L'ENIGMA DELL'IO: IDENTITÀ E SOGGETTO - RELATORI: SILVANO ALLASIA, UMBERTO BELLODI, PIERO CARELLI

10.11.2003 21:00

 

PRIMO ARGOMENTO PER IL CAFFE' FILOSOFICO

10.11.2003 secondo lunedì del mese

LE DOMANDE DELLA FILOSOFIA

Primo argomento:

“L’enigma dell’IO: identità e soggetto"

relatori di introduzione: Allasia Silvano, Bellodi Umberto, Carelli Piero.

 

 

ALLASIA

 

Francesco Remotti, Contro l’identità, Laterza, 2001 (prima ed. 1996), pp. 111, € 7,00.

In questo libro Remotti, che insegna antropologia presso l’università di Torino, prende posizionecontro l’identità. A suo giudizio l’identità non è un dato originario che dipenda da una qualche essenza, da una realtà ontologica, ma ha un carattere costruitoinventato. Le identità – tanto individuali che collettive – sono il frutto di tradizioni e di convenzioni. Esse rispondono all’esigenza di sottrarre al flusso continuo del mutamento (per quanto è possibile) delle strutture stabili. Si tratta di artifici necessari, che diventano assai pericolosi quando prevale una logica esclusiva ed ossessiva. L’identità conduce allora a vicoli ciechi nei quali la relazione con l’alterità non può essere pensata altrimenti che nella forma dell’assimilazione o della sopraffazione.

L’esperienza del cannibalismo presso i Tupinamba, una popolazione amerinda da tempo scomparsa, viene presa ad esempio tanto dell’intreccio fittissimo che lega identità e alterità, quanto della logica cieca cui l’ossessione per l’identità può condurre.

Alcune precisazioni. Le tribù Tupinamba praticano un cannibalismo reciproco, nel quale ad essere mangiati sono i prigionieri di guerra. Una volta catturato, il nemico viene condotto nel villaggio e inserito nella comunità: gli viene riconosciuta un’abitazione, una donna, una funzione. L’avvicinarsi del rito che segnerà la sua fine è comunque scandita inesorabilmente da una collana che è costretto a indossare e da cui vengono periodicamente tolti dei grani. Giunto il giorno predisposto, il soggetto è nuovamente e bruscamente spogliato di tutta la familiarità acquisita nel periodo della prigionia, viene riconosciuto esplicitamente come il nemico, e quindi ucciso e mangiato. Parti del suo corpo sono conservate come trofeo. È consuetudine che il prigioniero, il giorno del pasto rituale, rivendichi sprezzantemente di essersi in passato cibato delle carni di coloro che ora lo uccidono, si dimostri orgoglioso della sua fine e sicuro di una prossima vendetta praticata dai suoi compagni. Nel caso di un prigioniero Tupinamba le cui ultime parole ci sono trasmesse da Montaigne nei suoiSaggi, viene però svolta una considerazione ulteriore: «Questi muscoli – dice il prigioniero a coloro che stanno per cibarsi di lui – questa carne e queste vene sono i vostri, poveri pazzi che siete; non vi rendete conto che dentro vi è ancora la sostanza delle membra dei vostri antenati; assaporateli bene, vi troverete il sapore della vostra stessa carne». Questo passo è la premessa delle considerazioni che seguono di Remotti.

Silvano Allasia

«Pare di poter dire che […] con il cannibalismo ci si riappropria degli antenati passando attraverso lo straniero, perché lì – nell’alterità - sono andati a finire con il loro valore, con il loro spirito guerriero, perché l’alterità li ha trattenuti e conservati. Ma ciò che il prigioniero denuncia con il suo canto è soltanto una mezza verità, ossia la seguente: A, mangiando B, mangia i propri antenati, che infatti si trovano sepolti in B. Ma A non mangia direttamente i propri antenati: mangia invece gli antenati che sono stati, a loro volta, assimilati e trasformati in B. Il recupero delle fonti della propria identità avviene attraverso la trasformazione nell’alterità: è lo 'straniero', anzi è il nemico, ovvero la sua condizione di estrema alterità, ciò che consente di porsi in contatto con i propri antenati, di riappropriarsene e di riassimilarli.

Il cannibalismo tupinamba è dunque sì un recupero dell'integrità del 'noi'; ma è un recupero che riguarda, nello stesso tempo, l'identità e l’alterità. Sotto questo profilo, il cannibalismo reciproco può essere inteso come un servizio che reciprocamente si prestano A e B: A mangia B (e viceversa, beninteso), perché solo in questo modo può ricongiungersi con i propri antenati, può ricostituire la propria identità storicamente più profonda, può recuperare il passato, integrandolo nel presente, insieme all'alterità. Sotto questo profilo, si capisce meglio perché è glorioso morire presso i nemici. Gli 'altri' sono la tomba, o meglio un luogo di conservazione del 'noi', di una parte del 'noi'; ma sono anche una tomba che viene costantemente e periodicamente ritraslocata nel 'noi'. I guerrieri di A vanno a morire 'altrove' (in B), ma proprio grazie al sacrificio di 'altri' (i guerrieri di B) sono destinati a ritornare presso il 'noi', o meglio a ricongiungersi a un "noi' che nel frattempo si è rinnovato e trasformato, ospitando e mangiando 'alterità', così come gli stessi "nostri' antenati avevano già subito una trasformazione, allorché furono mangiati dagli “altri”. Vi è dunque un intreccio fittissimo e vertiginoso di trasformazioni reciprocamente indotte e subìte tra A e B, tra identità e alterità, sia sul piano sincronico, sia su quello diacronico.

[…] Ma il prigioniero di cui Montaigne riporta il canto evoca una dimensione di "pazzia” che affiora nell'aggressione cannibalica. La pazzia rinfacciata dal prigioniero B al gruppo dei suoi uccisori (e mangiatori) A riguarda il fatto che essi pensano di mangiare l'alterità e, invece, trovano l'identità nell'alterità: «il sapore della vostra stessa carne». L’implicazione è più profonda di quanto le poche parole riportate suggeriscano immediatamente. Se è vero infatti che i cannibali A trovano nel prigioniero B sia B (l’alterità) sia A (le fonti della loro identità) e se è vero, reciprocamente, che i cannibali B troveranno a loro volta (e senz'altro hanno già trovato le volte precedenti) nei pri-gionieri A sia A (la loro alterità) sia B (la loro identità), se ne può concludere che A e B sono praticamente identici. Per causa della reciprocità cannibalica tra i due gruppi, la «sostanza» di A è infatti composta inevitabilmente sia di A sia di B (A = A + B), e ugualmente la «sostanza» di B è fatta sia di B sia di A (B = B + A). In A e in B vi è lo stesso miscuglio di identità e di alterità. Se “assaporiamo bene” la loro carne, constateremo che è la medesima, vi troveremo lo stesso «sapore». Il grido del valoroso guerriero che è pronto per essere ucciso e mangiato («poveri pazzi che siete») forse non si rivolge soltanto ai suoi carnefici A, ma riguarda tutto il complesso del dramma in cui è coinvolto personalmente, in cui è rimasto intrappolato: forse è una denuncia della logica (barbarica?) in cui si trovano irretiti sia il gruppo A sia il gruppo B. Quel «non vi rendete conto», ri- volto ad A, potrebbe allora essere generalizzato e trasformato in un “poveri pazzi che siamo, non cirendiamo conto”: perché gli stessi motivi di pazzia che il prigioniero B rinfaccia ad A possono essere ugualmente rivolti da un prigioniero A al gruppo B.

