OLTRE L'ARCIPELAGO. RAGIONANDO SU MASSIMO CACCIARI - RELATORE: CLAUDIO CERAVOLO

14.02.2005 21:00

 

“Un pensatore lo si onora pensando” (E.Junger).

E’ così che vorrei rapportarmi con Massimo Cacciari : non “presentando” la sua opera – impresa pressoché impossibile, data la densità e la complicatezza dei suoi testi, restii ad ogni “riduzione” – ma raccontando come per quasi vent’anni io mi sia sentito coinvolto nelle sue domande, che spesso si sono intrecciate alle mie.

Quando mi è stato chiesto di parlare di Cacciari nell’ambito della ricerca che il Caffè filosofico fa quest’anno “oltre l’Occidente”, mi sono sentito sperduto : non ho una preparazione filosofica, e il mio rapporto personale con Massimo è stato vissuto sul piano politico, non su quello speculativo (anche se – come vedremo – in Cacciari la politica è “un' esperienza dolorosa del limite”, ma un’esperienza che bisogna fare, cercando di andare oltre la politica come mero calcolo tecnico- amministrativo)

Non aspettatevi quindi da me un inquadramento del pensiero di Cacciari all’interno delle maggiori correnti filosofiche del secolo: non sarei capace di farlo, e in fondo non credo neppure che mi interessi.

Proverò invece a collocare il pensiero di Cacciari nell’esperienza di chi ha vissuto in sé l’eredità del moderno e l’inquieta dialettica del suo superamento, partendo dall’idea di krisis in quanto emergenza permanente nell’esperienza dell’esistere e del pensare, senza aver nessuna salvezza acquisita in partenza.

Oggi tutti noi viviamo “l’universale assolutizzazione della mancanza di radice. Ciò che qui si invera è l’idealistica autonomia del soggetto – ma proprio come soggetto irreversibilmente sradicato” (M.C., Icone della Legge, p. 53)

La nostra esperienza è assimilata a quella dell’erranza, del nomadismo già proprio dei figli di Israele, ed è una esperienza che si oppone radicalmente all’esigenza di radicamento in un nomos, in una legge il cui senso si è oscurato o perduto.

Già questa riflessione sul nostro destino di erranti ci butta “oltre l’Occidente”, al di là di un Arcipelago (Geofilosofia dell’Europa, 1994 e L’Arcipelago, 1997 sono le due opere che più di ogni altra ci faranno da guida) oltre il quale però non troveremo solo l’apeiron, l’infinito, ma troveremo soprattutto l’Altro.

E l’Altro non ha solo la figura del xenos, dello straniero; egli è innanzi tutto l’hospes / hostis, il nemico, del quale bisogna riconoscere l’assoluta diversità. E con l’assolutamente Altro l’unica relazione possibile, come insegnava già Eraclito, è il polemos, il conflitto.

A meno che non si abbia il coraggio di operare un rovesciamento in termini filosofici, assumendo questa stessa alterità, questa stessa inconciliabilità, come il punto di partenza per affermare in modo ancora più consapevole la propria identità.

Su questi temi ci confronteremo, mettendo fin d’ora bene in chiaro che io non avrò nessuna intenzione di con-vincervi della bontà delle tesi sostenute da Massimo Cacciari, ma caso mai di farvi scorgere alcune ipo-tesi, nel senso forte di “star sotto”.

Bene attenti a stare al di qua della invalicabile soglia, dove è Custodia.

 

Dibattito

Data: 24.06.2013

Autore: Luca Fusar Poli

Oggetto: L’armonia come via per la Tolleranza

Introspezione Sociologia.

Da uno lavoro fatto durante lo studio de “ Teoria generale del Diritto”
La giurisprudenza nel sistema economico Giapponese.

Il Giappone ara rimasto fino a fine ottocento ai confini della modernità.

Il Giovane Imperatore del primo novecento vuole dare una svolta.
Nel Film: “L’ultimo Imperatore” si racconta che molti esperti occidentali vengono invitati in Giappone e contestualmente i migliori studenti vengono mandati nelle migliori università occidentali e successivamente a contatto col sistema economico industriale.
Ritornati in Giappone, con la benedizione dell’imperatore furono accolti come entità divine, promuovendo un incredibile rivoluzione industriale ed economica.
Persa la seconda Guerra Mondiale il Giappone firmò una resa incondizionata che limitava il Giappone più nelle relazioni estere, che nel sistema sociale interno.
Famiglie come Kawasaki, Suzuki, Hitoshu, Honda,Hyamaha, continuarono a gestire i loro affari.
Il Giappone è una società stratificata.
Ma è una società incredibilmente interessante per il Marketing: 120 000 000 milioni di persone che esprimono una medesima sensibilità, che parlano la stessa lingua, che hanno le medesime abitudini alimentari, che osservano le stessi leggi e gli stessi costumi, geneticamente simili.
Il sistema sociale Giapponese si basa sull’armonia.
L’armonia è il frutto non l’albero.

