IL LINGUAGGIO - RELATORI: TIZIANO GUERINI, MARCO ERMENTINI

09.12.2003 21:00

 

SECONDO ARGOMENTO PER IL CAFFE' FILOSOFICO

martedì, 09.12.2003

LE DOMANDE DELLA FILOSOFIA

Secondo argomento:

“Il linguaggio"

 

Dibattito

Data: 01.07.2013

Autore: Marco Ermentini

Oggetto: La lingua in salmì o la ritirata della parola

Il pensare deve ascoltare il linguaggio. Il nostro linguaggio ci ha messo a disposizione una memorizzazione del pensiero accumulata attraverso secoli e millenni. Nella storia delle parole è scritta la reale storia della nostra umanità. Bisogna ascoltare le parole. La lingua offre una specie di compendio in cui si trova abbozzata la soluzione dei problemi della vita.

Tuttavia, caro lettore, noi ci accorgiamo che c’è qualcosa che non va, che qualche cosa si è rotto, forse l’ “animale linguistico” che siamo stati sin dai tempi dell’antica Grecia, sta subendo una mutazione come la pecora Dolly. Mi sembra che i recenti sviluppi

della tecnica, poiché essa coinvolge necessariamente la metafisica, stiano provocando una svolta. E che svolta!

Già Shakespeare nel “Timone di Atene” ordina “language end”, che finisca il linguaggio.

Da qui inizia la sfiducia elementare nelle parole. Così in “ Lettera a Lord Chandos” di Hoftmannsthal:” le parole nuotavano intorno a me, si trasformavano in occhi che mi fissavano e che dovevo fissare a mia volta “. Così Karl Kraus e la sua critica del linguaggio e dei media che riducono a merce tutta l’arte e tutto il pensiero. Così il primo Wittgenstein per il quale “ ciò su cui dobbiamo tacere “ comprende in realtà tutto ciò che conta di più.

Da tempo si notano movimenti verso un agnosticismo del silenzio. Questo silenzio, per dirla con Andrea Bortolon, reintegrerebbe l’uomo alla natura, essa stessa silenziosa. Nella nostra vita rumorosa la calma e l’isolamento diventano privilegi dei ricchi o dei condannati. Come una cicala impazzita il nostro cellulare divora ciò che resta del silenzio. Così il silenzio è divenuto raro, anzi sospetto e pericoloso.

Gia nell’800 le invenzioni tecniche come la fotografia e le possibilità illimitate di produrre immagini, avevano cominciato a rosicchiare la cittadella del discorso. Oggi la parola diviene sempre più didascalia dell’immagine. C’è il rischio che il linguaggio, nella nostra postmodernità liquida, non sia più in grado di riflettere né di esprimere l’esperienza umana. La sua corruzione è avvenuta anche da parte della menzogna politica e della volgarità del consumo di massa. Infine l’animale linguistico è stato annichilito nell’antilinguaggio della morte e della distruzione nei lager.

A questo punto mi chiedo e ti chiedo:

forse siamo di fronte ad un divorzio fra umanità e linguaggio ? fra ragione e sintassi, fra dialogo e speranza? Forse il nostro altalenare fra i due termini non si placa neanche con il gioco che ci suggerisce Andrea Bortolon ?

Forse il tempo del dopo-parola è già iniziato e noi non ce ne siamo accorti ?

Marco Ermentini



N.B. un grazie a Andrea Bortolon per i preziosi suggerimenti.
Cfr. A.Bortolon, Lezioni di filosofia morale, Skira 2003. Prossimamente al caffè filosofico( 12/1/2004)

Data: 01.07.2013

Autore: Luca Pari

Oggetto: Linguaggio: suono, significato o essere?