C’è pazzia proprio perché “non ci si rende conto”, guidati come si è da una logica particolare, inseriti in una sorta di deriva di cui non è affatto detto che si siano preventivamente calcolati tutti gli esiti possibili. Ma, nella fattispecie, di cosa presumibilmente non ci si rende conto? In primo luogo che A e B sono fatti della stessa sostanza. Si può ritenere infatti che la guerra con i vicini (una guerra “pura”, senza scopi di conquista, “assolutamente nobile e generosa”, secondo Montaigne) sia un modo per provocare artificiosamente o per riaffermare differenze e opposizioni su uno sfondo di sostanziale uguaglianza. Da questo fondo comune le identità locali e particolari (A, B ecc.) vengono ritagliate e fatte emergere anche con l’artificio della guerra , la quale esige che i nemici siano diversi. Sono le esigenze interne dell’identità quelle che provocano le differenze, che creano l’alterità: l’identità di A esiste solo in quanto viene prodotta l’alterità di B; e l’identità di A sussiste solo in quanto viene riprodotta la contrapposizione a B. La guerra è appunto il mezzo di produzione della differenza e della sua radicalizzazione o estremizzazione in alterità» [pp. 90-3].

 

 

 

BELLODI

La Polidentità in/di Edgar Morin

La disamina delle problematiche connesse alla situazione degli ebrei nelle realtà europee ed extra-europee si avvale del concetto di polidentità, la cui definizione e discussione è stata affrontata dal filosofo1 francese Edgar Morin. Nato in una famiglia ebrea, Morin forma sulla propria esperienza un modello culturale in base al quale gli sarà possibile riconoscere gli elementi fondanti dell’identità del popolo ebraico. L’identità del filosofo francese si delinea, nella sua pluralità, a partire da quella del padre, fondamentale ed esemplare per la sua speculazione. Nella figura di Vidal2 si incontrano, oltre all’ebraismo, le origini Livornesi, la nascita greca e l’appartenenza alla comunità sefardita di Salonicco, la frequentazione della scuola franco-tedesca, l’acquisizione della cittadinanza francese. Morin ne considera inoltre il poliglottismo e, chiedendosi quale fosse la sua vera realtà sociale di riferimento, opera una prima sintesi identificando in Salonicco la chiave della fusione degli elementi orientali ed occidentali nella persona di Vidal3.

In breve, Vidal visse una poli-identità orientale-occidentale molto soddisfacente per lui; fu saloniccese, sefardita, mediterraneo, francese in modo concentrico e aggrovigliato; non fu mai di un unico “luogo”, non fu né nomade né sedentario ma sedentarizzato e nomadizzablie4.

Morin si identifica pienamente con la caratteristica del padre professando la propria confusione identitaria. Egli riconosce la propria situazione e la affronta con attenzione critico-analitica5. Morin si dice il risultato di una duplice identità: una originaria, consequenziale alla sua condizione al momento della nascita e quindi al suo patrimonio genetico, ed una derivata dalle proprie azioni, dalle proprie esperienze e dalla propria crescita culturale. Entrambe le identità costituenti il “Morin attuale” hanno ulteriori evidenti caratteristiche polidentitarie; sia l’identità paterna ereditata che il proprio percorso di vita sono eccezionalmente frutto di composizioni apparentemente disordinate cui la storia in primis e l’analisi sintetica successivamente danno ordine e credito6. Morin, come il proprio padre, si dice apatride e conseguentemente poli-patride. Le due definizioni si contrastano e completano; la necessità logica vuole che una non sia senza l’altra ed, effettivamente, è proprio la mancanza di un riferimento storico e geografico che lo radichi alla propria origine a far sì che Morin possa sentirsi un cittadino del mondo oppure, meglio ancora, un con-cittadino in ogni parte del mondo.

La mia eredità culturale è quella giudeo-cristiano-greco-latina, è la cultura europea in cui la componente greca ha dato vita a un pensiero laico. Non sono senza radici; le mie radici sono molteplici, e affondano nel Mediterraneo (l’eredità iberica, italiana, di Salonicco, balcanica) ma anche nelle viscere della Francia, proprio come il vitigno del cabernet di Château-Latour le cui radici penetrano sino alle fertili argille sotto le rocce per ricavarne tutto il nutrimento7.

Morin allarga il campo dell’identità molteplice a tutto il popolo ebraico. Egli considera la diaspora come la fine di una definizione di ebreo che potesse includere tutte le prerogative di un popolo ovverosia il carattere religioso, quello etnico e quello nazionale. La dispersione del popolo ebraico mantiene un unico elemento comune a tutte le nuove realtà comunitarie generatesi: la tradizione religiosa. L’assimilazione, secondo Morin, difficilmente può essere completa; essa piuttosto dà vita ad una confusa situazione di identità duplice, data dalla nazionalità ospite e dalla religione ebraica, oppure abbraccia una nuova dimensione che vada oltre le divisioni etniche e nazionali identificandosi in un nuovo universalismo astratto8, in un nuovo clima culturale globalizzato, e non massificato, che presupponga lo stato/dovere di essere-in-rapporto continuamente.

Morin sostiene che: più una società è complessa ed articolata, meno sono costrittivi i vincoli sui sottogruppi sociali e, conseguentemente, sugli individui, favorendo così l’aggregazione e l’iniziativa. Inoltre, egli riconosce l’esistenza di un limite di complessità, dato dalla rottura del vincolo posto dall’essere in relazione e dal legame sociale, oltre il quale si degenererebbe nel caos. La difesa che egli propone contro questa eventualità è, ancora una volta, la solidarietà inter-personale ed oltre-nazionale dei membri della società finalmente universale.

Gli ebrei si prestano maggiormente a questa nuova concezione sociale poiché la hanno fatta propria più o meno volontariamente a seguito delle circostanze.

L’ebraismo (…) vive costantemente in un tempo che non è il proprio tempo, ha vissuto per lo più in una terra che non è la propria terra; esso è la vita e l’ininterrotta reinterpretazione nella storia di un libro che non ha storia, che vive fuori dal tempo e nella sua millenaria vita fonda il tempo, su cui scandisce la vita ebraica, nella sua tensione verso un’utopica fine dei tempi9.

La peculiare evoluzione storica del popolo ebraico assume un valore paradigmatico rispetto all’esperienza della modernità.

La società globale e multi-etnica della fine del ventesimo secolo10, caratterizzata da intensi scambi e convivenze di costumi e culture, trova negli ebrei i più o meno volontari pionieri11. Edgar Morin sottolinea l’ambivalenza del processo di globalizzazione culturale che, al primo stadio, richiede la compenetrazione delle culture, l’assorbimento della cultura integrantesi da parte della cultura dominante e la perdita dell’ortodossia da parte di quest’ultima. L’assorbimento non è mai completo né, a maggior ragione, unilaterale. Se per assorbimento si intende fagocitosi, si cade in errore; l’assorbimento implica un mutamento della parte assorbente ed una dispersione, all’interno di quest’ultima, della parte assorbita. Il termine più idoneo per definire questo tipo di processo culturale sarebbe forse compenetrazione, processo che non nasconde il duplice protagonismo attivo ma che non cancella la possibilità di eventuali gerarchie determinate dalla previa dominanza di un elemento culturale. La cultura vede il proprio divenire nel confronto delle particolarità. Il divenire culturale porta, secondo Morin, una serie di concause di segno opposto che tramutano il conflitto in una armonia degli opposti di stampo Eracliteo.