Obiettivo Condiviso
Per avere una società armonica è necessario possedere un requisito fondamentale : L’obiettivo condiviso.

Il Dettaglio
L’obbiettivo condiviso per manifestare una vera armonia sociale ha bisogno di essere dettagliato.
Più l’obbiettivo è complicato e contorto, più l’armonia, se largamente condiviso, sarà solida
Ed indispensabile.

Il Teka Maki e il Tortellino di Parma
Il teka maki è uno dei piatti giapponesi che più amo . Il Riso cotto a vapore è arrotolato attorno ad un parallelepipedo di Maguro , ventresca di maguro ( tonno), per poi essere arrotolato a sua volta, come si volesse confezionarlo, con alghe marine.
Si realizza un salame la cui buccia è appunto l’alga, che avvolge il riso e la striscia di pesce crudo nel centro del cilindro che è stato arrotolato.
Questo salamino viene poi tagliato a fette alte circa 4 cm, è elegantemente servito su un vassoio di cedro con salsa di soia , zenzero e una pasta piccante.
Il tortellino di Parma è un’altra cosa.
La farina di frumento viene unita ad un uovo e acqua, per poi impastarla e ottenere una sfoglia che ritagliata andrà a trattenere un ripieno di carni sapientemente miscelate.



Attenzione miei fedeli amici golosi, nel tortellino l’armonia è figlia dell’alchimia.
I prodotti primi sono stati trasformati, unendoli con altri.

Nella cucina Giapponese l’armonia è nell’accostamento.

Una società deve “miscelarsi ”, per piacersi.

Ad un’altra è sufficiente “accostarsi”, trovando nel lavoro e nella realizzazione dell’oggetto un gradevole scenario rappresentativo.

Feurebach molto astutamente affermava : „Der Manne es was ist“ . L’uomo è ciò che mangia.

Se mangiamo polli non significa che siamo galline.
Ma significa che società come quella norvegese è simile a quella giapponese.
Una società che si rivolge al mare dovrà costruire città lungo la costa.
Dovrà sviluppare un sistema economico legato alla pesca. Dovrà realizzare cantieri navali, dovrà organizzarsi per fornire equipaggiamenti adeguati, scrivere codici marittimi complessi, molto di più articolati di quelli promulgato da uno stato come L’Austria, per esempio.
Mangiare pesce genera una società differente da quella che si alimenta con carne o agricoltura.
Una società agricola è una società di per sé conflittuale al suo interno rispetto ad una società che vive del mare.

L’agricoltura propone due economie :l’allevamento e la produzione di unità foraggere.
Nell’Ottocento negli U.S.A ci fu una grande conflittualità tra allevatori e agricoltori.
Chi doveva recintare la propria attività economica?
Il vitello entrava nei campi di mais e nutrendosi dei frutti pendenti ne rovinava il raccolto.
Gli allevatori sostenevano che fossero gli agricoltori a dover recintare il proprio campo, questi sostenevano che fosse il bestiame a dover essere recintato.
La giurisprudenza risolse la questione col famoso editto : “ Fence In or Fence Out “
La dove è principale l’agricoltura sarà l’allevatore a recintare i propri capi di bestiame , al contrario laddove l’allevamento prevale sarà l’agricoltore a doversi tutelare, recintando i suoi appezzamenti .

L’armonia in economia si basa su aspetti economici non assoluti, l’armonia in economia non possiede virtù morali..
Cioè l’economia prevede in sé un’armonia relativa allo stato delle forze in campo.
Infine l’armonia sociale predilige, sì la complicazione schizofrenica dell’uomo nel suo agire,
ma all’interno di un sistema alimentare largamente diffuso.

L’intricato è il percorso che salda gli uomini attorno alla necessità dell’armonia.
Più la coclea è lunga, più essa trasporta infiniti progetti d’aspettative, più genera massa, che si riconosce per il volume critico creato, che è così grande che per forza di cose non può essere che riconosciuto armonico nelle interazioni intersoggettive.