Vengono di seguito proposte alcune riflessioni, tratte da Autori diversi, riguardanti il linguaggio.
Nelle intenzioni di chi propone non vi è lo scopo di esporre sistematicamente l’argomento né di formulare un pronunciarsi su di esso (anche se questo già avviene nel solo tracciare un’organizzazione del tema), ma quello di suscitare, attraverso un rilevamento storico–teoretico, la problematizzazione dell’argomento stesso, al fine di avviare un confronto nella sede convenuta.
Organizzazione delle riflessioni:

definizione

linguaggio e origine

linguaggio e lingua

linguaggio come suono

linguaggio come significato

linguaggio come essere

Definizione

«Insieme di codici che permettono di trasmettere, conservare ed elaborare informazioni tramite segni intersoggettivi in grado di significare altro da sé. Esso, pur essendo dislocato rispetto all’immediatezza del segno, da questo è richiamato mediante l’atto del denotare e del connotare. La comunicazione, come scambio di informazioni tramite l’uso dei segni, è prerogativa comune tanto degli uomini che degli animali. Ma mentre il linguaggio animale è connaturato, non si evolve e si riferisce solo ad eventi immediati e concreti, il linguaggio umano è in massima parte appreso, si evolve nel corso della vita dell’individuo e della specie e può riferirsi a oggetti astratti mediante l’impiego di simboli […] e di concetti» .

«In generale, l’uso dei segni intersoggettivi. Per intersoggettivi si intendono i segni che rendono possibile la comunicazione. Per uso si intende:1° la possibilità di scelta (istituzione, mutazione, correzione) dei segni; 2° la possibilità di combinazione di tali segni in modi limitati e ripetibili» .

Linguaggio e origine

«Dio, avendo inteso che l’uomo fosse una creatura socievole, lo ha fatto, non soltanto con l’inclinazione, e dominato da una necessità, di accompagnarsi agli altri esseri della specie sua, ma lo ha anche fornito del linguaggio, destinato ad essere il grande strumento e il comune legame della società» .

«Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale pratica, che esiste anche per gli altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini» .

Linguaggio e Lingua

«La lingua è un prodotto sociale della facoltà del linguaggio e nello stesso tempo un insieme di convenzioni necessarie adottate dal corpo sociale per permettere l’esercizio di questa facoltà presso gli individui. Preso nel suo insieme, il linguaggio è multiforme ed eteroclicto; a cavallo di domini diversi — quello fisico, quello fisiologico e quello psichico — esso appartiene anche al dominio individuale e al dominio sociale; non si lascia classificare in alcuna categoria di fatti umani perché non si sa come determinare l’unità» .

Linguaggio come suono

«Perciò, lo scopo delle parole [«suoni articolati» mediante «organi» di cui è fornito l’uomo «dalla natura» ] è di essere segni sensibili delle idee; e le idee per le quali esse stanno sono il loro significato proprio ed immediato» .

«Ma la più nobile e giovevole invenzione fra tutte le altre fu quella della PAROLA, consistente in nomi o appellativi e nella loro connessione, con cui gli uomini registrano i loro pensieri, li richiamano quando sono passati e se li dichiarano pure l’un l’altro per mutua utilità e per conversazione; senza di essa non ci sarebbero stati tra gli uomini né stato, né società, né contratto, né pace, non più che tra leoni, orsi, lupi» .

Linguaggio come significato

«Il segno non ha una funzione simbolica di rappresentazione della realtà. L’analisi logica prende in considerazione i segni e le loro combinazioni prescindendo dal problema del loro riferimento»

«Non vi è un problema della “giustificazione”, vi sono problemi delle conseguenze sintattiche a cui conduce l’una o l’altra scelta, e tra questi anche il problema dell’assenza di contraddizione»

«L’analisi del significato delle espressioni si manifesta in due forme fondamentalmente diverse. La prima appartiene alla pragmatica, ossia all’indagine empirica delle lingue naturali storicamente date. Questo tipo di analisi è stato condotto per molto tempo dai linguisti e dai filosofi, specialmente dai filosofi analitici. La seconda forma è stata sviluppata solo recentemente nel campo della logica simbolica; essa appartiene alla semantica (qui intesa nel senso di semantica pura, mentre la semantica descrittiva può essere considerata parte della pragmatica), ossia allo studio di sistemi linguistici costruiti, sistemi dati in base alle loro regole» ,