Il processo culturale è un processo ambivalente con due aspetti antagonisti: 1) omogeneizzazione, degradazione, perdita della diversità; 2) incontri, nuove sintesi, nuove diversità. Quando si tratta di arte, musica, letteratura, pensiero, la mondializzazione culturale non è omogeneizzante. Si formano grandi ondate transnazionali, ma che favoriscono l’espressione al loro interno delle originalità nazionali12.

Come si è visto Edgar Morin teorizza la polidentità parlandone diffusamente in diversi momenti delle sue opere:

Il principio di identità umana è unitas multiplex, l’unità molteplice, tanto dal punto di vista biologico che da quello culturale e individuale.

Egli riconosce la polidentità non solo come la condizione in direzione della quale si sta muovendo l’umanità nell’era della globalizzazione, ma assegna a tale elemento la qualità di condizione originaria dell’uomo. La co-integrazione delle culture deve, secondo Morin, riconoscere e realizzare l’unità dell’uomo prendendo coscienza dell’identità comune.

La polidentità non ammette di essere vivisezionata se non per concedere considerazioni di carattere storico sul suo arricchimento progressivo. La polidentità ebraica è un modo di essere a tutti gli effetti, una categoria, un dato di partenza che rende la comunità ebraica, che ne è portatrice, ancor più autentica di quanto già non lo sia nel suo stretto legame con la tradizione.

L’arricchimento progressivo portò spesso degli scompensi (le cui motivazioni vanno ricercate nelle brusche evoluzioni di cui la storia ebraica è stata vittima), ma il concetto base di polidentità, in continua maturazione, non ne poté essere scalfito in nessun modo poiché vedeva compiersi in quell’evoluzione sociale considerata minante dagli stessi ebrei. E’ necessario comprendere che tra i tre termini vita, diaspora ed ebraismo, esiste una proprietà transitiva vincolante che può spaventare pur salvando l’identità ebraica ovvero la polidentità ebraica.

 


1 - Il titolo di “filosofo” legato al nome di Morin è, in realtà, improprio. Egli infatti si auto-definisce un onnivoro culturale (Cfr. il Capitolo primo de: Edgar Morin, I miei demoni, Meltemi, 1994, 1999 Roma) edificando su sé stesso, la propria vicenda e la propria crescita culturale, il discorso sulla polidentità. <Fu allora che ripresi il mio progetto di antropologia generale, ma con un’attenzione più specifica all’ “unidualità dell’uomo” – vale a dire una duplice natura, biologica e culturale, cerebrale e psichica che è la sua unità. (...) La mia cultura si è nutrita della mia vita, e la mia vita si è nutrita della mia cultura (...). Non l’ho costruita per accumulazione, ma grazie alla diversità e la pluralità di approcci; non sommando ma mettendo a nudo i nodi conoscitivi strategici che presidiavano i punti di fusione di quel che è diviso (...). Ne L’uomo e la morte e ne Il paradigma perduto ho voluto far confluire le conoscenze biologiche, antropologiche e sociologiche, nel tentativo di fondare una bio-antropo-sociologia; in seguito, ne Il Metodo, non solo cercavo la conoscenza enciclopedica ma quella enciclopedizzante: una forma di sapere che intrecci l’una all’altra le conoscenze isolate per dar loro un senso>. (Ibid., pp. 42-46).

Le parole di Morin stabiliscono una fittissima rete di rapporti tra le materie della scienza umana; Morin non si limita a descrivere questi legami ma, partendovi, costruisce un sistema di pensiero che denota una forte propensione sintetica. Morin, parlando inizialmente della propria situazione culturale, allarga progressivamente la visuale verso l’esterno, abbracciando dapprima le culture dei popoli e successivamente tutti quegli aspetti considerati solitamente individualmente e sulla base di differenziazioni antropologiche, dichiarandone l’interdipendenza necessaria e contingente di cui bisogna prendere coscienza. Morin ribattezza la cultura in termini di policultura: <La cultura non è frutto di accumulo ma una forza che si auto-organizza: coglie le informazioni principali, seleziona i problemi di fondo, utilizza principi di intelligibilità che colgono i nodi strategici del sapere>. (Ibidem)

 

2 -Vidal è il padre di Edgar Morin ed è protagonista di una delle sue principali opere in cui si teorizza ed affronta il tema della polidentità: Vidal mio padre, Sperling & Kupfer, Milano 1989, 1995.

3 -<Per quindici secoli i sefarditi avevano conservato in Spagna i loro riti d’Oriente, ma si erano integrati nel mondo occidentale medievale, cristiano e musulmano; poi avevano impotrato e conservato in Oriente, nell’Impero ottomano, la lingua occidentale che era lo spagnolo>. (Ibid., p. 425).

4 -Ibid., p. 426

5 -Edgar Morin, nel testo I miei demoni, si auto-definisce marrano. Questo riferimento metaforico è ben spiegato dagli autori della traduzione italiana dell’opera, edita da Meltemi, Laura Pacelli e Antonio Perri: <Storicamente il termine (...) designa gli ebrei spagnoli (talora anche i musulmani) che per non essere perseguitati fingevano una conversione al cristianesimo, pur continuando a mantenere in segreto la propria fede e rinunciando alle pratiche di culto esteriori. Questa esistenza scissa, questa liminarità identitaria consapevole divengono per l’Autore emblematiche dell’esistenza di chi accetta con spirito critico la pluralità delle culture e delle scelte – di vita e conoscitive – senza “identificarsi” fideisticamente in esse>. (nota 1 p. 65-66).

6 -Cfr. Ibid., p. 114

7 -Ibid., p. 139.

Personalmente trovo splendida la metafora culinaria elaborata da Morin, nelle ultime due pagine di Vidal mio padre, per poter spiegare quella che per lui non è solo una condizione identitaria personale ma anche un nuovo atteggiamento di cui dovrebbe prendere coscienza la società contemporanea per potersi rifondare. Il protagonista della metafora è il pastellico sfornato di formaggio tipico di Salonicco: <Questo pastellico (...), come la borekita, involtino della stessa composizione per una persona sola, viene dal fondo dei secoli. La Spagna conobbe un certo tipo di borekita, che emigrò in Argentina e in Cile per diventarvi l’empanada. I borek si propagarono nel mondo ottomano ed esistono in Grecia sotto forma di pasta sfoglia, le tiropitas, che i saloniccesi chiamavano “pastelle di fojas”. In Tunisia, i brik a sfoglie sono guarniti con l’uovo; in Marocco, l’equivalente del borek è una torta dolce. Così gli antenati e i cugini del pastellico hanno circolato e sono fioriti diversamente in tutto il Mediterraneo, sono comuni alla Spagna islamica, ebraica, cristiana e alle etnie dei Balcani. Si può supporre che i sefarditi abbiano conosciuto il pastellico per più di un millennio in Spagna, e che questo li abbia accompagnati a Salonicco, dove (...) era presente in tutte le riunioni di famiglia e nelle feste. Poi il pastellico ha attraversato un’altra volta il Mediterraneo, è arrivato in Francia con i sefarditi d’Oriente. E quando il sefardismo si è diluito nei franchi, il nucleo maternale della sua cultura si è mantenuto; questo nocciolo, come in ogni cultura, è gastronomico e, al nocciolo di questo nocciolo c’è il pastellico>. (Edgar Morin, Vidal mio padre, cit., pp. 435-436).

