Se Marx fosse stato presente all’ultima serata del Caffé Filosofico, si sarebbe chiesto il motivo della vaga perplessità manifestata da taluni nei confronti della pertinenza degli argomenti trattati con la Filosofia. Forse non gli sarebbe dispiaciuto non essere annoverato tra i filosofi di professione, dal momento che troppo spesso questi ultimi si distinguevano, ai suoi occhi, solo per l’eterea speculazione volta ad interpretare il mondo ma non a cambiarlo. La filosofia, piuttosto, doveva cominciare a porsi altri compiti, molto più concreti. Al di là della battuta, ampi spunti per la riflessione ci sono ed infatti se ne sono trovati. Uno di questi riguarda la relazione tra qualità e verità. Di che natura sarebbe questo rapporto, ammesso che ce ne sia uno? Dal mio punto di vista, non ci sono particolari enigmi: trattasi di una concezione strumentale della verità. Il relatore stesso ha sottolineato che non avrebbe senso mettere in relazione la qualità di un prodotto con una concezione “assoluta” di Verità con la V maiuscola, come se si trattasse di una questione logica o di mera corrispondenza con i fatti (da questo punto di vista, forse, il tema ha una connessione col relativismo). Sia che si tratti di definire la qualità di un prodotto o di un servizio in termini di efficienza misurabile, di funzionalità, piuttosto che di praticità d’uso, o anche focalizzandosi su un concetto appena più generico come quello di customer satisfaction, trattasi di regolare la nozione di qualità sul grado di raggiungimento di un obiettivo pragmatico. Anche nei casi delle imprese che si dedicano agli aspetti vicini alle dimensioni più emotivamente cariche del vivere, come il benessere della persona, la comunicazione, la diminuzione della fatica o altro, ciò non sta a significare che la missione dell’azienda sia quella di rendere felici le persone, nel senso più lato. La banale constatazione che i primari obiettivi (non gli unici) che le aziende devono porsi sono la massimizzazione del profitto e la minimizzazione dei rischi resta per qualcuno un rospo difficile da ingoiare. E questo perché restano apparentemente fuori da questa cornice tutte le implicazioni di carattere etico. Ciò genera, ancora oggi, un vago sospetto se non un’aperta opposizione nei confronti del capitalismo tout court in determinate correnti di pensiero orfane del gigante di Treviri che una battuta famosa vuole ormai morto. Forse ho anticipato un po’ i tempi del mio discorso: facciamo una piccolo passo indietro.
La riflessione più lunga e articolata ascoltata durante l’ultimo dibattito si è mossa entro le direttrici di una attuale critica della forma iperliberista di capitalismo che investe l’economia globalizzata, contro cui si scaglia con violenza non solo verbale una ben nota galassia di movimenti transnazionali che fa di No logo il suo libro sacro. Forse quella critica non voleva avere nulla a che fare con questo, almeno intenzionalmente, e magari non passava nemmeno per la testa di chi parlava. Tuttavia, la denuncia di un certo deficit etico di chi fa impresa nei confronti della società di cui fa parte, fino ad arrivare all’umanità intera, era evidente; e su questa linea, a quanto pare, i criminali peggiori di oggi restano le odiose multinazionali che devastano il pianeta, con la loro massa serva di nuovi alienati. Non ho difficoltà a riconoscere la validità di una certa parte di queste istanze (mai sfociando nell’ideologia, sia chiaro: ho volutamente usato termini un po’ iperbolici per rimarcare la distanza che mantengo da certe posizioni); volendo fare un esempio banale, se fra pochi anni le auto a idrogeno cominciassero ad essere commercializzate, prenderei in seria considerazione l’ipotesi di acquistarne una non appena avessi bisogno di sostituire il mio dinosauro con i pistoni. Ciononostante, il mio giudizio complessivo su ciò che le aziende devono fare, secondo quanto è nella loro ragion d’essere, non sterza. E cercherò di spiegare il perché.