Il Risultato Condiviso
L’armonia così come un grande buco nero che assorbe infinite energie, ha bisogno di nutrirsi di risultati positivi attraverso l’azione intrapresa per giungere allo scopo condiviso.
Gli operai di una fabbrica Giapponese si lamentano.
Sono inascoltati.
Un Giorno si presenteranno al lavoro con una benda rossa sul braccio sinistro.
Continuano con perizia a fare il loro lavoro, ma lo straccio Rosso indica che non sono soddisfatti.
Potrebbero manifestare, scioperare, sabotare il sistema produttivo , invece continuano a alimentarlo, in loro non c’è astio nei confronti del datore di lavoro, egli non è visto come un nemico, non c’è lotta di classe .
Il “ Padrone” è un esempio, non possiede ville A S. Moritz, non ha panfili, non viene fotografato con le prostitute dello star system, Egli è il primo che si presenta al lavoro è l’ultimo che ne chiude i cancelli.
Il Padrone Giapponese sa che la sua ricchezza non è personale ma è la ricchezza dell’impresa, dell’azienda, le risorse di cui egli può disporre sono risorse da investire nel futuro di quella struttura che ne ha garantito le riserve.
Egli è un loro alleato che al momento non vede un problema che sussiste nel processo lavoro-obiettivo.
L’obiettivo, il prodotto non è del padrone ma del sistema in cui tutti ne fanno parte in base alle loro capacità o ruolo.
Il datore osserva il drappo Rosso.
Comprende il malumore, osserva che nonostante la sua forza lavoro sia scontenta continua con impegno perché l’obiettivo venga garantito raggiunto…
Il malumore indossato da tutti, legittima l’ascolto.
Il datore apprezza che nonostante il disagio nessuno perda di vista l’obiettivo finale, ora tocca a lui manifestare che l’armonia è l’unico sistema vincente, ascoltando il disagio, troverà la soluzione. rimedio.
La Storia o il futuro.
Il partito politico Kuomintang fondato dal Repubblicano San Yet sun agli inizi del 1900 in Cina si alleò nella seconda Guerra mondiale coi comunisti di Mao Tse Tung.
Il nemico era l’invasore.
La storia di un medesimo popolo è come la terra in un vaso. Essa è Humus che permette il germoglio.
Ma nel vaso ci possono essere semi di cloni diversi.
Ciascuna pianta si nutrirà della stessa terra ma progetterà un impianto fogliare diverso.
La storia comune di un popolo non garantisce necessariamente l’armonia se non si condivide il medesimo progetto nel futuro.
Al termine del Conflitto mondiale Shen Chai Shek, mosse guerra contro i rivoltosi Comunisti.
La stessa terra produceva due immagini sociali diverse.
Sulle apparenti Armonie è interessante il lavoro di Francesco Alberoni “ Movimenti ed Istituzioni”
(Interessante il complesso del Termidoro)

Data: 24.06.2013

Autore: Luca Lunardi

Oggetto: Un breve cenno di approvazione ed una proposta di discussione

Il presente non è un vero e proprio intervento, per come solitamente lo si intende a seguito di ogni incontro. E’ solo, in primo luogo, l’esternazione di un moto di soddisfazione che ho provato dopo aver letto il pezzo di Mauro De Zan. Prescindendo dalle valutazioni specifiche sul pensiero di Cacciari – autore che conosco in modo del tutto superficiale – apprezzo l’approccio generale al problema della tolleranza, che mi pare l’espressione di una sana concezione liberale, pronta sì ad accogliere il diverso ma al tempo stesso forte ed identitaria. Sulle roboanti filosofie hegelo–marxiste, le quali usano un gergo da iniziati per esporre concetti che potrebbero essere detti in modo chiaro come un cazzotto in faccia (per dirla con Wittgenstein), ho provato persino un sottile piacere. Mi sarebbe piaciuto intervenire in tal senso, ma non avrei avuto un centesimo di quella pertinenza e di quella pacatezza.

Detto questo, che è solo un modo un po’ prolisso per dire sono d’accordo – e ciò lascia forse il tempo che trova – vorrei semplicemente far rilevare un particolare, che probabilmente è già perfettamente evidente a chi coordina il Caffè e a chi lo frequenta. Dall’esplorazione del mondo culturale non occidentale siamo arrivati – fatalmente – al concetto di tolleranza. Collaterale a questo – dagli interventi orali e scritti ha fatto capolino – deriva la terribilmente attuale e futura questione del fondamentalismo e del terrorismo connesso. Da questo tema non può non scaturire la discussione sullo scisma in atto nel mondo musulmano tra spinte innovatrici da una parte, e barbara involuzione che una sua parte minoritaria ma crescente sta cercando di imporgli.

