Un approccio filosofico ai sentimenti, se vuole rendersi autonomo dalla psicologia, dovrebbe tuttavia evitare di svuotare l’oggetto della sua analisi facendolo diventare un calderone di tutte le buone e desiderabili virtù umane, per assecondare un obiettivo apologetico e troppo autobiografico. E’ evidente che il Prof. Demetrio, timido dichiarato, ha indagato il fenomeno della timidezza probabilmente per esorcizzare anche la propria, memore che la sensibilità dei grandi uomini costituisce un accesso privilegiato alla conoscenza. Se Leopardi o Montaigne, Descartes o Nietzsche non avessero rovistato nel proprio animo, oggi forse avremmo meno consapevolezza dei recessi dell’animo dell’uomo in generale. La più importante conclusione tratta dal professore, a mio modo di vedere, è tuttavia appannaggio di una disciplina “speciale” come la psicologia, più che di un sapere trasversale e difficilmente definibile come la filosofia, storicamente erosa, peraltro, proprio dall’avvento di tutta una serie di scienze particolari che hanno dimostrato efficacia ben maggiore. Mi riferisco alla scoperta che la timidezza è, in fondo, una forma disperata di ricerca dell’empatia con l’altro, una sorta di nostalgia di una ancestrale e mai posseduta visione diretta dell’animo del prossimo, permeata da una sensazione di deficit affettivo permanente. Non già di una effettiva mancanza d’amore, si badi: è sufficiente sentirsi affettivamente inappagati, anche se a torto, per scivolare verso l’assunzione di un “modo d’essere timido” che finisce per diventare il tratto fondamentale del soggetto. Il timido è, in sostanza, una persona estremamente sensibile, che amplifica le sensazioni spirituali, condannandosi ad un continuo processo di avvicinamento ad una vita sociale che lo fa sentire inadeguato perché pensa di non potersi sintonizzare a pieno con l’animo altrui, sentendosi fragile ed impreparato. Risultato, il timido vive spesso male o, se reagisce, lo fa altrettanto spesso con armi inadeguate che gli si ritorcono contro – classiche le maschere che indossano i timidi per farsi forza, ivi compresi atteggiamenti che sembrano arroganti e scostanti. Di male in peggio. Io vorrei qui procedere ad una decostruzione della timidezza che, se ne lascia inalterati gli aspetti positivi – meglio un timido di un arrogante, ovviamente, e meglio l’ipersensibilità della malvagità – mira tuttavia a smontare, in parte, il mito ben esposto durante l’ultima serata. Chiediamo ad un vero timido se desidera rimanere tale, magari per sentirsi dire quanto è buono e sensibile. La risposta sarebbe un secco no. Il timido - gridiamolo! – soffre moltissimo, maledice la propria stramaledetta ipersensibilità, e vorrebbe disfarsene come di un fazzoletto vecchio; farebbe carte false per essere solo un tantino più cinico e muoversi nel mondo con più scioltezza. Dopo lunghi ed estenuanti esercizi psicologici a cui il timido si costringe per dominare il senso di inadeguatezza, emerge progressivamente, nei casi fortunati, una personalità che ha trovato dei buoni compromessi per vivere una relazione più o meno normale con gli altri; al contempo, però, diventano più chiari i moventi degli atteggiamenti del passato. Questi moventi, ad un tratto, potrebbero apparire meno nobili di quanto poteva sembrare in origine. Seguono alcuni esempi. Il discorso sulla timidezza è scivolato su quello della pratica della scrittura. Questo non è del tutto fuori luogo, ma non credo proprio che per un timido scrivere sia la via d’uscita, anzi: ne accentua le chiusure e ne potenzia l’autoindulgenza, per ripiegarsi in un mondo interiore che lo protegge dai pericoli costituiti dal confronto aperto con l’altro. Non nego affatto che un diario, o comunque uno sfogo scritturale praticato in momenti particolari della vita possa rappresentare un momentaneo aiuto ed un modo valido per far luce dentro se stessi; non deve diventare un alibi, l’ennesimo guscio autoreferente nel quale sguazzare compiacendosi della propria incompresa nobiltà d’animo, diventando incapaci di comunicare. Nessun timido lo è al punto da negarsi per sempre qualunque opportunità di legarsi ad un’altra persona, a meno che non intervengano fattori davvero patologici, ed allora i filosofi stiano