Sembra che, tutto sommato, il libero mercato concorrenziale incentrato sulla proprietà privata resti l’unica soluzione per la produzione materiale di quei beni e servizi che servono all’umanità per sopravvivere. “Unica soluzione” è da intendersi qui come soluzione conosciuta fino ad oggi, quella che non ha rivali in grado di soppiantarla come mezzo più razionale per raggiungere lo scopo – quello della produzione e del commercio su larga scala. La battuta simpaticamente provocatoria fattami da Piero Carelli durante il dibattito – un momento, l’Unione Sovietica… - resta quella che è: una battuta. Proprio le drammatiche condizioni di vita dei lavoratori inglesi avevano colpito talmente Marx da indurlo a pensare ad un’alternativa. Sappiamo tutti quale epilogo quell’alternativa ha visto, divorata dalle insostenibili contraddizioni interne – lasciamo pure perdere gli esiti totalitari che fatalmente produsse, che sono però la conseguenza largamente peggiore – contraddizioni che imprudentemente il marxismo crede di rilevare nel capitalismo. La proprietà privata dei mezzi di produzione, guidata nei suoi scopi dai bisogni del consumatore, resta l’unico modo razionale per organizzare l’economia, nonché per generare prezzi che non siano fittizi (Ludwig von Mises). Detto questo, è ovvio che ciò non sta a significare che tutto del capitalismo è bello e buono, che arrivano le magnifiche sorti e progressive. L’iniziativa privata, per non generare squilibri, deve essere regolata, ed è infatti quello che i moderni paesi capitalisti cercano di fare tramite istituzioni interventiste (nei confronti dell’economia) volte a garantire equa concorrenza. Negli ultimi tempi – ecco il rinvigorirsi dei modesti epigoni di Marx – questo impianto è messo alla prova proprio dal fenomeno della globalizzazione, che estende fortemente il sistema capitalistico oltre le frontiere della singola nazione, dàndo alle aziende un potere che non dovrebbero avere laddove vigono ordinamenti spesso molto diversi rispetto ai luoghi d’origine, scardinando potenzialmente i controlli di cui sopra si diceva. Orrore! La Nike si disinteressa se a cucire le scarpe sono persone sottopagate e senza diritti in paesi poveri e dittatoriali.
Mi pare quasi banale sottolineare, arrivati a questo punto, che non è il capitalismo di per sé ad essere cattivo. Il problema di cui sopra è più politico che economico, dal momento che la Cina – per fare l’esempio paradigmatico – integra nella crescita del suo capitalismo selvaggio il lavoro schiavo a costo zero della popolazione dei laogai, luoghi dove vengono internati a milioni i dissidenti e i presunti alienati mentali. Non posso evitare una punta di polemica richiamando al fatto che i movimenti dell’avanguardia morale anticapitalistica non fanno cenno a barbarie di questo genere.
Le obiezioni anticapitalistiche, in ultima analisi, si riducono sempre a denunce di carattere morale, una parte delle quali assolutamente condivisibili. Il “problema”, qui, è che non esiste un’alternativa credibile al capitalismo medesimo, inteso nelle sue forme migliori e più rispettose. E se elemento essenziale del capitalismo è l’impresa privata che deve fare profitti – e se non fa profitti, chiude e addio anche a quel poco di buono che da essa poteva provenire, alimenti e medicine, non solo carri armati - , è chiaro che l’azienda deve ottimizzarsi per produrre nel modo più razionale ed efficiente possibile, cioè abbattendo i costi, massimizzando il profitto e minimizzando il rischio, cercando di offrire prodotti di qualità e non ciarpame. L’iniziativa del privato, intrapresa per un vantaggio individuale, si riverbera però sulla comunità come una sorta di vantaggio collettivo “inintenzionale”: l’interesse del singolo diventa l’interesse degli altri, dal momento che gli altri – i consumatori con le loro esigenze – sono il faro per il singolo che produce. Su quest’ultimo punto l’obiezione tipica è che spesso, ad opera delle solite multinazionali, lungi dall’essere i veri agenti del cambiamento delle aziende il gusto e le esigenze dei consumatori finiscono per essere imposti in modo più o meno subdolo. Ma questa è l’eccezione, non la regola; ed anche se fosse in parte vero, si tratta al massimo di forte persuasione, non di vera imposizione. Se si depennasse dalla motivazione intrinseca all’iniziativa economica la spinta all’arricchimento personale, verrebbe a mancare la forza propulsiva primaria. Si profilerebbe, come unica soluzione, la proprietà “comune” (eufemismo per significare la proprietà di un’oligarchia al potere) dei mezzi produttivi… una storia già vista che (spero) non si dovrebbe ripetere. Se in un sistema capitalistico i lavoratori devono comunque lottare per vedere riconosciuti i propri