Apprendo che, nel prossimo incontro, si discuterà di ebraismo. Abbastanza difficilmente il tema può restare confinato nelle eteree maglie della pura speculazione filosofica e teologica. Questo è un ponte ideale per passare poi ad osservare quel mondo che, più di ogni altro oggi, si contrappone proprio ad esso ed ai valori occidentali – almeno per una sua parte.

Se mai si affronterà l’argomento, il mio auspicio è che si possa farlo fuori da qualunque gabbia ideologica – filosofica o politica – cosa che io vedrei come vero e proprio fumo negli occhi, primo nemico di un vero confronto razionale. Credo e spero che l’impostazione che ho proposto poco sopra – la lotta interna all’Islam – possa costituire terreno comune.

Data: 24.06.2013

Autore: Mauro De Zan

Oggetto: Sul concetto di tolleranza

Devo dire che quando Cacciari afferma che la tolleranza significa solo la concessione da parte del più forte, del superiore, di una parvenza di libertà nei confronti dell’inferiore che solo grazie alla paterna benevolenza dei potenti può godere così di alcuni diritti, tra cui quelli di espressione delle proprie idee e di professione di fede, provo un certo fastidio perché viene volutamente misconosciuta l’origine storica del concetto e della pratica della tolleranza nell’Europa moderna, o se vogliamo nell’occidente. I monarchi hanno certo scritto nei loro editti che “tolleravano” culti diversi da quello da loro (e dalla maggioranza presunta della popolazione) praticato, ma dietro a queste concessioni formali c’erano lotte spesso sanguinose condotte da minoranze di uomini ben decisi a far valere i loro diritti di libertà di culto: la tolleranza è stata per molti una conquista, non una concessione da parte del potere. In altri casi, ad esempio in Olanda, la pratica della tolleranza tra cattolici, calvinisti, ebrei etc., è stata una scelta obbligata operata per riuscire ad opporsi all’oppressione della potenza spagnola. Gli olandesi hanno detto: mettiamo da parte ciò che ci divide e uniamoci per far la guerra agli spagnoli. Poi, fatti fuori gli spagnoli, hanno visto che la cosa continuava a funzionare, se ne sono affezionati e ci hanno ragionato sopra. Insomma la tolleranza non è nata in un clima pantofolaio-borghese come Cacciari, e prima di lui qualcun altro, vuole farci credere. La tolleranza non è un concetto debole, tutt’altro. E’ nato nel conflitto e non nega affatto il conflitto. Accetta la reciprocità (si è tolleranti solo con coloro che accettano di essere tolleranti con noi) ma non nega la conflittualità dei valori. Certo si è tolleranti quando si è convinti che i propri valori, le proprie idee sono superiori a quelle degli altri; altrimenti che senso avrebbe essere tolleranti e nel contempo esigere che gli altri tollerino le mie idee, i miei valori? Essere tolleranti significa rigettare il “relativismo assoluto” secondo il quale ogni valore è equivalente a qualsiasi altro valore e sostenere al contrario il “relativismo relativo” per il quale non esistono da un lato valori assoluti ma ogni valore ha un senso in relazione agli altri. Detto semplicemente: quando voto sono convinto che i valori di alcuni partiti sono certamente inferiori a quelli del partito da me scelto; ma so anche che magari vent’anni fa sceglievo sulla base di altri valori e forse tra vent’anni sceglierò ancora secondo criteri diversi. Tuttavia la mia scelta attuale è da me ritenuta la migliore. E nonostante ciò accetto che altri votino diversamente da me: se li incontro non mi prendo a cazzotti con loro, né nego loro aiuto o collaborazione nel lavoro o nel divertimento. Persino posso amare una persona che la pensa diversamente da me. E ciò è possibile solo perché e se c’è tolleranza.

Io mi ricordo da ragazzo quando a Milano non si poteva andare in una piazza o in un quartiere senza rischiare di essere sprangati per un vestito o un paio di scarpe. Per qualcuno quegli anni erano favolosi, per me restano belli nel ricordo perché coincisero con gli anni della gioventù, ma non erano affatto belli. Non c’era libertà, non c’era vero confronto o conflitto; c’era solo stupido odio.