zitti, perché non è materia loro – scrittura e “modi d’essere” non c’entrano, meglio dar la parola alla scienza. Ecco allora che, scrivendo, si potrebbe innestare un processo che anziché rappresentare una liberazione catartica resta solo una via di fuga per procrastinare la soluzione. Dietro un timido può nascondersi un narcisista? Qualcuno ha detto, opportunamente, che il timido non ha tanto paura del giudizio degli altri, quanto del potenziale effetto distruttivo che tale giudizio potrebbe avere sul suo amor proprio. Io non temo te come persona; temo la possibilità che, conoscendoti, io possa scontrarmi con i miei limiti e la mia insicurezza, cosa che mi provocherebbe tristezza e ulteriore calo dell’autostima. Questo quadro, se contenesse qualche dose di verità, sarebbe a mio parere molto meno edificante dell’apologia del timido fatta da Demetrio. Non si tratterebbe di esaltarne umiltà, disponibilità all’ascolto e buone maniere – cose che solo estrinsecamente fanno parte della definizione di “timidezza” – ma di indagare un’altra forma di autocompiacimento. In altre parole, non si tratterebbe di una sincera ammirazione o timore dell’altro, ma di un mancato raggiungimento di conferme personali. Dietro un timido può nascondersi un egocentrico? Un timido è un insicuro. Questa è la vera matrice della timidezza. Insicuri, a mio modo di vedere, si diventa – anche se in tenera età – e ciò che accade dopo sviluppa una serie di conseguenze e di contromisure più o meno coscienti che producono lo stereotipo del timido che tutti conosciamo, fatto di grandezze e di miserie, senza che si debba invariabilmente procedere alla sua immediata santificazione. I filosofi, poi, prendono la timidezza e la trasformano in qualcosa di diverso, per nutrire il proprio bisogno di razionalizzazione e per appiccicarle addosso qualche etichetta filosoficamente congruente, come dialogo, ascolto, scrittura, sensibilità, amore. La timidezza è una sovrastruttura che accidentalmente mostra tendenze che un filosofo può certamente apprezzare, ma non si dovrebbe esaltare la timidezza in quanto tale. Demetrio direbbe forse che sono un arrogante che parla senza conoscere quanto c’è dietro la sua ricerca… può essere. Ma contrapporre la timidezza all’arroganza mi pare un’operazione abbastanza infondata; vedo meglio l’umiltà, che è un’altra cosa (il timido potrebbe essere un tipo molto poco umile, in realtà). Mi concedo l’unico cenno autobiografico in chiusura: pochi crederebbero che sono stato io stesso un timido persistente, con tutti i tipici sintomi interiori ed esteriori della “malattia”, e quanto sopra è in buona parte un’autoaccusa; non pretende certo di essere generalizzabile, ma un ricercatore del sentimento timido dovrebbe forse rifletterci per un minuto, per verificare se è oro tutto quello che luccica e per evitare di prendere lucciole per lanterne.
LA VITA SCHIVA. CONVERSAZIONI SULLA TIMIDEZZA - RELATORE: DUCCIO DEMETRIO
L’esser timidi, l’assumere un contegno schivo, riservato, parco di parole, nelle circostanze della vita (fin dall’infanzia e a scuola) non da oggi, è ritenuto uno svantaggio. Una vera disgrazia. Per gli estroversi, i disinvolti, la timidezza è una malattia. Padri e madri sono preoccupati quando osservano questi comportamenti nei figli. Non capiscono che al di là di qualche problema psicologico che può essere risolto con comprensione e affetto, la timidezza è una vocazione verso qualità personali e morali importanti. Tutte da valorizzare piuttosto. Il piacere di starsene da soli, la tendenza alla riflessione, l’amore per la bellezza e la mancanza di aggressività. I timidi sono dei camminatori solitari. Poichè in prima persona hanno provato che significa essere emarginati, verso gli altri si dimostrano più solidali e generosi. La timidezza, pertanto, non va confusa con la pusillanimità, con il fuggire gli obblighi sociali. Tantissimi sono i timidi che hanno saputo riscattare i loro giovanili rossori e che, poi da adulti, con più correttezza, in forme invisibili, di poche parole, svolgono i loro compiti senza farsi troppa pubblicità. A testa bassa. Per questo sono l’espressione di un messaggio etico. Dovremmo aiutarli a scoprire e aiutare le loro virtù ad uscire allo scoperto .