In questo passo è molto chiaro il più immediato riferimento alle vicende della famiglia di Morin ed alle migrazioni cui essa si è sottoposta trascinando con sé la gastronomia tradizionale, simbolo degli elementi più intimi di una affiatato nucleo famigliare e della sua cultura originaria. L’esempio, per esteso, è funzionale alla rappresentazione di tutta la vicenda diasporica anzi, salvaguardando il principio di individualità in continua relazione, principio proprio del filosofo francese, tutte le vicende fiorite dalla diaspora. Estendendo ancor di più il concetto sottinteso da Morin, si arriva a considerare la vicenda del pastellico come l’emblema di ogni inter-relazione; l’incontro tra due soggetti è l’incontro di due apparati di pensiero che entrano in dialettica generando nuovi prodotti fatti della giusta commistione tra i pensieri originali generati dai singoli sistemi. Il pastellico cambia nome, sfumature e carattere a seconda di dove venga importato ed accettato dagli autoctoni divenendo la materia fondante di una nuova società solidale fondata sull’inter-relazione. Il pastellico è un fautore di polidentità poiché lascia nelle gastronomie locali un carattere nuovo che, integrandosi l gusto “autoctono”, ne modifica la struttura generale.

8 -L’universalismo astratto è spiegato da Morin come “posizione che sottovaluta l’importanza delle radici religiose, etniche, nazionali e accetta, per il benessere dell’umanità, il sacrificio delle popolazioni ribelli” ed è strettamente legato con il sentimento di solidarietà universale che emerge continuamente dal discorso di Morin. Secondo il filosofo francese la società moderna deve reggersi sul continuo rapportarsi dei propri membri in una direzione che scavalca ogni tipo di divisione etnica e sociale. (Cfr. Ibid., p. 235).

9 -Enrico Fubini, La musica nella tradizione ebraica, Einaudi, Torino 1994, p. 16

10 -Edgar Morin parla della globalizzazione della civiltà in questi termini: <Questa tendenza si sviluppa nel bene e nel male: nel male, comporta distruzioni culturali irrimediabili; omogeneizza e standardizza i costumi, le usanze, i consumi, i cibi (fast food), i viaggi, il turismo; ma questa mondializzazione opera anche nel bene perché genera usanze, costumi, generi di vita comuni attraverso le frontiere nazionali, etniche, religiose, che fanno saltare un certo numero di barriere di incomprensione fra individui e popoli. Sviluppa vari settori di laicizzazione e di razionalità dove non intervengono più divieti e maledizioni religiose>. (Edgar Morin – Anne Brigitte Kern, Terra-Patria, Cortina, Milano 1994, pp. 25-26).

11 -Shmuel N. Eisenstadt ci parla della realtà culturale ebraica del XIX secolo dipingendola come universale e liberale con riferimento soprattutto all’ambito sociologico: <Effettivamente questo messaggio universale, liberale, etico era spesso considerato da molti intellettuali ebrei dell’Europa occidentale e centrale (…) come l’essenza della civiltà ebraica o del suo possibile contributo alla vita moderna. Esso (…) ritraeva gli ebrei come portatori di una missione speciale nei confronti delle nazioni, una missione non più rappresentata (…) dai principi più tradizionali dell’Ebraismo rabbinico, ma che conservava ancora, anche se in modo trasformato, molti dei fondamentali orientamenti della civiltà ebraica. Molti Ebrei scorgevano infatti in questi atteggiamenti più liberali e civici, e nelle attività intellettuali specificamente ebraiche, un’articolazione di quell’aspetto del retaggio universalistico dell’Ebraismo che non aveva trovato un’espressione adeguata nel periodo medievale: l’accento sui principi etici universali espressi in maniera unica nella tradizione profetica, che testimoniava per così dire della speciale missione degli Ebrei; insomma, una versione moderna dell’idea di popolo eletto>. (Shmuel N. Eisenstadt, Civiltà ebraica. L’esperienza storica degli ebrei in una prospettiva comparativa, Donzelli, Roma 1993, p. 112).

Questo passo porta a considerare come la diaspora abbia forgiato la cultura ebraica nel senso di una mondializzazione culturale che, prescindendo dal carattere geografico, scova le proprie radici nell’atteggiamento dell’ebraismo originario. La dispersione nel mondo rese gli ebrei ambasciatori di una nuova concezione dell’identità umana, ed Eisenstadt rileva come le premesse di tale compito fossero già peculiari nei fondamenti dell’ebraismo. L’identità culturale ebraica fonda l’identità sociale; l’identità sociale ebraica è l’embrione della polidentità globale.

12 -Edgar Morin, Terra-Patria, cit., p. 26

 

 

 

CARELLI

 

L’ENIGMA-IO: ALCUNE CONGETTURE.

L’IO HA UN CERVELLO O SI IDENTIFICA CON PROCESSI CEREBRALI?

  1. Karl Popper-J. Eccles, L’io e il suo cervello, Armando Armando, Roma 1982 (ed. in lingua inglese “The Self and Its Brain”, 1977)

“Siamo consci del fatto che ciò che abbiamo sostenuto
non sono che modeste ipotesi,
e siamo consapevoli della nostra fallibilità”

1.1. L’IO HA UN CERVELLO

  • Io posso accelerare o rallentare il ribaltamento di una figura ambigua: di conseguenza io sono autonomo dal cervello, sono in grado di dare ordini al cervello stesso;

  • Di fronte alle illusioni ottiche, io avverto la mia impotenza a liberarci da tali illusioni, ma nello stesso tempo sono convinto che non devo prestare alcuna fiducia ad esse: di conseguenza un conto è l’io consapevole ed un conto le percezioni visive.

  • Stimolati da un elettrodo in determinate aree della corteccia cerebrale, i pazienti riferiscono di percepire esperienze visive ed uditive e, nello stesso tempo riferiscono di essere perfettamente coscienti di essere nella sala operatoria (esperimenti di Penfield): di conseguenza la coscienza è indipendente dai processi cerebrali (considerato che la consapevolezza di essere nella sala operatoria e le percezioni provocate dagli elettrodi avvengono simultaneamente, non è possibile che siamo in presenza di eventi ambedue fisici);

1.2. RITORNO AL DUALISMO CARTESIANO?

Pur rivendicando con forza l’autonomia dell’io rispetto al cervello, Popper ed Eccles non cadono nella trappola del dualismo cartesiano. Infatti:

  • l’io non è per nulla una sostanza: anzi una domanda sulla natura dell’io è mal posta (Popper ed Eccles, quindi, vanno oltre quello che viene chiamato “sostanzialismo”);

  • è vero che la coscienza è un fatto emergente nell’evoluzione, ma non è escluso che una qualche forma di coscienza sia presente anche negli animali superiori;

  • è la nascita del linguaggio che ha svolto il ruolo di pressione che è stato alla base della formazione della corteccia cerebrale e, con questa, della coscienza;

  • la coscienza è associata a processi cerebrali: non è un caso che una profonda lesione cerebrale provochi il coma;

  • l’io non è altro che il risultato dell’interazione del bambino con l’ambiente (che è distinto da lui) e, soprattutto, dalle relazioni con altre persone da cui viene chiamato con il proprio nome, viene approvato, disapprovato.