Quanto scrive Patrizia circa Marx e la relazione uomo-donna mi ha fatto venire in mente una strana idea: che i filosofoni (come diceva Ceccato quando voleva sottolineare l’inutile prosopopea

dei filosofi di professione) per dire cose semplici spesso fanno dei giri di parole assolutamente inutili (se non che danno una parvenza di sacralità alle loro parole, il che in fondo non è inutile..). In effetti quando Marx scriveva le sue involute frasi hegeliane sul rapporto uomo-donna, J. Stuart Mill scriveva un libretto dove assai chiaramente spiegava i motivi della ingiusta sottomissione delle donne ai propri mariti o padri. Se estendiamo questo paragone troviamo che spesso i filosofi di scuola “continentale”o ermeneutica riescono con grande fatica e sforzi interpretativi disumani (forse divini?) a dire quasi le stesse cose che con disarmante chiarezza dicono da un secolo e mezzo pensatori che possiamo definire liberali o illuministi. Stuart Mill (vedi Saggio sulla Libertà) o Jefferson, o Popper, affermano che le minoranze (religiose, politiche, etniche etc.) sono una risorsa perché sono portatrici di valori diversi dai nostri, perché vedono ciò che noi non vediamo (e viceversa), che i conflitti, persino le rivolte, sono salutari perché permettono di far emergere i disagi che ci sono nella società e insieme nuovi soggetti politici, impedendo la sclerosi del sistema. Il buon Vailati, di fronte agli scioperi e alle manifestazioni tutt’altro che pacifiche di inizio Novecento, scriveva che qualche lampione rotto o qualche treno in ritardo erano il prezzo che si doveva pagare per fare sì che le nuove classi sociali maturassero la loro coscienza politica, e tale processo era necessario e nel contempo utile per la nazione.

Data: 24.06.2013

Autore: Claudio Ceravolo

Oggetto: R: Sul concetto di tolleranza

Premetto di non avere nessuna pretesa di essere l’interprete ufficiale del pensiero di Massimo Cacciari, come dicevo nella serata del 14 febbraio.

Nondimeno, non ho potuto fare a meno di balzare sulla sedia leggendo l’intervento di Mauro De Zan. Mauro, dove mai hai letto che “Cacciari afferma che la tolleranza significa solo la concessione da parte del più forte, del superiore, di una parvenza di libertà nei confronti dell’inferiore che solo grazie alla paterna benevolenza dei potenti può godere così di alcuni diritti, tra cui quelli di espressione delle proprie idee e di professione di fede” , oppure che “la tolleranza non è nata in un clima pantofolaio-borghese come Cacciari, e prima di lui qualcun altro, vuole farci credere” ???

Cacciari parla a lungo della tolleranza all’interno dell’attuale scenario di globalizzazione (vedi L’Arcipelago pp 141 segg.), uno scenario caratterizzato della pretesa di omologare tutte le differenze. All’interno di questo processo di assimilazione dell’Altro, del differente, è oggi inserito anche un pensiero diffuso sulla tolleranza, vista però come benevola concessione all’Altro, a cui viene permesso di essere diverso nell’attesa di una sua assimilazione e di un suo adeguarsi alla Verità (fatta coincidere con la mia realtà, i miei valori ecc.).

Contro questa concezione di tolleranza Cacciari oppone una concezione di Armonia che esiste solo in quanto insieme di diversi. Nega che ci possa essere armonia all’interno di un pensiero unico, pervasivo, ma che solo il riconoscimento dell’Altro in quanto tale, accettando fino in fondo la sua differenza, possa costituire la com – unità. In questo senso, nel pensiero della globalizzazione la tolleranza nasconde dietro di sé la peggiore delle intolleranze, ossia la negazione stessa del diverso.

Esattamente il contrario di quanto affermerebbe l’interpretazione di Mauro, ed esattamente nel senso espresso secondo me benissimo da Patrizia de Capua nel suo intervento.

Come esempio di tolleranza Cacciari in diversi scritti ricorda il Dialogo dei tre savi, la bella storia di un cristiano, un ebreo e un musulmano che si incontrano (insieme hostes et hostis), si confrontano, si affrontano, nessuno converte l’altro, ma ognuno afferma nel dialogo la propria verità, e si con-ferma attraverso il dialogo.