Professore ordinario di Filosofia dell’Educazione e di Teorie e pratiche della narrazione all’Università degli studi di Milano-Bicocca ,Direttore della rivista Adultità e fondatore,nonché presidente, della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari(Arezzo), tra le sue opere più recenti: L’educazione interiore(2000); Autoanalisi per non pazienti(2003), Filosofia del camminare(2005), La vita schiva(2007- Cortina), in uscita, La scrittura clinica( giugno 2008)
Tag:
Dibattito
Data: 19.06.2013
Oggetto: Per favore, non toglietemi le chartulae
Passioni, emozioni, affetti, disposizioni morali, costumi, umori, stati d’animo, sentimenti, attitudini, comportamenti, tratti della personalità…di che cosa stiamo parlando? Vogliamo parlare di quelle che i francesi chiamano passions de l’ âme?
Il discorso di Demetrio è ricco di suggestioni e ammiccante soprattutto per chi, come me, subisce il fascino delle espressioni allusive della poesia, poiché si sa che “il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago” (Leopardi). E certamente i ricordi non dovrebbero avere una data, ma una stagione, come il professore suggerisce citando Bachelard, e dovrebbero essere legati piuttosto a un’emozione che a un numero del calendario. La letteratura propone innumerevoli esempi di memorie archetipiche, o come preferirei definirle cenestesiche: un profumo, un fruscio, una sfumatura di colore, una sensazione di nausea o tenerezza sonnecchiano nelle profondità della mente, pronte a destare “una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso dell’immagine antica”, e fra queste “piacevolissime e poeticissime” si rivelano quelle “che tengono dal fanciullesco” (ancora Leopardi). Non sarò certo io a cimentarmi nel risistemare questo caos, distruggendo quella poeticissima confusione sensoriale ed emotiva che fa di ciascuno di noi un unicum irripetibile, e magari un artista o un gigante del pensiero. Lascerò dunque a Roberta De Monticelli l’ingrato e non del tutto meritevole compito di fondare un’etica e teoria del sentire mettendo un po’ d’ordine, L’ordine del cuore, e cancellando d’un tratto il versante poetico della filosofia. Anzi, aggiungerò una (sola) notazione autobiografica: ricordo di aver fatto conoscenza all’Università statale di Milano con un professor Duccio Demetrio tecnico della Pedagogia, che suscitò in me scarso coinvolgimento verso le classificazioni puntigliose e indecifrabili di una pseudoscienza, intenta a sviscerare i significati delle parole facendole a brani, con una chirurgia di depistanti trattini, e ritrovo oggi un professor Duccio Demetrio poeta di sentimenti e maieuta di storie personali. Non ho dubbi: scelgo il secondo.
Ciononostante non posso fare a meno di dissentire riguardo ad alcune improbabili equazioni. Ad esempio: la timidezza è una virtù da coltivare, una virtù correlata alla capacità di scrittura? tutti i timidi sono solitari e tutti i solitari sono timidi? la timidezza è il contrario dell’arroganza? E San Francesco era timido? Riguardo al primo interrogativo, mi trovo in piena sintonia con Piero Carelli, che nel suo intervento ha messo in discussione l’assunto di fondo della relazione, ossia l’assoluta positività della timidezza, fondata sull’ipotetica trasfigurazione del greco timido/vile in cristiano “povero in spirito”. Innanzitutto l’identificazione di quest’ultimo con il timido non mi pare convincente, poiché sarei piuttosto portata a interpretare questa virtù del discorso della montagna come pazienza, umiltà, semplicità frugale: povertà come senso della propria personale indigenza, che rimanda a una salvifica sete di Dio. In secondo luogo non è detto che il bambino timido non debba essere sollecitato a superare in qualche modo la propria ritrosia, senza per questo diventare quell’egocentrico adulto dal quale tutti giustamente rifuggono, come dal seccatore di Orazio. L’essere timido di per sé non comporta ricchezza di un mondo interiore, il che se mai è correlabile a un temperamento introverso, poco incline a manifestare i propri sentimenti non tanto per timore degli altri, quanto per diffidenza rispetto alla loro capacità di comprensione. E poi, affideremo al timido che dimentica il proprio nome l’incarico di custode della memoria, così come ci pieghiamo indulgenti verso un alunno balbettante nelle interrogazioni e prodigo di tesori di saggezza nei temi? La scrittura che rimanda all’io, l’io dei lirici greci, come nota acutamente Demetrio, non credo abbia molto a che fare con la timidezza intesa come ritegno a esporsi, a manifestare i propri pensieri: anzi, è una qualità connessa a un carattere forte, ma la forza del carattere di cui parla Hillman non è quella della timidezza, bensì