L’io, quindi, non è concepito come la “sostanza pensante” di cartesiana memoria sia perché

  • non è una sostanza,

  • è strettamente associato alla base cerebrale,

  • è il risultato delle relazioni del bambino con l’ambiente e con le altre persone..

  1. Richard Gregory, La mente nella scienza, Est Mondadori, Milano, 1985

“mente e cervello appaiono così diversi che,
ben lungi dall’essere identici,
è persino difficile cogliere delle somiglianze”

2.1. PRESA DI DISTANZA DA POPPER-ECCLES

Popper ed Eccles non provano quello che pretendono di provare. Il nostro potere di frenare o accelerare il ribaltamento di una figura ambigua e gli esperimenti di Penfield non provano per nulla l’autonomia dell’io: non si può escludere, infatti, che regioni cerebrali diverse possano operare contemporaneamente (anzi: esistono diverse attività cerebrali che si svolgono contemporaneamente).

2.2. IDENTITÀ TRA L’IO E PROCESSI BIOLOGICI?

  • Gregory, tuttavia, non sposa per nulla la teoria dell’identità. Mente e cervello sono così diversi che è difficile coglierne le somiglianze:

    • la consapevolezza non occupa alcuno spazio, mentre gli stati cerebrali hanno un’estensione spaziale;

    • la mente non ha massa, né energia, né solidità…

    • Conseguenza? Gregory suggerisce un’ipotesi: tra mente e cervello ci potrebbe essere una identità di significato (se si scrive 6x9=54, i segni che appaiono prima e dopo il simbolo uguale (=) sono molto diversi sotto il profilo fisico e spaziale, eppure hanno il medesimo significato). M… come si può caratterizzare il concetto di “significato”: è qualcosa di mentale o di fisico?

  1. Sergio Moravia, L’enigma della mente, Laterza, Roma-Bari, 1986

“il mind-body problem è, sotto molti aspetti,
un problema piuttosto goffo e poco attendibile.
Poteva andare bene in certi contesti della metafisica classica.
Potè funzionare ai tempi di Cartesio”

NÉ DUALISMO NÉ MATERIALISMO

  • Il classico “mind body-problem” è morto: aveva un senso, infatti, quando si usavano le categorie culturali di “spirito” e di “materia”, categorie che oggi sono venute meno;

  • Moravia, tuttavia, pur escludendo il dualismo, non abbraccia il materialismo:

    • Quando elaboro una credenza, senza dubbio entrano in funzione dei circuiti neuronali, ma questo non significa che la credenza si riduca a tali circuiti;

    • Uno scienziato sordo potrebbe sapere tutto sulla fisiologia dell’udito, ma questo non significa che tale scienziato abbia l’“esperienza” dell’udito;

    • L’esperienza del dolore non è riducibile ai suoi presunti micro-componenti cerebrali;

    • Un conto è il provare vergogna ed un conto il rossore della pelle;

    • Un evento mentale non ha parti (quali sarebbero le parti della malinconia), non ha spazio (dov’è la malinconia?), è del tutto “privato” (nessuno prova il “mio” mal di testa come lo sperimento io).

    • Conseguenza? Moravia rifiuta sia il dualismo che il materialismo (l’identitismo) ed invita ad andare oltre la philosophy of mind per approdare alla philosophy of subject, alla filosofia della persona. Un ritorno alla tradizionale concezione cattolica? No: il soggetto (la persona) non ha nulla di spiritualistico, ma non è altro che un insieme di simboli, valori, bisogni storicamente dati.

  1. Daniel C. Dennett, L’io della mente, Adelphi, Milano 1985; Brainstorms, Adelphi, Milano 1991; Coscienza, Rizzoli, Milano 1993.

“La coscienza umana è praticamente
l’ultimo mistero che ancora sopravvive”

  • È un fatto che la mente trasmette messaggi al corpo e viceversa. Come sono tali messaggi? Non sono onde elettromagnetiche o acustiche, non sono fasci di particelle subatomiche: nessuna energia e nessuna massa sono associate ai messaggi della mente. E allora?

  • La mente non è una cosa, non è una sostanza, ma è una funzione. La mente cioè sta al software come il corpo sta all’hardware (il software di un computer non ha nulla di fisico, non ha a che fare con circuiti elettrici…: è una funzione che è fisicamente neutra;

  • Dennett ritiene che si debba smantellare l’idea che il cervello abbia un “centro” (non vi è alcun centro che raccoglie gli stimoli provenienti dall’esterno, che ne prende coscienza – li coglie come “esperienza” e che risponde con reazioni): tale idea è una delle più ingannevoli che ci impediscono di cogliere in modo autentico la coscienza. Dennett parla di “quasi sé” o “sé sui generis”. L’uomo, cioè, sarebbe un amalgama di… sotto-persone.

  1. Altre indicazioni: William Barrett, La morte dell’anima, Laterza, Roma-Bari, 1987; D. R. Hofstadter, Gődel, Escher, Bach, Adelphi, Milano 1984; Roger Penrose, La mente nuova dell’imperatore, Rizzoli, Milano 1992.

 

Dibattito

Data: 10.01.2015

Autore:

Oggetto:

Data: 01.07.2013

Autore: Tiziano Guerini

Oggetto: Emanuele SEVERINO, Sortite, ed. Rizzoli, 1994

Da “Cap. XV La luce dell’apparire”

… “Mente”, coscienza, soggetto, anima: non si può dire che la cultura del nostro tempo si stia disinteressando del significato di queste parole. Della mente dell’uomo si interessano la psicologia e la sociologia, l’antropologia, la biologia e la cibernetica, la linguistica ed altre scienze ancora. In passato, costituiva invece uno dei temi tipici del pensiero filosofico.

Ma tutto ciò che diventa oggetto di scienza si presenta come una dimensione particolare e limitata della realtà, una dimensione, cioè, al di fuori della quale ne esistono altre, particolari, che a loro volta possono diventare oggetti di scienza.

La scienza è specializzazione e l’oggetto della specializzazione è sempre una specie particolare di realtà. Diventando oggetto della ricerca scientifica, anche “la mente” si presenta dunque come una realtà particolare e limitata, circondata da una miriade di altre realtà.

Sennonché non è questo il senso che la filosofia moderna – da Cartesio a Kant e a Hegel – attribuisce alla “mente” , in modo sempre più radicale e coerente. Qui la mente non è una realtà fra le altre, una cosa tra le cose, ma è l’orizzonte in cui si presentano e sono contenute tutte le realtà e tutte le cose. E infatti, quella miriade di altre realtà – che secondo la prospettiva scientifica, starebbero al di là della “mente”, intesa come realtà particolare – non è forse anch’essa qualcosa a cui la Mente si rivolge e che comprende e che dunque contiene in se stessa ? L’Idealismo ha chiamato trascendentale la Mente (la Coscienza, il Pensiero, il Soggetto, l’Io ), per indicare appunto questa sua capacità di trascendere ogni realtà particolare e di comprendere in se stessa la totalità del reale.

La scienza, proprio perché è scienza, ha voltato le spalle al carattere trascendentale della Mente e si è messa a studiare la “mente” intesa come campo particolare di indagine.Anche la maggior parte della filosofia contemporanea si muove ormai su questa strada.