Data: 24.06.2013

Autore: Mauro De Zan

Oggetto: Risposta

Caro Claudio, rispondo brevemente alla tua lettera. Dico subito di non poter dire dove ho letto quelle affermazioni di Cacciari sulla tolleranza, perché ricordo di averle solo ascoltate durante una sua intervista alla radio. La mia quindi non è una citazione di sue frasi scritte ma un sunto di quello che mi pareva di aver capito. Del resto mi pare che quanto tu scrivi circa il concetto di tolleranza come “benevola concessione all’Altro” non si discosti poi molto e anche Patrizia mi pare che metta in evidenza un certo fastidio che Cacciari prova nei confronti di questo concetto “impotente”. Ciò che non mi piace, Cacciari a parte, è che si faccia passare la tolleranza come se avesse qualcosa a che fare con atteggiamenti paternalistici e autoritari, da zio Tom o da zio Sam. O con un diffuso e generico “buonismo” lassista. Ma sopratutto mi dà fastidio che Cacciari e altri filosofi, che hanno una formazione estranea a quella del pensiero illuminista e liberale, non ammettano quanto dobbiamo a quella tradizione (fino a non molti anni fa essere definito “illuminista” in Italia era considerato un’ ingiuria, e per molti sotto sotto lo è ancora) e preferiscano fare lunghi giri di parole per dire quello che Stuart Mill nel Saggio sulla libertà dice in poche, belle e chiare parole: anche se le nostre idee sono (o riteniamo siano) superiori a quelle degli altri dobbiamo ascoltare le ragioni degli altri perché o possono contenere qualche verità, o possono farci vedere le cose da una prospettiva diversa a cui prima non pensavamo o infine possono rafforzare con la loro debolezza le nostre convinzioni, evitando di cadere in una fede (religiosa, politica o scientifica) troppo rilassata.

Mi piace molto il tuo finale con il rimando al dialogo di Lullo. L’immagine dei tre savi é “volteriana”, nel senso che è ripresa (più volte e con diverse “modifiche”) in suoi scritti. Essere tolleranti, scrive Voltaire, significa prima di tutto accettare la nostra finitezza, i nostri limiti, essere consapevoli che anche noi possiamo essere nell’errore, essere fallibili, così come ci sembrano esserlo i nostri avversari. E quindi perdonarci reciprocamente per le bestialità che un po’ tutti compiamo. Ma anche non rinunciare a confutare, o cercare di confutare, le idee degli altri, stimolandoli così a confutare le nostre.

Il mio intervento polemico (che si riaggancia a quello di Patrizia) ha suscitato ben due risposte opposte: la tua e quella di Luca Lunardi. Bene, questa è una bella dimostrazione dell’utilità degli interventi polemici al caffè filosofico. Circa quel che dice Lunardi sono d’accordo sulla necessità di guardare con attenzione a quanto avviene nel mondo musulmano e in particolare capire se le spinte per un “illuminismo islamico” hanno ancora qualche possibilità di concretizzarsi o se davvero la cultura islamica ha scelto la strada del suicidio culturale: sarebbe utile capire quali sono stati gli errori commessi dalla cultura islamica tali da averle fatto imboccare la strada di una involuzione che pare oggettivamente senza sbocchi.

Data: 24.06.2013

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: R: Sul concetto di tolleranza


Caro Mauro,

vorrei chiarire la mia personale posizione rispetto al concetto di tolleranza.

Lungi da me misconoscerne la tormentata origine storica. Si può dire che non passi giorno di scuola in cui non se ne parli nelle mie classi, soprattutto in quarta, classe in cui si affronta il doloroso (e fortunatamente vincente) processo che ha condotto al rifiuto del principio di autorità e all’affermazione della libertà di pensiero. L’illuminismo poi è una filosofia assolutamente imprescindibile per capire le nostre radici e i nostri valori. Valori nei quali anch’io mi riconosco.

Semplicemente, riflettendo sul pensiero di Cacciari, trovo che a distanza di due secoli e mezzo da Voltaire, siamo forse in grado di fare un passo avanti e, così come nell’ambito di Statuti e Costituzioni si è passati dalle carte octroyées alle costituzioni votate, anche nel campo della comprensione fra popoli e civiltà diverse riusciamo a passare dalla tolleranza a qualcosa di meglio. Che cosa sia questo qualcosa è difficile dire, poiché non mi accontento di amore, solidarietà, fratellanza o compassione (quest’ultimo sentimento poi è più che mai rischioso). Preferisco pensare a un interesse che nasce dalla capacità di capire l’essere umano diverso da noi. Quello che ho malamente chiamato “una strada filosofica”. Che poi Cacciari sia borghese pantofolaio può darsi, se per borghese si intende ricco. Pantofolaio mi pare molto di più l’aristocratico Vailati, con il suo magnanimo paternalismo nei confronti degli operai.

Comunque non vorrei che con queste etichette si finisse con il ricadere proprio in quel clima di vera e propria persecuzione ideologica da te giustamente stigmatizzato, quando ricordi gli anni dell’università non come formidabili, ma come anni di “stupido odio”.