Linguaggio come essere

«La decadenza del linguaggio, di cui da qualche tempo si parla molto, anche se tardivamente, non è però il fondamento, ma già una conseguenza di quel processo per cui il linguaggio, sotto il dominio della moderna metafisica della soggettività, cade in modo quasi inarrestabile fuori dal suo elemento. Il linguaggio ci rifiuta ancora la sua essenza, che consiste nell’essere la casa della verità dell’essere. Il linguaggio si concede piuttosto al nostro semplice volere e alla nostra attività come uno strumento del dominio sull’ente. Quest’ultimo, a sua volta, appare come il reale nel complesso delle cause e degli effetti. L’ente come reale lo incontriamo non solo agendo-calcolando, ma anche scientificamente e filosoficamente con le spiegazioni e le fondazioni» .

«Ai vegetali e agli animali manca il linguaggio perché essi sono ognora imbrigliati nel proprio ambiente, senza mai essere liberamente posti nella radura dell’essere che, sola, è «mondo». Ma essi non sono legati al loro ambiente, privi di mondo, perché è negato loro il linguaggio. In questa parola «ambiente» urge tutta l’enigmaticità dell’essere vivente. Nella sua essenza, il linguaggio non è l’espressione di un organismo, così come non è l’espressione di un essere vivente. Perciò esso non può mai essere pensato in modo adeguato alla sua essenza nemmeno in base al suo carattere di segno e forse neppure in base al suo carattere di significato. Il linguaggio è avvento (Ankunft) diradante-velante dell’essere stesso» .

«Ma l’uomo non è solo un essere vivente che, accanto ad altre facoltà, possiede anche il linguaggio. Piuttosto il linguaggio è la casa dell’essere, abitando la quale l’uomo e-siste, appartenendo alla verità dell’essere e custodendola».

Data: 01.07.2013

Autore: Tiziano Guerini

Oggetto: LINGUAGGIO ED ESSERE

1) La filosofia consiste nella presunzione di dire ciò che si riferisce a tutte le cose; oppure a tutte le cose “di uno stesso genere” (trascendentalità) nel loro riferirsi alla totalità. Tutto il resto è fede o scienza – quindi essenzialità esistenziale - ma non filosofia.

2) E fin dall’inizio la filosofia ha individuato nel “divenire” appunto ciò che tutte le cose hanno in comune. Il divenire è l’indubitabile evidenza: non così evidente è però – diciamolo subito - la definizione che fin dall’inizio ne ha dato la filosofia greca:” tutte le cose nascono dal nulla e sono destinate al nulla! Prima di essere non sono, e dopo non sono più.”

3) Già qui il linguaggio ha mostrato la propria funzione pratica: quella di chiamare le cose secondo il segno della flessibilità o secondo il segno dell’inflessibile: le cose, cioè, dominabili dall’uomo, oppure le altre cose che a tale dominio (provvisoriamente) si oppongono.

4) Ma tutta la storia della filosofia può essere vista come un percorso che da ultimo approda al linguaggio:

a) la prima fase – che potremmo chiamare realistica – presenta l’oggetto (diveniente) come un termine esterno al pensiero (alienazione del soggetto nell’oggetto). La contraddittorietà consiste nel “pensare” qualcosa che pur si intende come esterno al pensiero!! A questa fase corrisponde l’affermazione di una realtà immutabile al di fuori della realtà diveniente: il relativo non è contraddittorio perché esiste un assoluto che lo giustifica.

b) La seconda fase o fase idealistica: la sede del divenire non è nelle cose (l’oggettività) ma è nel Pensiero (Soggetto creatore): il divenire presupposto al pensiero è contraddittorio e quindi inesistente, il divenire sta invece dentro la Soggettività creatrice della realtà. Tutto ciò che esiste, esiste necessariamente nel Pensiero che nella sua Attualità vive il divenire. Si costituisce così un nuovo Immutabile all’interno del divenire: ma daccapo – e contraddittoriamente - si sottrae al divenire del pensiero, il pensiero del divenire.