diritti, laddove la proprietà privata è considerata un sopruso i lavoratori si riducono ad una massa spersonalizzata in balìa di chi la proprietà detiene. E con quella espropriazione se ne vanno anche i diritti di cui si parlava, delegati totalmente a chi si pretende garante della moralità equidistributiva. Capisco che tutto ciò suona forse cinico e asfittico, ma compito dell’uomo è quello di risolvere i problemi, ivi comprese le storture dell’economia, non quello di sovvertire l’ordine costituito perché ritenuto genericamente immorale sulla base di motivazioni squisitamente (o largamente) ideologiche. Molte grandi aziende, tipicamente del settore della produzione, impiego e distribuzione dell’energia, sono ritenute responsabili del degrado ambientale. Se si osserva questo dato in una prospettiva storicamente ampia non può essere affermato né che il problema venga completamente ignorato, né che non si siano presi provvedimenti; molto è stato fatto, molto resta da fare. Se l’uomo è un essere minimamente razionale, in un futuro non troppo remoto nessuno si sposterà più bruciando idrocarburi, e la produzione non scaricherà più tonnellate di CO2 in atmosfera; queste, semplicemente, sono state le prime soluzioni trovate dall’uomo per soddisfare le necessità energetiche. Verranno soppiantate quando le nuove tecnologie diverranno sufficientemente sicure ed economicamente convenienti su larga scala (né l’una né l’altra cosa, tra l’altro, sono già vere per quanto riguarda una futura economia all’idrogeno, mi pare di poter dire). Talune voci giurano che è già troppo tardi per evitare una catastrofe ambientale globale, ma non presterei troppa fede ai catastrofisti. Altri potranno pensare che dietro esistano chissà quali complotti contro l’interesse dell’umanità architettati dagli sporchi colossi del petrolio; io preferisco evitare scorciatoie intellettuali di questo tipo che sollevano le menti dall’esercizio della ragione per risolvere i problemi (atteggiamenti, questi, che devono molto proprio al volgar-marxismo). In fondo, l’economia del libero mercato non è altro che un modo per dire: io so fare questo; se lo ritieni una buona cosa, puoi averla pagando il suo prezzo, altrimenti puoi rivolgerti ad altri. Tutte le alternative a questo suonano piuttosto come io faccio tutto, la sua qualità non ha incentivi a migliorare, il prezzo è questo, tu non puoi farlo, prendere o lasciare. Non credo che la scelta sia così difficile, anche se nessun vuol far credere che non resta alcun problema da affrontare dopo averla effettuata.
LA FILOSOFIA DELLA QUALITA’ NELLA PRODUZIONE INDUSTRIALE - RELATORE: ALDO ROCCA
Nell’ultimo cinquantennio il mondo della produzione di beni, ha progressivamente accettato la definizione della qualità legata alla percezione del cliente e non più come caratteristica intrinseca del prodotto.
Ed è in questa direzione, di conseguenza, che si è andata adeguando tutta l’organizzazione produttiva.
Accettata l’idea che ogni cliente ha esigenze diverse e ciò che va bene oggi può andare male domani, ne consegue la necessità di un continuo miglioramento a tutti i livelli, nonché l’urgenza di formare le persone a confrontare la propria idea con quelle degli altri cercando insieme la migliore.
L’interesse al problema è legato non soltanto alla consapevolezza che la qualità può aiutare a incrementare il mercato, ma anche dalla convinzione che la qualità alla lunga non è un costo, ma un guadagno.
Aldo Rocca: Dopo la laurea in ingegneria elettrotecnica presso il Politecnico di Torino è stato alle dipendenze della FIAT a Torino e della OLIVETTI ad Ivrea e a Crema. Ha partecipato a corsi di specializzazione per la Qualità tenuti dagli americani Juran e Crosby. Dal 1985 ha iniziato attività di consulenza ed ha operato presso alcune fra le principali aziende in Italia: Pirelli, Riello, Zanussi, Solvay, Danone, Himont ecc.
Comunicato-stampa
Col prossimo incontro del Caffè Filosofico ( 13 febbraio 2006 ) il Caffè Filosofico abbandona la trattazione diretta del tema del “relativismo”per avviare una riflessione su quelle che si potrebbero chiamare “le nuove filosofie” e che – d’altra parte - può essere considerata una prosecuzione logica dell’approfondimento sul relativismo.
Con questa espressione – nuove filosofie – ci si intende riferire alla volontà di analizzare in modo “globale” un particolare contesto del conoscere. “Dire tutto su qualcosa, scendere in profondità in ogni questione particolare, ricercare l’elemento unificante delle individualità, indicare l’essenza di una cosa….”: tanti modi per definire questo nuovo capitolo di indagine, di derivazione socratica, che apriamo nel nostro caffè filosofico e che si potrebbe anche indicare con l’espressione: “ filosofia e…….”.