A questo proposito, visto che la mia citazione di Marx ha sollevato reazioni risentite, vorrei ridimensionare la citazione stessa in un contesto strettamente autobiografico: volevo dire che finalmente ho capito che è vero che dal rapporto fra l’uomo e la donna si misura il grado di civiltà di un paese. Chiedo scusa se ho impiegato tanti anni a capirlo.

Ciao

Patrizia.

Data: 24.06.2013

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: Due aspetti del Cacciari-pensiero

La relazione di Claudio Ceravolo sul pensiero di Massimo Cacciari è così vasta che non posso pretendere di commentarne ogni aspetto. Solo due.

Uno è quello della tolleranza.

Cacciari dice di considerare tolleranza “un termine orrendo”, poiché presuppone un atteggiamento del tipo “ti sopporto perché mi sento superiore a te. La tolleranza – continua Cacciari – è l’idea madre di tutte le intolleranze, è un’idea impotente”. Ancora più chiaramente “tolleranza è solo il nome che diamo alla regolazione pacifica dell’equilibrio fra la cultura e le tradizioni di una maggioranza e quelle delle minoranze. Non è una virtù, è uno strumento politico. Sancisce una relazione di potere, un rapporto di supremazia fra chi tollera e chi è tollerato”. Precisazioni espresse nel maggio dello scorso anno, in occasione della rassegna Nel segno della parola, a cura dell’Università di Bologna. In questa sede venne fra l’altro presentato il dialogo del 384 d. C. fra Simmaco, prefetto di Roma e uno degli ultimi pensatori pagani, e Ambrogio, primo dei grandi vescovi cristiani. Il confronto fra i due, recitato da Carlo Rivolta e tradotto dal latino da Nuvola de Capua, porta il titolo Dissimulatio, sottotitolo “Pagani e cristiani: la disputa sulla tolleranza”. Sì: dissimulatio, ossia far finta di non accorgersi, è la parola latina che Simmaco utilizza per chiedere all’imperatore Valentiniano II di ripristinare nell’aula del senato l’altare dedicato alla dea Vittoria, simbolo della religione pagana. Ambrogio ribatte che la dissimulatio è incompatibile con la fede. “Simmaco – commenta il filologo Ivano Dionigi, promotore della rassegna insieme a Massimo Cacciari – è uomo della doxa, Ambrogio uomo del dogma; il primo rivolto al passato, il secondo al futuro; perdente Simmaco, vincitore Ambrogio”. Dunque la tolleranza non può essere chiudere un occhio, non può consistere nell’ignorare e nel rimanere indifferenti. Per lo meno se si crede che la verità sia una sola… Gli illuministi, secondo Cacciari, non migliorano la sorte della tolleranza, poiché il loro pensiero universalista “ritiene i propri principi validi per tutti gli uomini”, quindi anche la loro tolleranza implica la presunzione di superiorità. “Non si tollerano mai i valori, ma solo gli errori altrui. E’ tollerante chi, sicuro delle proprie convinzioni, anziché sopprimere quelli che credono nei valori sbagliati, attende benevolmente che riconoscano il loro errore”. E allora? Dobbiamo gettar via la tolleranza? E poi: è giusto essere tolleranti con gli intolleranti, come si domandava (rispondendo negativamente) un giovane studioso nel suo intervento al Caffè filosofico del 14 febbraio? No, sostiene ancora Cacciari: “nazisti e terroristi ti vengono a cercare per ammazzarti. La tolleranza è priva di senso in un contesto di guerra o anche solo di inimicizia. Può maturare solo in un clima di mediazione.” Ma è chiaro che in questo modo si presuppone proprio ciò che si vorrebbe costruire. Dunque da capo: abbiamo bisogno di qualcosa di meglio della tolleranza. Che c’è di meglio della tolleranza? Ancora Cacciari: “tante cose: conoscenza, curiosità, interesse, amore”. Credo che abbia ragione, anche se poi non è facile mettere in pratica tali atteggiamenti. Soprattutto interesse e amore. Ma forse è possibile aprire una strada, non necessariamente o esclusivamente cristiana, di amore e di interesse per l’altro: una strada filosofica.

E passo al secondo aspetto: l’altro, lo straniero, il diverso.