c) Si perviene così alla terza fase, quella appunto del linguaggio che si costituisce in opposizione alla filosofia della coscienza (anti-idealismo): il linguaggio viene considerato come la (vera e definitiva ?) sede autentica del divenire: questo libera il senso greco del divenire ( nichilismo) da ciò che lo rende impossibile sia realisticamente che idealisticamente. Il linguaggio è propriamente la traduzione del pensiero che non vuole costituirsi in un immutabile (né all’esterno, né ) all’interno del divenire: la sede del divenire col linguaggio trova la propria espressione più fluida e labile, cioè precaria (il linguaggio non si costituisce in una teoria) e in questo modo trova la propria massima adeguazione (individualmente soggettiva) al divenire.

Il linguaggio diventa ipotesi, moda, fede, scienza…Il linguaggio così, non esprime la comprensione del senso dell’essere – cioè la comprensione veritativa della realtà –in cui pur si muove ( dal momento che anche il linguaggio appartiene all’essere).

MA… CHE NE SAREBBE DI TUTTO CIO’ SE SI OSASSE METTERE IN DISCUSSIONE LA DEFINIZIONE MAI INTACCATA DEL DIVENIRE COME PASSAGGIO DAL NULLA ALL’ESSERE E DALL’ESSERE AL NULLA ?

Se il “divenire” cominciasse ad essere inteso al di fuori dell’interpretazione nihilistica, come “apparire e scomparire” delle cose, non come il loro nascere e il loro morire!

Allora il linguaggio diventerebbe l’esplicitazione del senso ontologico in cui si muove: il linguaggio come comprensione del senso dell’essere.

Data: 01.07.2013

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: Commento

Confesso che il testo introduttivo Linguaggio ed essere di Tiziano Guerini mi ha un po’ spiazzato. Che la filosofia greca abbia detto fin dall’inizio che “tutte le cose nascono dal nulla e sono destinate al nulla” mi entra in contraddizione con l’idea di Empedocle secondo il quale “nessuna delle cose mortali conosce nascita, né fine a opera di funesta morte”, e con Anassagora , che afferma che “in realtà una cosa non nasce e non perisce mai, ma si compone e si separa da cose già esistenti”. Insomma, ex nihilo nihil fit : potrà essere un pregiudizio, ma mi pare che i Greci (come poi i Latini) la pensino così. Dunque il divenire non può essere inteso come “passaggio dal nulla all’essere e dall’essere al nulla”, ma piuttosto come armonia fra contrari che mutandosi gli uni negli altri creano un universo concorde-discorde, simile al fuoco che, quando si mescola ai profumi, prende nome dall’aroma di ciascuno di essi.

La filosofia come discorso, come logos è sicuramente legata a uno sfondo religioso. E non solo perché ∆en ∆arch; ∆h~n lovgo", ma perché, come spiega Giorgio Colli, la ragione tende a esprimere una sapienza precedente, un’esperienza di esaltazione misterica. In seguito la funzione allusiva della ragione è stata dimenticata e si è considerato il discorso come se avesse una propria autonomia. Peggio ancora quando dal discorso orale si passa a quello scritto, perché “ogni persona seria – come dice Platone – si guarda bene dallo scrivere di cose serie”.

Dei ricchi e articolati stimoli offerti da Luca Pari alla riflessione, trovo particolarmente suggestivo quello intitolato Linguaggio e origine, che si ricollega allo sfondo religioso di cui si parlava. Nel mito di Prometeo, narrato nel Protagora platonico e ripreso da Pico della Mirandola nella sua Oratio de hominis dignitate, l’uomo divenne partecipe di sorte divina poiché, unico fra gli animali, credette negli dèi, e “rapidamente con l’arte sciolse la voce e articolò parole”. L’idea dell’uomo come animale che parla, che peraltro risale alla Bibbia, diventa in Kierkegaard una possibilità di sfuggire alla disperazione: l’uomo che parla è l’uomo che prega; se la volontà di Dio agisse con necessità ineluttabile, l’uomo sarebbe muto come l’animale.