L’approfondimento filosofico di determinati ambiti della conoscenza e della prassi dell’uomo non è cosa solo della modernità e tanto meno della contemporaneità, anche se l’ampliarsi del sapere e il moltiplicarsi delle scienze ha certo aumentato la necessità di riflessioni globali attorno ad aspetti conoscitivi sempre più specializzati.
Già agli albori della filosofia – come è noto- si sono avviate riflessioni complessive, ad esempio, sul “sacro” (la teologia), sulla “politica”, sull’arte, sull’”etica”…per citare solo le più note.
Oggi – senza aver la presunzione di aver completato l’analisi degli aspetti citati – forse le riflessioni particolari di natura filosofica sono anche altre: l’antropologia, la sociologia, la psicologia, l’ambiente…; fino a giungere ad analisi che parrebbero molto lontane dalla riflessione filosofica come “come il concetto di qualità nella produzione industriale“ (che per l’appunto costituirà il tema del nostro prossimo incontro – vedi locandina febbraio 2006).
Non sarà irrilevante far notare che relativamente da poco tempo si è affermata una nuova figura professionale, quella del “consulente filosofico”: anche su questo si cercherà prossimamente un approfondimento.
Se così stanno le cose, credo che non ci libereremo molto facilmente da questa tematica così ampia ed indubbiamente interessante.
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Dibattito
Data: 22.06.2013
Oggetto: Karl Marx non è morto
Data: 22.06.2013
Oggetto: Il concetto di qualità
Chiedo scusa ( gli devo, anzi, un ringraziamento ) a Luca Lunardi se approfitto del suo intervento (“ Karl Marx non è morto”) per riprendere qualche considerazione a proposito del Capitalismo e del motore che lo muove, la Tecnologia. Infatti l’idea di fondo è, oggi, appunto quella di considerare il Capitalismo come fine e la Tecnologia come mezzo. Sta di fatto che all’interno del pensiero occidentale, ogni implicazione causa-effetto è destinata a capovolgersi – come accade (e perché accade) ad altri rapporti di questo genere come Dio-Mondo, Assoluto-Relativo, Indiveniente –Divenire, ecc. Marx sostiene che non è dio che ha creato l’uomo, ma è l’uomo ad aver creato dio – e non fa che applicare ciò che teoreticamente si dice (nel modo più semplice possibile) quando si sostiene che l’indiveniente è posto per spiegare il divenire, o l’assoluto per spiegare il relativo, indicando una dipendenza che non può reggere dal punto di vista logico ( è infatti contraddittorio sostenere che l’assoluto è strumento per giustificare il relativo, nè l’indiveniente per il divenire…)
E così, nel nostro tempo, stiamo arrivando al momento storico in cui si rende sempre più chiaro il fatto che è il Capitalismo (mezzo) per la Tecnologia (fine) e non viceversa.
Tenendo presente questo (che meriterebbe ben altro approfondimento e ben altre prove), vorrei entrare nel merito del concetto “filosofico”di qualità dei prodotti industriali.
Quando un prodotto è “di qualità”? Indipendentemente dal tipo di prodotto e dalla valutazione soggettiva è certamente di qualità quando risponde alle finalità per cui è stato appunto prodotto; quando cioè esso è adeguato al fine (l’uso) per cui è stato fatto. Ma ci sono almeno due punti di vista al riguardo: quello del consumatore e quello del produttore. Ed entrambi meritevoli di attenzione essendo entrambi riferiti a quel soggetto che è l’uomo:“la misura” di tutte le cose. Quando né il produttore né il consumatore vengono “strumentalizzati”, ma entrambi vengono lasciati nella loro specifica posizione di soggetto, allora l’oggetto della produzione mantiene il suo ruolo specifico e quindi risponde al criterio “di qualità”. L’equilibrio fra l’interesse del produttore e quello del consumatore (il giusto mezzo) definisce nello specifico l’elemento di qualità: la virtù etica che caratterizza la prassi in Aristotele ( non quelle dianoetiche che, riguardando la logica, non possono che tendere in una sola direzione: il massimo di razionalità).
Detto questo, c’è ora ancora un elemento da chiarire: quello riferito alla produzione di tipo industriale.
