” (Cassirer, La filosofia dell’illuminismo). D’ora in poi la questione decisiva dinanzi al male diventa politica. Prosegue Cassirer: “invano si aspetterebbe questa redenzione dal di fuori. Nessun Dio ce la può recare, ma l’uomo stesso deve diventare il proprio salvatore e, in senso etico, il proprio creatore. La società, nella forma che ebbe finora, ha inferto all’umanità le più profonde ferite, ma essa stessa può e deve guarire queste ferite modificandosi e assumendo una forma nuova”. È la sfida che Jean Jacques lancia all’ancien régime: bisogna cambiare tutto, ma non perché tutto resti come prima, proprio perché nulla funziona più. Bisogna procedere su tre fronti: il fronte dell’educazione dell’individuo (Emilio), quello delle relazioni familiari (La Nuova Eloisa) e quello della società (Contratto sociale). Altro che deresponsabilizzarsi, scaricando colpe su entità trascendenti o immanenti: compiti gravosi ci attendono.
Sia detto fra parentesi, se alla Natura di illuministi atei o deisti togliamo la N maiuscola, ossia se non la ipostatizziamo, e ci limitiamo a considerare il dolore come “naturale”, abbiamo l’unica spiegazione sensata del male. Ossia non c’è alcun senso recondito del dolore. L’uomo nasce, vive, gioisce, soffre, muore. Proprio come qualsiasi altro animale.
E se il grido di un bambino non trova un padre amorevole che lo soccorre, ma cade sistematicamente nel vuoto dell’indifferenza, il piccolo abbandonato, poco a poco, non grida più: il silenzio è l’accusa più lacerante.

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