Da approfondire anche l’aspetto Linguaggio come suono. Mentre il suono è qualcosa che interessa di per se stesso, nel linguaggio è il contenuto semantico a interessare. Dunque potremmo paragonare il suono al gioco, il cui fine è il gioco stesso, e il linguaggio al lavoro, che ha un fine eteronomo: il linguaggio come lavoro della filosofia.

Infine Linguaggio come essere. Mi pare che in questo stia il senso dell’ermeneutica, in quanto “esercizio trasformativo e comunicativo [che] si contrappone alla teoria come contemplazione delle essenze eterne”(Maurizio Ferraris), e non semplicemente come interpretazione di testi religiosi, giuridici o letterari, ma come questione fondamentale della filosofia. In particolare Gadamer esprime questa tesi in modo radicale: l’essere, che può essere compreso, è linguaggio. Al di là delle molteplici interpretazioni a cui questa frase ha dato luogo (alcune molto sottili, come quella che interpreta la relativa come una restrizione, come se si dicesse che l’essere, nella misura in cui ed entro i limiti in cui può essere compreso, è linguaggio), mi pare che resti fermo che il comprendere si dà nella comunicazione. Solo attraverso il discorso sotto forma di dialogo si può sperare di arrivare alla verità. Nel parlare insieme si costruiscono quelli che Gadamer chiamerebbe orizzonti di senso. Forse è banale e scontato dire che ogni comprensione deve accompagnarsi con la coscienza del proprio limite e con il riconoscimento dell’altro nella sua alterità. Eppure a me sembra importante ribadire oggi la validità di queste tesi, al di là del contrasto fra chi, come gli analitici, crede che la filosofia non possa avere un significato diverso da quello di teoria della scienza, e chi, come Gadamer e gli umanisti, crede che possa averlo.

Data: 01.07.2013

Autore: Tiziano Guerini

Oggetto: Risposta a Patrizia de Capua

Certo i primi filosofi, in modo più o meno esplicito e ragionato ( con Platone ed Artistotele in modo molto esplicito e molto ragionato ) hanno considerato l’ ex nihilo nihil come una regola assoluta . Ma se dalla superficie del discorso filosofico scendiamo nel sottosuolo inespresso ma ben più potente, allora ci si accorge che questa regola è del tutto misconosciuta. In Empedocle c’è il lodevole ma goffo tentativo – perfezionato poi da Platone col dualismo ontologico – di conciliare quella che lui ritiene l’esperienza del divenire ( inteso come nascita e morte delle cose) con il principio parmenideo dell’immutabilità dell’essere, escludendo le singole determinazioni (ferro, pietra, carne, ecc.), che appunto nascono e muoiono, dall’essere immutabile definito solo dai quattro elementi primordiali ed eterni (terra acqua, aria, fuoco). Quindi almeno le singole determinazioni prima di essere non erano quello che ora sono, e dopo essere state, tornano all’essere immutabile quindi non sono più quello che sono state.

In altre parole afferma che la cosa, risultato della composizione o della scomposizione dei quattro elementi indivenienti, prima di essere così composta o scomposta non era nella composizione o nella scomposizione in cui poi si trova.