La produzione industriale è caratterizzata dalla tecnologia, e risponde alla logica specifica di questa: annullare ogni residuo di tipo assoluto-metafisico, in coerenza (e non- come si potrebbe pensare- in dispregio) con la legge stessa della metafisica classica che è quella del “divenire” secondo cui tutto è destinato a passare, a finire. La produzione industriale, che è espressione della Tecnologia, si colloca quindi – per la radicalità con cui porta a compimento la distruzione di ogni assoluto - al termine del percorso logico-storico della metafisica classica, ponendo le premesse del suo superamento. La qualità della produzione industriale è indissolubilmente legata al concetto di evoluzione, di progresso, di cambiamento, di innovazione: è di qualità l’oggetto che corre rapidamente verso la sua obsolescenza per lasciare posto incessantemente alla novità: così parlò la metafisica! Dirò – per amore di paradosso, ma poi non tanto- che un prodotto industriale tecnologico è tanto più di qualità, in quanto invecchia presto; in quanto ha in sé tanta tecnologia da essere potenzialmente in grado di provocare rapida e profonda innovazione.
A questo punto è chiaro che se si avesse la forza logica di mettere in discussione l’a-priori della metafisica classica che è alla base della concezione pratico-tecnologica di oggi - il divenire come culla e tomba dell’essere – un a-priori che d’altra parte mostra invece di aver ancora molto da dire e da dare, (per cui alla forza logica non potrebbe in ogni caso oggi corrispondere ugual forza politica), - allora tutto ciò che accade si mostrerebbe in una (indicibile) nuova luce.
Data: 22.06.2013
Oggetto: A PROPOSITO DELLE “FILOSOFIE DELLA PRASSI”
(nota provocatoria per avviare una riflessione generale all’interno del nuovo argomento – filosofia e…- che abbiamo iniziato ad approfondire come Caffè filosofico; e per rilanciare così il confronto “scritto” che si è, mi pare, un poco affievolito.)
Alcuni ritengono che occuparsi di filosofia della prassi significhi abbandonare la filosofia teoretica. Non è vero. Anzi è vero esattamente il contrario: non si dà filosofia della prassi se non a partire dalla filosofia teoretica : come non è possibile definire un segmento se non a partire dalla retta. La prassi ( IL COMPORTAMENTO DELL’UOMO) infatti, non è altro che un segmento della totalità; una dimensione con un inizio ed una fine che non potrebbe essere individuata se non avendo presente “l’oltre”. Ma anche le scienze sono un segmento della più vasta conoscenza: in che cosa, allora, la filosofa della prassi si differenzia dal conoscere scientificamente? L’atteggiamento filosofico – anche in ambito pratico - deve comunque essere caratterizzato da definizioni valide per tutti e per sempre ( e quindi assolute, nel loro campo: devono godere cioè di una assolutezza “umana” – la teoreticità, invece, di una assolutezza “divina”), mentre le valutazioni scientifiche (per quanto possano essere –provvisoriamente-validate) hanno comunque un carattere di progressività e probabilistico che le espone alla obsolescenza.
Filosofia della prassi e conoscenza scientifica sono quindi due cose molto diverse.
Si fa filosofia della prassi quando – all’interno di un determinato ambito di conoscenza – si cerca di individuare “l’essenza, il concetto, la definizione ”che caratterizzi -tutte e per sempre- le cose che a quel determinato ambito appartengono ( e vi appartengono proprio perché rispondono a quel “concetto”).
Socraticamente, ed esemplificando: cosa sia “il sacro”, cosa “la virtù”, cosa “l’amore”, ecc.
In primo luogo, però, fare filosofia della prassi significa che gli oggetti specifici della riflessione devono anzitutto rispondere ai criteri determinati dalla riflessione teoretica: prima di rispondere, ad esempio, alla domanda “chi è l’uomo” (e qualsiasi altra cosa si voglia de-finire) devo aver presente la sua appartenenza alla dimensione più ampia – e totale- dell’essere, e ad essa coerentemente attenersi. (ogni conoscenza “fisica” poggia su una conoscenza “metafisica” esplicita o implicita.).
(nota) Ho citato “il divino, il sacro”: anche la religione, come la filosofia, intende avere una dimensione totale (oltre l’umano) del conoscere; in che cosa allora si differenzia? Qui la risposta è più semplice: la totalità di cui si occupa la filosofia si intende definita logicamente e razionalmente (di una logica e di una razionalità assolute),mentre la religione avanza le proprie credenze sulla base di una fede. Va da sé che la filosofia è logicamente prioritaria rispetto alla fede, potendo quest’ultima fare affermazioni di fede ( e quindi ipotetiche) solo nel rispetto degli elementi di razionalità assoluta.
Data: 22.06.2013
Oggetto: Quale qualità?
Risposta alla difesa della filosofia della prassi, pronunciata da Tiziano Guerini, il quale suppone che l’affievolirsi del confronto scritto sia determinato dall’implicito dissenso di chi giudica inopportuna la scelta del Caffè filosofico di occuparsene.