della senilità (tra parentesi, la psicologia distingue fra temperamento, struttura psichica originaria legata a un certo tipo di organismo, e carattere, costruzione che l’individuo compie su di sé interagendo con l’ambiente). I lirici greci posseggono una forza differente: quella del giovane audace, sicuro della propria bellezza, consapevole anche della brevità della bella stagione, come le foglie che nel tempo fiorito della primavera… Intendo dire che chi ama scrivere è cosciente della propria soggettività, e magari del valore di ciò che scrive, il che non ha evidentemente molto a che fare con la timidezza. Se mai si può supporre che la peggiore tortura sia quella di privare della possibilità di scrivere chi ne prova piacere, come ben sanno aguzzini e carnefici di tutti i tempi. Si pensi, solo per fare un esempio, a Tommaso Campanella nelle prigioni dell’Inquisizione: non lo si fa morire di fame, gli vengono sottratti i manoscritti. E vengo al secondo interrogativo: i timidi sono solitari, forse perché “la timidez es una forma atenuada de fobia social” (José Luis Catalan), e non sanno se risulteranno competenti, validi o apprezzabili agli occhi degli altri. Ne deriva una solitudine forzata che è tutto il contrario del carattere filosofico. “In solis sis tibi turba locis”, dicevano gli stoici, ma certo non per timidezza: per scelta consapevole. Perché buttare via il proprio tempo con chi non potrà restituircelo, e neppure si rende conto della cosa preziosa che gli stiamo regalando? Questo, più o meno, il ragionamento di un Seneca. Il timido sceglie se stesso? Rivendica il proprio diritto alla diversità e all’autoemarginazione? oppure fa di necessità virtù? Non mi pare sia questo il vero filosofo, quello che, come ricorda Platone, “sa gettarsi indietro il mantello sulla spalla destra alla maniera di un uomo libero”, e magari partire per un “meditar mediterraneo”, con il suo “dolcemale” che altro non è se non “la più acuta percezione fisica – e insieme intellettuale – di star appartenendo alla vita” (D. Demetrio, Filosofia del camminare. Esercizi di meditazione mediterranea). Le Fantasticherie del passeggiatore solitario alla Rousseau evocano piuttosto la misantropia che la timidezza. E la filosofia senza dialogo rischia di avvizzire: meglio passeggiare in due, confrontando pensieri e condividendo emozioni. Se la timidezza sia il contrario dell’arroganza: certo il ritrarsi dalla sovraesposizione in una società dell’immagine come la nostra può essere un modo elegante per esprimere dissenso. Ma forse più che all’arroganza, la timidezza rinvia all’esibizionismo come al proprio opposto. Nell’arroganza è implicito l’uso di una certa dose di potere per schiacciare gli altri. L’esibizionista non ostenta il potere, anche se abusa della nostra pazienza e della nostra buona educazione, quando stiamo ad ascoltarlo. Dipende da che cosa si esibisce: chi esibisce un bel corpo non mi dà fastidio, chi esibisce idee altrui appropriandosene è un impostore, chi esibisce denaro è un parvenu che non sa che il vero ricco non ostenta ciò che possiede. In questo senso, e solo da questo punto di vista, condivido l’elogio della timidezza. E San Francesco? la domanda rivolta al relatore in un intervento (“che differenza c’è fra timidezza e umiltà?”) rinvia al santo di Assisi, il quale non si fece scudo della timidezza nell’affrontare il saladino, ma piuttosto dell’umiltà. E che cosa fosse questa umiltà è spiegato nel saggio di Vittorio Dornetti Francesco d’Assisi. Una santità laica. Nei Fioretti, alla provocazione di frate Masseo (“tu non se’ bello uomo del corpo, tu non se’ di grande scienza, tu non se’ nobile; onde dunque a te che tutto il mondo ti venga dietro?”), il santo risponde con umiltà: “questo io ho da quelli occhi dello altissimo Iddio […]; imperciò che quelli occhi santissimi non hanno veduto fra li peccatori nessuno più vile, né più insufficiente, né più grande peccatore di me; e però a fare quell’operazione meravigliosa, la quale egli intende di fare, non ha trovato più vile creatura sopra la terra; e perciò ha eletto me per confondere la nobiltà e la grandigia e la fortezza e la bellezza e sapienza del mondo…”. Ma chi può dire se i sentimenti che Francesco affidava alle sue segrete chartulae fossero di timidezza o di umiltà… Oggi la vita schiva non è sempre segno di riservatezza, o rifiuto di stare al gioco dello scontro competitivo: a volte può nascondere la superbia di chi si mantiene lontano dagli altri, ritenuti inetti ed incapaci. Una volta, all’uscita da una prima cinematografica, un giornalista chiese a Moravia un giudizio sul film appena visto. “I miei giudizi mi pagano perché li scriva” fu la risposta di Moravia. Timido?