Con la teoria della analogicità dell’essere e la conseguente affermazione del dualismo ontologico (Mondo sensibile e Mondo intellegibile) Platone perfeziona certo il discorso empedocleo ma la sintesi fra determinazioni ed Idea che egli propone è appunto ciò che si genera e si corrompe passando dal non essere all’ essere, e viceversa . Né la sottile distinzione aristotelica fra potenza ed atto risolve il problema, perché ciò che è in potenza non è in atto e viceversa, sì che le cose passano da ciò che prima non sono a ciò che poi sono e viceversa ( prima sono l’essere in potenza e il loro essere in atto non c’è, e po sono l’essere in atto, e il loro essere in potenza non c’è più. Il tempo, cioè, non è altro che la constatazione del divenire, si tratta quindi di un elemento che può giustificare una oscillazione così totale della cosa fra il non essere e l’essere, solo se appunto gli viene conferita e riconosciuta tale funzione. Il fatto che la filosofia greca assegni appunto al divenire tale funzione – la spiegazione cioè del passaggio dal nulla all’essere e viceversa – dovrebbe essere oggetto di dimostrazione; cosa che non avviene se non ancora una volta sul piano dell’evidenza acritica secondo cui sarebbe la stessa esperienza a provare il divenire così inteso. Tutto sta, quindi, nel mostrare se tale interpretazione del divenire sulla base dell’esperienza, sia la sola possibile: e pare proprio che le cose non stiano così dal momento che l’esperienza non mostra l’annichilirsi delle cose, ma si limita a registrare il loro apparire o il loro scomparire senza poter dire alcunché del loro essere profondo. Qui al contrario soccorre la ragione rimettendo in campo l’ex nihilo nihil in tutta la sua radicalità secondo cui l’essere che è – dal momento e nella misura in cui viene constatato - non ha mai potuto né mai potrà essere preda del nulla. Del resto, del nichilismo del pensiero occidentale parla esplicitamente Nietzsche, senza peraltro individuare chiaramente l’alternativa solo abbozzata dalla teoria dell’eterno ritorno.

Già che ci sono tento di rispondere anche alla obiezione avanzata durate la serata dall’amico Antonio Ferrari.
Dice: “ammesso pure che le cose stiano secondo la concezione di un divenire nel segno dell’apparire e non del venir meno del loro essere, quali conseguenze ne deriverebbero sul piano della prassi?”.
Rispondo: ”Nessuna! Salvo la consapevolezza”. Come due persone che si sono perse in una boscaglia: il primo non sa vedere altro che gli alberi e le sterpaglie che gli intralciano il cammino; il secondo ha invece consapevolezza di quale foresta si tratti, se del Casentino o della foresta amazzonica: questo non gli impedisce di togliere di mezzo, come il primo, le sterpaglie poste sul suo cammino, ma gli dà anche una diversa dimensione di valutazione della sua condizione.

Il divenire spiegato nel segno del semplice apparire e scomparire delle cose, e non del loro presunto annichilirsi, toglie certo all’uomo ogni possibilità di interferire profondamente nello svolgersi,secondo il segno della necessità, dello spettacolo del mondo, sì che tutto ciò che accade individualmente e collettivamente, accade appunto secondo necessità. Una necessità che coinvolge evidentemente anche l’accadimento della cultura scientifico-tecnologica nella quale siamo inseriti, e che deve quindi svolgersi e compiersi fino in fondo secondo la profonda razionalità che la governa e che è sostanzialmente riassumibile nella sistematica distruzione di ogni (valore) assoluto perché figlio della contraddizione originaria legata alla concezione profondamente nihilistica della realtà. Ogni tentativo individuale o collettivo di sottrarsi a questa logica sarebbe non solo vano, ma apparirebbe semplicemente patetico.

Ne deriva per l’uomo la necessaria condizione esistenziale di vivere di fede (religiosa, politica, scientifica, ecc.) quindi nell’ incertezza e nel problema, essendo la sua condizione di vita legata alla parzialità (il pensiero dell’uomo può cogliere il concetto astratto del concreto cioè della totalità, non può invece coglierne la reale concretezza: conosciamo la totalità, ma non tutte le cose.): e questa consapevolezza non è nulla (e credo anche che non sarebbe senza conseguenze pratico-politiche).

Questo non impedisce, però, che si faccia avanti la consapevolezza teoretica, come uno spettatore importuno che a metà proiezione anticipi l’esito della vicenda del film: non è il suo momento e verrà zittito. Ma il suo dire, al momento opportuno, mostrerà l’accento di verità di cui è portatore – e di cui è stato stato, sia pure intempestivamente,l’interprete.

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