L’ultimo incontro del Caffè filosofico (13 febbraio 2006) è stato dedicato a “Filosofia della qualità nella produzione industriale”. Ammesso e non concesso che la parola filosofia significhi qui qualcosa di più e di diverso da ciò che si intende comunemente nelle espressioni “prendere la vita con filosofia”, o “la mia filosofia di vita”, ossia un modo di vedere le cose che trascende la banalità dei gesti quotidiani, ed è per lo più improntato a serenità e coerenza – ma anche, in un certo contesto e paradossalmente, a superficialità -, ciò che mi ha dissuaso dal partecipare alla serata è, lo confesso, la qualità.
Che la produzione industriale debba essere di qualità, è fin troppo ovvio.
Ma da una decina d’anni la qualità è entrata nella scuola, e non so se questo sia bene.
Mi spiego: non che qualcuno possa avere dei dubbi sull’opportunità di avere un sistema scolastico efficiente ed efficace, o in altri termini una scuola di qualità. Ma è il significato che si dà alla qualità a farne spesso un’arma spuntata, per lo meno nella scuola. E’ quello che vorrei dimostrare.
Fin dal 1996 il preside Giuseppe Strada, attento alle innovazioni per convinzione e manager per natura, pubblicava un testo dal titolo significativo Ma la scuola è un’azienda? Con forte anticipo sulle altre, la sua scuola avviava il processo della Qualità Totale, con il supporto della società leader del settore in Italia, e auspicava l’avvento di criteri oggettivi di valutazione nell’ambito delicato della didattica. Da quel momento, fu tutto un fiorire di Carte dei servizi, Progetti educativi di istituto, Piani dell’offerta formativa, e via dicendo.
Si tratta però di capire se la logica della qualità abbia contribuito a migliorare l’istruzione e l’educazione dei ragazzi, e perché no, il lavoro degli insegnanti.
Proverò ad accogliere l’invito di Guerini a prendere in considerazione la filosofia della prassi, e dato che, com’egli afferma, “si fa filosofia della prassi quando – all’interno di un determinato ambito di conoscenza – si cerca di individuare ‘l’essenza, il concetto, la definizione’ che caratterizzi - tutte e per sempre - le cose che a quel determinato ambito appartengono (e vi appartengono proprio perché rispondono a quel ‘concetto’)”, mi porrò la domanda socratica: “che cos’è un bravo insegnante?”. In via di prima approssimazione, dirò che un bravo insegnante è colui che fa il proprio dovere di insegnare. Troppo generico? Va bene: allora dirò che è chi dimostra competenza sia nelle discipline che deve insegnare, sia nella comunicazione di tali discipline, favorendo una crescita degli alunni sul piano dell’istruzione e dell’educazione. Ancora troppo generico? Preciserò allora il concetto, aggiungendo progressivamente che un bravo insegnante deve possedere quella che Gardner chiama “intelligenza interpersonale”, deve saper motivare gli alunni ad apprendere, valorizzare le differenti personalità e i molteplici stili cognitivi, deve essere in grado di programmare il lavoro, valutare, aggiornarsi e imparare a sua volta. Darò invece per scontato e sottinteso il fatto che rispetti la normativa, legga e osservi le circolari, compili correttamente il registro, arrivi puntuale alle lezioni ed esegua una serie di operazioni tese a documentare il lavoro che svolge. Insomma: le caratteristiche che dovrebbe possedere un bravo insegnante dovrebbero farne un esperto sì di tecniche didattiche, ma anche una persona sensibile a tutto ciò che fa parte del mondo dei giovani, con molta voglia di ascoltarli e di parlare con loro.
Ebbene: la logica della qualità, sminuzzando il lavoro dell’insegnante in protocolli meticolosi e fastidiosamente analitici, insiste invece piuttosto sulle procedure che tendono a rendere fungibili sia le operazioni che le persone.
Che cosa si intende infatti per logica della qualità nella scuola? Fondamentalmente, il rispetto delle procedure, il monitoraggio delle attività e la valutazione dell’efficacia dei risultati.
Tutto ciò, attraverso l’individuazione di alcuni indicatori osservabili e misurabili.