Eppure ancora nel XX° secolo importanti filosofi hanno tenuto vivo il senso trascendentale della Mente: Croce e Gentile, Husserl ed Heidegger, ad esempio.

Non così i loro epigoni!

Data: 01.07.2013

Autore: Secondo Giacobbi

Oggetto: Psicoanalitica-MENTE

MENTE- Gli psicoanalisti, specie quelli di più classica formazione, amano poco questo termine . Lo considerano caratteristico di un approccio mentalistico, appunto, ai problemi della psiche e del pensiero. In effetti, in ambito psicologico ( e la psicoanalisi, per tanti versi, si pone in rotta di collisione con la tradizione psicologica ), parlare di “mente” rimanda ad una concezione dei processi mentali che tende a scomporli in modo atomistico, oppure a rappresentarseli secondo metafore computeristiche. La mente inconscia dei cognitivisti e delle neuroscienze, in questo senso, è molto diversa dall’inconscio degli psicoanalisti; assomiglia molto di più al Pre-conscio di costoro, cioè ad un inconscio “attuale”, passibile di coscientizzazione, privo della terribile pregnanza e della drammatica tensione dinamica dell’inconscio freudiano: In una parola, “mente” è un’espressione del lessico scientista, e la psicoanalisi, per tanti versi, si pone in rotta di collisione con la tradizione scientista.

Dire “mente” vuol dire, quasi immediatamente, porre il problema del rapporto mente-cervello. Fiumi di inchiostro sono stati versati sul tema; come parlarne in psicoanalese? Diciamo che la pratica analitica genera la convinzione che sia la mente, se non a produrre certo a organizzare , il cervello. Se un paziente riesce a trasformare il proprio mondo rappresentazionale, attraverso l’esperienza analitica, ciò avrà una ricaduta stabile sugli assetti neuronali, sugli scambi sinaptici, sulla biochimica del suo cervello. Possiamo dire che il suo cervello cambia.

Allo stesso modo se lo stato umorale e mentale di un paziente depresso cambia radicalmente, a tale cambiamento corrisponderà una modifica degli scambi sinaptici e biochimici dei suoi neuroni, i quali, a loro volta, tenderanno ad organizzarsi in circuiti, mappe e assetti anche del tutto inediti.

Tali cambiamenti sono sperimentalmente verificabili allo stesso modo in cui è verificabile l’effetto cerebrale di una protratta e intensiva somministrazione di antidepressivi.

IO- L’Io della psicoanalisi è un’istanza psichica, parte limitata di un territorio psichico ben più esteso. L’Io freudiano controlla il sistema sensomotorio, governa la motilità neuromuscolare, è al capolinea dell’esperienza percettiva e del sistema mnestico e linguistico; coincide con l’attività di pensiero conscia e “razionale”, ma non si esaurisce in essa; e infatti c’è una parte inconscia dell’Io, dentro la quale operano i cosiddetti meccanismi di difesa dell’Io; e come potrebbero essi funzionare efficacemente se fossero coscienti? Se fossi cosciente che la mia passione per le barzellette misogine nasconde ed esprime un’aggressività, repressa e rimossa, originariamente destinata a mia moglie, o a mia madre, o magari ad entrambe, tale aggressività non potrebbe più spostarsi e scaricarsi con altrettanta efficacia. Lo stesso linguaggio ha una fondazione inconscia e “parla” il soggetto.

L’Io di Freud è come Arlecchino, il “servitore di due padroni” : corre tra l’uno e l’altro padrone, pateticamente, comicamente, a perdifiato; è preteso dall’uno e dall’altro, sballottato tra l’uno e l’altro. Il primo padrone è l’inconscio pulsionale, che reclama i suoi godimenti, che impone i suoi bisogni; l’altro padrone è il Superio, con i suoi divieti morali e moralistici, coi suoi tabu, con le sue aspettative esigenti.

Quando dunque dico “io” è ad un aspetto mascherato, marionettistico, profondamente contraddittorio e conflittuale di me stesso che mi riferisco. Eppure è solo attraverso l’io che può passare qualsiasi processo trasformativo che liberi (per quanto possibile) e guarisca (per quanto possibile), poiché è attraverso l’io che il paziente parla allo psicoanalista, ed è attraverso l’Io che il paziente ascolta l’analista e si rapporta a lui.

Coscienza- Secondo freud la coscienza è solo un aspetto contingente e assolutamente minoritario dello psichico, che è semmai, secondo Freud, di per sé inconscio e lontano, anche irreparabilmente e irraggiungibilmente, dalla consapevolezza. Quanto all’inconscio, esso è di vari tipi, ovvero esso è organizzato a vari livelli: c’è un Preconscio che è limitrofo alla coscienza ( esso agisce, ad es., in quelle esperienze motorie o mentali che l’Io conscio ha delegato ad una sorta di operatore automatico, come ad es. nella guida dell’automobile); c’è un Inconscio “attuale”, o “fenomenico”,che riguarda tutto ciò che, nella psiche, è attualmente e descrittivamente inconscio, ma immediatamente passibile di coscientizzazione attraverso una presa di coscienza autoriflessiva: ad es. “ sì, è vero, quel tizio mi sta sulle scatole! Prima non me ne rendevo conto.”

C’è l’inconscio “rimosso” o “dinamico”, che è come il deposito, non certo inerte, ma dinamicamente attivo ( nel senso che determina in noi umori, stati d'animo, sintomi, lapsus, fantasie ecc.) , di impulsi, pulsioni, desideri, fantasie ecc. che l’io cosciente allontana dalla consapevolezza e rimuove negli stati profondi dell’apparato psichico. C’è infine un inconscio filogenetico, nel quale si è sedimentata la storia psichica della specie, che ha fissato in ciascuno di noi strutture e funzioni mentali, codici affettivi, fantasmi ecc.

SOGGETTO- Il soggetto della psicoanalisi è, etimologicamente, un sottoposto, un sotto-messo ( sottoposto e sottomesso ai suoi diversi padroni, le pulsioni, i divieti morali, i tabu sociali, le aspettative superegoiche ecc.)

INDIVIDUO- L’individuo, nell’ottica psicoanalitica, è divisibile-divisibilissimo; in realtà è diviso e scisso da sempre e costitutivamente. Ciascuno di noi, come chiunque può – se vuole – testimoniare a se stesso, è diviso in più parti, spesso contraddittorie e antagonistiche; e molte di queste parti non si affacciano neanche dentro il foro della vita psichica cosciente.Ne consegue che l’IDENTITA’ è una pluri-identità ed è in gran parte inconscia.

Data: 01.07.2013

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: Intervento

Mi pare che, benché Popper giudichi la teoria delle idee propria dell’empirismo inglese come “la dottrina più terribilmente fuorviante che sia emersa dal dualismo cartesiano”, la domanda che egli si pone “l’Io ha un cervello o l’Io è un cervello?”, assomigli a quella di Hume “l’Io ha percezioni o l’Io è un Commonwealth di percezioni?”. E’ vero che Popper intende interrogarsi sul rapporto mente/cervello, mentre Hume si interroga sulla possibilità di sostanzializzare le attività mentali; ed è anche vero che mentre Popper risponde che “l’Io ha un cervello”, Hume risponde che “l’Io è un Commonwealth di percezioni”.

Però io vorrei capire esattamente

in che cosa sono cambiati i termini delle domande da Hume, a Popper, fino a noi

che influenza ha su questi mutamenti l’ampio dominio della realtà virtuale, e più precisamente il fatto che le tecnologie digitali sembrano condurre verso un’evanescenza del corpo.

A proposito di questo secondo interrogativo, è stato detto che la progressiva immaterializzazione del corpo ha sconvolto il tradizionale rapporto fra corpo e identità. La comunicazione telematica rende possibile l’assunzione di identità multiple, fittizie: vere e proprie polidentità telematiche, che non mi sembrano rispondere ai caratteri etici e antropologici della polidentità di Morin, ma piuttosto fuorviare ogni possibilità di reciproco riconoscimento.

Vorrei sottolineare il fatto che il dato primario dell’identificazione dell’individuo, fin da quando veniamo al mondo, è il sesso, come è confermato non solo dall’annuncio “maschio” o “femmina” dell’ostetrica o del ginecologo al momento della nascita, ma anche da ciò che accade nei giochi di tipo MUD (Multi User Dungeon o Dimension = prigione sotterranea per più utenti, dove si svolgono giochi di ruolo in cui ciascuno crea un proprio nome, corpo e identità), in cui innanzitutto il sesso è contraffatto: io uomo posso diventare donna, io donna uomo, oppure posso essere neutro, o “spivak” (=genere plurale). Ciò significa che continuiamo a credere di poterci identificare innanzitutto per genere, se in una situazione ludica di trasgressione il sesso è il primo a venire stravolto.

Personalmente trovo più convincente la teoria di Popper: l’Io ha un cervello, anche se questa teoria non aiuta a spiegare che ne è del cosiddetto Io nei malati, ad esempio, di Alzheimer, i quali, se interpreto correttamente, soffrono di una progressiva degenerazione di funzioni cerebrali, e proprio per questo smarriscono una serie di funzioni mentali. Ma dal momento che l’affermazione di Popper non porta a concepire l’Io come sostanza pensante, forse è possibile conciliare questo Io non sostanzialistico con il Commonwealth di Hume: la mente come attività organizzata, funzione, l’uomo come amalgama di sotto-persone di Dennett. Più che il simbolo della maschera di tipo letterario (pirandelliano), mi sembra confacente l’immagine della cura e conoscenza di sé come cura e conoscenza dell’anima di cui parla il divino Platone. Forse la parola anima ha assunto per noi significati eterogenei rispetto a quello platonico, ma sicuramente tutti comprendiamo ciò che Platone intende là dove afferma “quando tu e io parliamo fra di noi, servendoci di parole, sono le nostre anime che parlano fra di loro”. Anima, intelligenza, mente, non corpo o cervello: il corpo (cervello) è lo strumento dell’anima (mente), come la cetra per il citarista. Forse poi Platone aveva capito un’altra verità: che in una remota lontananza fuori del tempo, dove passato e futuro si confondono, così come mitologia e tecnologia, noi non siamo solo uomini o donne, ma uomini-uomini, donne-donne e uomini-donne: androgino o spivak. Il corpo ha un sesso, l’anima ne ha molti.

Data: 01.07.2013

Autore: Claudio Ceravolo

Oggetto: Intervento

Riassumo, cercando di renderlo più organico, il mio intervento alla prima serata del “Caffè filosofico” <L’enigma dell’io : identità e soggetto >

Ho cercato in primo luogo di fare chiarezza sulla distinzione tra identità ed identificazione :quando noi parliamo di “identità europea, identità sessuale ecc”, ci riferiamo a una identificazione, ossia alla nostra necessità di essere “letti” come appartenenti a un gruppo, e di rassicurare noi stessi .

L’identità è spesso percepita come una questione di ‘confine’, di tracciare una linea che ci permetta di differenziarci da altri. Per questa operazione, fondamentale nel costruire una persona, è quanto mai necessario identificarci in qualcosa, in uno o più segni che dicano agli altri quali sono le nostre caratteristiche, che cosa ci renda unici e irripetibili (e degni di amore, rispetto, e godenti di diritti : l’identificarsi ad es. nella nazionalità italiana porta dei vantaggi che un Rwandese non ha…)

Sul bisogno di identificazione la nostra società gioca moltissimo : dai documenti che mi identificano come Claudio Ceravolo e mi permettono per fortuna di non essere confuso con bin Laden, alla moda, alla costruzione di mille momenti di aggregazione.

Questa sera noi però vogliamo parlare non dell’identificazione, ma dell’identità, ossia di quel quid che sta sotto il mio io e mi rende me stesso.

La necessità di andare alla radice dell’identità è già stata sottolineata negli interventi di Paolo Ceravolo, di Tiziano Guerini e di Martino Boschiroli. Per tutti e tre è abbastanza evidente che l’andare “alla radice” significa andare alla ricerca di quel qualcosa di trascendentale che permette di superare “ogni realtà particolare e di comprendere in se stessa la totalità del reale” (E. Severino, citato da Tiziano).

Molto più modestamente, io cerco di dar voce a dei ragionamenti che restino sul piano dell’esperienza condivisibile e della logica confutabile (senza peraltro voler negare ad altri la libertà di percorrere le vie della mistica, ben sapendo però che sono cosa diversa dal logos )

La ricerca della radice, intendendo con questa parola quell’ universale che è condiviso da tutte le identità e che non è modificato dalle differenti identificazioni, mi porta a dire che l’identità è narrazione.

L’identità di ciascuno di noi si costruisce infatti attraverso una storia, la storia dei rapporti del mio io col mondo esterno, a cominciare dalla vita prenatale in là. O meglio dell’interpretazione che io do alla storia dei miei rapporti col mondo esterno, quindi alla narrazione che ne faccio ( a me in primo luogo, poi agli altri).

Questo è risultato molto bene dagli interventi di Silvano Allevia, che per parlare della propria identità ha narrato momenti della propria infanzia,e di Umberto Bellodi, che ci ha raccontato di Edgar Morin e di come tale autore costruisca la propria poliidentità in un vissuto che ha attraversato diverse culture e diversi luoghi (ma sempre esplicitato come narrazione)

Non è casuale che l’esperienza di più profonda ricerca di identità nella cultura del XX secolo – la Recherche di Proust – si svolga come una continua narrazione in cui i particolari anche apparentemente minimi servono alla costruzione di un io e di una coscienza.

Anche l’io patologico si costruisce come narrazione, una narrazione comprensibile solo all’io che la fa, non alle altre persone : nondimeno una narrazione compiuta, con le sue regole e la sua sintassi, pur particolare.