Per chiarire ciò che sto dicendo, supponiamo che io debba presentare un progetto di “Educazione alla legalità”. Se l’antica pedagogia protonovecentesca, trovandosi a illustrare gli obiettivi formativi di una simile attività, dichiarerebbe di voler sviluppare sensibilità verso il tema della giustizia, rispetto per le leggi e coscienza critica contro il sistema perverso delle collusioni mafia-politica, la logica della qualità elencherebbe alcuni comportamenti desiderabili che si intendono attivare negli studenti, del tipo:
non ruba
non guida il motorino senza casco
non pretende denaro dai compagni in cambio di favori
non compra un motorino rubato…
o, meglio, da quando si è capito che è meglio indicare comportamenti rinforzabili, anziché proibire comportamenti da estinguere:
rispetta le strutture e l’arredo scolastico
si comporta correttamente con compagni, docenti e personale non docente
si veste convenientemente in funzione dell’ambiente scolastico
è disponibile con ogni tipo di compagno “diverso”
accetta le valutazioni espresse su di lui dall’insegnante, senza forargli i copertoni…
Ciascuno di tali indicatori andrebbe poi ulteriormente scomposto in comportamenti osservabili e misurabili, fino a che ci si chiederà se si stia parlando di esseri umani o di automi.
Un altro esempio: supponiamo che in una scuola sia attivo un servizio di assistenza psicologica per gli studenti. Come ne verrà valutata l’efficacia secondo la cosiddetta qualità? Si chiederà agli studenti che si sono rivolti allo psicologo se hanno avuto ascolto, se per lo meno sono riusciti a chiarirsi le idee, parlando dei propri problemi? No: si conterà il numero degli studenti che in un anno si sono rivolti allo psicologo. E poi? come si interpreterà questo numero, che di per sé, come tutti i numeri, non esprime nulla? Si dirà forse che se il numero è basso, e dunque è bassa la percentuale rispetto al totale degli iscritti, significa che magari gli studenti di quella scuola vivono serenamente la propria vita? No: si dirà che il servizio non funziona e va potenziato, perché è tanto più “di qualità” quanto maggiore è il numero dei ragazzi che in un anno ne usufruiscono.
Sorge allora il dubbio che nella scuola il sistema qualità altro non sia che un sistema di quantità camuffata (forse neppure troppo camuffata). Tale sistema si fonda sulla pretesa che la scuola sia un’azienda come le altre, o poco diversa dalle altre, in cui tutto è calcolato sul bilancio costi – benefici, l’educazione è degradata a merce di scarso valore, gli studenti sono considerati alla stregua di prodotti da esibire, se ben confezionati, da scartare, se difettosi (proprio così: in uno dei tanti corsi di aggiornamento sulla qualità, ho sentito definire uno studente bocciato come un prodotto non conforme…). La teoria di riferimento è il Comportamentismo psicologico, con il suo corteo di applicazioni didattiche dell’istruzione programmata, del Mastery learning e di ogni sorta di meccanicismo pedagogico.
Ma non basta: ciò che più preoccupa è che applicando senza eccezioni la qualità, come fanno non gli insegnanti, ma alcuni zelanti ispettori incaricati di verificare che la scuola, una volta ottenuto l’ambito bollino blu, continui a rispettare le procedure, si finisce col perdere di vista la sostanza (=l’istruzione e l’educazione dei ragazzi), a favore di una forma ipostatizzata. Così un insegnante potrebbe apparire un bravo insegnante anche se non ha insegnato niente, a condizione che dichiari per iscritto di avere fatto tutto ciò che avrebbe dovuto fare: ad esempio se ha steso una bella programmazione (bella perché ordinata, al computer, conforme al modello prescritto), se ha compilato il registro in ogni sua parte, se ha un “congruo” numero di valutazioni, dove per congruo si intende un numero fisso stabilito nelle riunioni per materie e poi ratificato dai documenti della scuola, non un numero adeguato alle necessità di una classe specifica o, meglio ancora, ad ogni singolo alunno.
Ma tutti sanno che un bravo insegnante non è, non può essere questo. Un bravo insegnante – per fortuna i miei insegnanti erano di questo tipo – è quello che sa inventarsi di giorno in giorno strumenti sempre nuovi per affrontare e possibilmente risolvere problemi sempre diversi. Uno che possiede una buona dose di intuito, di fantasia pedagogica, di passione, e soprattutto possiede quella dote che i greci chiamavano metis, e che come molti termini greci ha sia un significato positivo (prudenza, saggezza), che negativo (scaltrezza, macchinazione). Dipende da come viene usata: è una questione di filosofia della prassi.
Conclusione: il bravo insegnante secondo la logica della qualità è un perfetto burattino capace di eseguire mosse sempre uguali, che probabilmente pretenderà lo stesso dagli studenti, un omologato omologatore.
Ho esagerato? Quanno ce vò, ce vò.