Ma se è vero che l’identità è narrazione, ne derivano alcune conseguenze :

o La narrazione della mia vita può essere costruita solo con gli strumenti che ho a disposizione per esplorare il mondo esterno. Diversi interventi hanno già sottolineato come l’io non possa scindersi dalla corporeità. Aggiungo di più : non si dà coscienza di un sé, se non attraverso un carattere soggettivo dell’esperienza. Consiglio un articolo abbastanza famoso di Thomas Nagel “What is it like to be a bat?” (Cosa sembra essere un pipistrello?), integralmente disponibile in rete all’indirizzo : https://members.aol.com/NeoNoetics/Nagel_Bat.html Vi si dimostra con chiarezza e spirito che non basta immaginarsi di avere le ali, di dormire a testa in giù e di essere attratto dalle pipistrelline per avere la coscienza della “pipistrellità” : una esperienza del mondo totalmente ‘altra’ rispetto alla nostra, come può essere il fatto di conoscere il mondo tramite ultrasuoni, non potrà mai essere portata a livello della nostra propria coscienza, e il comprendere razionalmente alcuni fenomeni non ci avvicina di una spanna a una identità che ha una esperienza del mondo del tutto diversa dalla nostra. E – sottolinea Nagel – non esiste uno stato oggettivo della coscienza e dell’identità di sé, solo una esperienza soggettiva dello stesso. Per usare le sue parole : ”Certamente è improbabile che noi possiamo avvicinarci alla natura reale dell’esperienza umana abbandonando la particolarità del nostro punto di vista e sforzandoci di fare una descrizione comprensibile a esseri che non possano immaginare che cosa si senta a essere noi. Se il carattere soggettivo dell’esperienza è pienamente comprensibile solo da un punto di vista, allora ogni ‘scivolare’ verso una maggiore oggettività –cioè,l’essere meno attaccati a uno specifico punto di vista- non ci porta più vicini alla natura reale del fenomeno : casomai serve ad allontanarci”

o Se l’identità si costruisce come narrazione, allora il linguaggio è il solo strumento utilizzabile per questa narrazione (intendo con linguaggio, è ovvio, non solo il linguaggio verbale ma qualsiasi modalità di espressione). Il linguaggio è quindi alla radice della costruzione dell’identità, è “l’essere che è” dell’esserci. Non potendo affrontare con sufficiente completezza questo passo, che è fondamentale per la comprensione dell’identità, ho proposto di approfondirlo meglio nella seconda serata del Caffè filosofico.

Mi rendo conto che non è agevole sintetizzare in poche righe argomenti così complessi : vedete questo scritto solo come degli appunti, tracciati in fretta a un tavolino del Caffè Filosofico.

A martedì 9 dicembre

Claudio Ceravolo

Data: 01.07.2013

Autore: Silvano Allasia

Oggetto: R: Intervento

Vorrei svolgere alcune osservazioni riguardo l’intervento di Claudio Ceravolo sul tema dell’identità (incontro di novembre), che ho trovato molto stimolante.

Non condivido l’intenzione di Ceravolo di tenere separate identità e identificazione. Perché non intendere l’identità degli individui come il prodotto di identificazioni successive? Mi sembra che la pensi così anche Freud. In L’Io e l’Es (1921), dopo avere descritto la tendenza dell’Es a proiettare su oggetti gli impulsi erotici, Freud sostiene che ogni volta che si deve rinunciare ad uno di questi investimenti, l’Io tende ad assumere l’aspetto dell’oggetto abbandonato. La finalità dell’Io sarebbe ql di alleviare la dolorosa rinuncia cui l’Es è costretto e di conquistarne l’amore. È come se l’Io dicesse all’Es: «Vedi, puoi amare anche me, che sono così simile all’oggetto». Si tratta di un processo di identificazione che Freud ritiene molto frequente, soprattutto nelle prime fasi dello sviluppo, tanto da giustificare la convinzione che «il carattere dell’Io sia un sedimento di investimenti oggettuali abbandonati». Se aggiungiamo che anche il SuperIo è il prodotto di una identificazione (con le figure parentali), possiamo concludere che i 2/3 della nostra psiche lo siano. Certo Freud descrive casi di identificazione con soggetti singoli (la persona amata, i genitori), ma non succede la stessa cosa quando ci identifichiamo con un gruppo? Anche in qs caso non si tratta di fare nostri determinati caratteri e comportamenti? Credo che queste identificazioni successive non vadano interpretate come meri accidenti di cui la ns vera identità cade vittima, ma come eventi attraverso i quali essa si costituisce.

Naturalmente alla luce di una concezione simile non ha più senso parlare di “quel quid che sta sotto il mio Io e mi rende me stesso” (Ceravolo), né di cercare nell’identità “radici” che addirittura permettano di superare «ogni realtà particolare e di comprendere in se stessa la totalità del reale» (E. Severino; benché radicata in una lunga tradizione, questa frase non suona oggi al tempo stesso roboante e ridicola?). Ma è ancora del tutto possibile concordare con Claudio Ceravolo nell’intendere la nostra identità come narrazione. Non potrebbe infatti trattarsi della sistemazione in un racconto – vale a dire in una successione che soddisfi determinati requisiti di coerenza, sensatezza, sviluppo – delle diverse identificazione di cui ancora resta traccia in ciò che noi siamo? Delle molteplici identità che ci succede di calzare nei diversi contesti della nostra vita (lavoro, famiglia, politica, tempo libero)? Ma anche qui vorrei sottolineare due punti.

Se l’identità è questione di narrazione, non può trattarsi di un racconto che noi prima facciamo a noi stessi e soltanto successivamente agli altri, ma di un racconto che viene costruito in una dimensione intersoggettiva e di cui noi non siamo gli artefici esclusivi: sono gli altri a dirci chi siamo, almeno quanto lo siamo noi stessi. Se non teniamo fermo qs punto, non soltanto va perso qualsiasi riferimento alla costituzione intersoggettiva della nostra identità (la tesi di Mead), ma le stesse suggestioni di Pirandello, che pure troviamo tutti estremamente pertinenti, sono dimenticate.

Pertanto non mi sembra in alcun modo convincente interpretare l’identità come un racconto che emerga a fatica da una irriducibile dimensione soggettiva (mi riferisco al passo di Claudio Ceravolo in cui viene citato il saggio di Nagel). D’altra parte trovo qs affermazione in contraddizione con la tesi che l‘identità sia narrazione. È Ceravolo stesso a sottolineare che «se l’identità si costruisce come narrazione, allora il linguaggio è il solo strumento utilizzabile per questa narrazione». Ma nessun linguaggio privato è possibile, ogni linguaggio ha una dimensione pubblica: dire (o esprimere) qualcosa significa sradicarlo dalla dimensione soggettiva e collocarlo nella luce di una nuova dimensione. Pertanto, se l’identità è narrazione l’identità è fin dal suo sorgere collocata in una dimensione intersoggettiva. Anche su questo punto mi sembra che Freud offra un suggerimento prezioso. Dopo avere scritto L’interpretazione dei sogni, a chi gli obiettava la non osservabilità del sogno (chi è in grado di accedere a quell’oggetto particolare che è l’esperienza onirica del paziente?) Freud rispose che si poteva risolvere il problema decidendo di considerare come sogno “il racconto del sogno”, vale a dire le parole del paziente. Con questo “gesto audace”, scrive Mario Lavagetto, Freud «ha messo definitivamente al bando l' introspezione collocando la verità fuori dalla sua portata: la conoscenza di sé si ottiene solo quando la parola viene metabolizzata e ricostruita attraverso la presenza di un altro che ascolta, osserva, interpreta, costruisce, si incunea al suo interno, nel cuore del "romanzo analitico", man mano che, di seduta in seduta, viene lentamente costituendosi» [ho ricavato tanto l’informazione che la citazione da un articolo del Sole 24 ore, 07/11/99, dal titolo “Il sogno che segnò il secolo”]. In modo analogo, possiamo sostenere che la nostra esperienza soggettiva può confluire nella nostra identità soltanto nella misura in cui si rende “oggettiva”, trasformandosi in parola detta ed ascoltata da un altro, che – qs può sembrare assurdo, ma mi sembra il cuore della questione – è altrettanto rilevante nel costituire la nostra identità quanto lo siamo noi stessi.

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