Data: 22.06.2013
Oggetto: Intervento
Non so se intervengo a sproposito, ma vista la riflessione di T. Guerini mi permetto un contributo sul tema della qualità e del suo rapporto con la “metafisica”.
La metodologia produttiva della qualità è caratterizzata dal ciclo Plan-Do-Check-Act, dalla ricerca del miglioramento continuo, dall'enfasi sull'efficacia e sulla customer's satisfaction e dalla azione sistematica di analisi interne.
Per chi conosca la struttura della norma ISO 9001:2000 e collegate (comprese le certificazioni ambientali ed etiche), è chiaro che alcuni aspetti applicativi (proceduralizzazione dell'attività o del servizio, lettura del sistema come interrelazione di processi, cicli interni di accounting) sono tratti di un'ingegneria gestionale che metabolizza le regole metodologiche standard della ricerca scientifica, da Cartesio (elenchi, strutture di controllo, regola dell'induzione o enumerazione) a Bacone (mai pensato a controllare la corrispondenza tra le diagrammazioni di Ishikawa e le instantiae/tabulae baconiane), da Mill a Pareto etc.; ma è anche chiaro che l'imprenditorialità classica del capitalismo non ragiona in termini di quality assurance (modello gestionale tipico del capitalismo trustificato, per dirla con Schumpeter, del capitalismo dotato di una struttura burocratico-organizzativa specifica), bensì nei termini che abbiamo anche di recente potuto constatare nell'epoca delle start-up rampanti delle tecnologia informatiche e dei servizi multimediali, cioè attraverso una mentalità parallela ma distinta dalla scienza. È la mentalità dell'innovazione rischiosa, della congettura non suffragata da un preliminare percorso di ricerca, dell'inserimento avventato e temerario della propria offerta in scenari troppo caotici per poter essere analizzati.
La qualità indica piuttosto, dal punto di vista storico, la fine del capitalismo creativo e rampante (non che sia da rimpiangere!) e l'avvento della riflessione della stessa imprenditoria capitalistica sulla riduzione delle esternalità (svantaggi prodotti indirettamente ai consumatori dalle forme della produzione, come l'inquinamento), sulla relazione tra le norme di legge cogenti (che ogni norma di qualità presuppone) e l'intrapresa, sulla capacità del sistema produttivo e distributivo di creare un feedback dell'utente che non sia soltanto di gradimento ma riesca anche a coinvolgere tutti i dententori di interessi (stakeholders).
Questo modello partecipativo rischia di essere oligarchico se il feedback degli stakeholders è formale o disinteressato; deve e può essere democratico e venire giocato a tutti i livelli, dall'interazione dei consumatori con i produttori e i fornitori di servizi alla determinazione politica delle regole, per permettere al “capitalismo” di implementare fino in fondo la “tecnologia”.
La qualità non è allora altro che un passo verso il concetto della sostenibilità dell'interazione tecnologica tra specie e ambiente. La sua logica deve estendersi alla progettazione politica (di ciò è già testimonianza Agenda 21) e il concetto ad esso sotteso della responsabilità di progettazione e risultato deve diventare cultura professionale di tutti.
Ma per realizzare tutto questo occorre dare davvero, anche nel nostro paese, una chance alla democrazia. Il concetto di responsabilizzazione diffusa, di coinvolgimento attivo del lavoratore, di riconoscimento motivato delle strategie inadeguate e di loro ridiscussione pubblica con le maestranze, etc., sono tutti elementi caratteristici del sistema qualità, ma solo limitatamente presenti nella storia del lavoro nel nostro paese. La democraticizzazione del lavoro implicita nella logica della qualità tende a trasformare ogni operatore in un soggetto contemporaneamente esecutore e controllore, esecutore e critico, e implica enfasi sulla formazione, trasparenza, documentazione, misurabilità, valutazione in base ai risultati
Concludendo mi sembra essenziale diffondere la filosofia della qualità anche nell'ottica di una promozione della coscienza civica e della cultura dell'efficientazione. Non perché si voglia indulgere al toyotismo come ideologia, né perché attraverso questa via obliqua si vogliano obliterare le ragioni del conflitto sul lavoro che sono sempre vitali e non possono venire mai soffocate da alcun sistema gestionale, bensì perché proprio mediante la partecipazione attiva dei professionisti e degli operatori si possono documentare, a tutti i livelli, quei punti morti e quelle incertezze dei processi di utilizzo, trasformazione e distribuzione che sono sempre collegati anche alle ingiustizie nella distribuzione delle responsabilità, del reddito e delle risorse.