Ricordo che quando, molti anni fa, lessi per la prima volta le frasi di Marx a proposito del rapporto uomo-donna, ebbi qualche difficoltà a comprenderle pienamente. “Il rapporto immediato, naturale, necessario, dell’uomo all’uomo – dice Marx nei Manoscritti – è il rapporto dell’uomo alla donna”. Con un linguaggio fortemente hegeliano, Marx continua poi ad analizzare il rapporto dell’uomo con gli altri uomini e con la natura, notando che “il rapporto dell’uomo alla donna è il più naturale rapporto dell’uomo all’uomo”. In un groviglio di frasi che spesso hanno l’apparenza di giochi di parole, Marx arriva infine a dire ciò che oggi avverto come l’idea più vera e importante: “da questo rapporto [dell’uomo con la donna] si può giudicare ogni grado di civiltà dell’uomo”. Adesso sì che ci intendiamo! O forse sono i drammatici eventi degli ultimi anni che hanno offerto a queste righe una chiarissima ed efficace chiave interpretativa? Al di là di qualunque forma di femminismo, il significato di quelle frasi risulta evidente. Non c’è civiltà senza interesse, amore, integrazione, rispetto, bisogno reciproco e riconoscimento reciproco uomo-donna. Come notava Nuvola nel suo intervento, è qui che si gioca il senso del nostro discorso sullo straniero e il diverso: nel modo in cui sentiamo il bisogno l’uno dell’altro, a partire da uomo e donna. Curiosità, conoscenza, non tolleranza, o almeno non solo. Sentire l’altro come essere umano che condivide la nostra condizione di persona che si interroga sulla bellezza, sul bene, sul vero, ma anche sull’infelicità, sul dolore e sulla morte. Pensare insieme, provare sentimenti di compassione, di affetto, di desiderio, di rimpianto, e soprattutto continuare a cercare qualcosa di più e di meglio del mondo che ci è stato consegnato.

Data: 24.06.2013

Autore: Tiziano Guerini

Oggetto: Considerazioni

Anzitutto questa: che non è possibile far riferimento a culture diverse per superare il pensiero occidentale; altri “pensieri” sono appunto altri, cioè diversi e in quanto tali non possono incidere sulle radici stesse del pensiero occidentale che solo in sé può trovare le ragioni per superare se stesso.

Ogni riferimento ad altre culture è certo interessante, e forse può anche contribuire a rimettere in discussione gli elementi di fondo del nostro pensiero, ma solo calandosi nelle profondità magari implicite nella nostra cultura si può, se del caso, ridiscuterle e rimuoverle, senza peraltro rinnegarne la forza e la funzione teoretica. (Questa è, del resto, anzitutto la lezione di Nietzsche fra il dionisiaco e l’apollineo. Molto diversa, ad esempio, di quella di Schopenhauer del “Velo di Maja”)

La seconda considerazione intende ricollegare le argomentazioni di Cacciari (cultura occidentale-culture altre; la persona-l’altro; ecc) alla dialettica hegeliana: Cacciari reinterpreta su registri attuali (e mi riferisco sia all’ovvia esigenza di proporre tematiche di oggi, sia alla più filosofica istanza “attualistica”) il tema dei “contrari” di Hegel, proponendone una sintesi continuamente aperta e del tutto dinamica (come appunto accade nella lettura gentiliana di Hegel: Gentile, un altro filosofo da “sdoganare”!). Aggiungo che, dal mio punto di vista, questa affermazione è quanto di più elogiativo si possa dire a proposito di un intellettuale che, pur con accenni critici, peraltro permane all’interno dei parametri logici occidentali.

Continuo poi a pensare che la filosofia abbia bisogno di indicare con chiarezza il proprio ambito di speculazione e che a questo si mantenga, pena dare l’impressione di voler dire di tutto un po’ che è quanto di peggio ci possa essere per un pensiero che si pretende rigoroso (non è il caso della parte più alta del pensiero di Cacciari, anche se le sue frequenti e a volte intemperanti apparizioni televisive possono farlo credere). Per parte mia ritengo che la filosofia debba essere l’espressione della “totalità”: ciò che dice deve essere valido per tutte le cose in ogni tempo e in ogni luogo (e naturalmente la filosofia è anche esprimersi attorno alle particolarità, in quanto su di esse si riverberano le qualificazioni della totalità). Capisco che qualcuno possa dire che ciò è impossibile all’uomo, ma allora proprio questo si deve dire della “totalità”: che è inaccessibile - con la consapevolezza che, dicendo questo, pur sempre della totalità si parla. Certo c’è anche una terza possibilità, quella dello scettico: non so se ci sia qualcosa di unificante per “ tutte le cose”; certo se qualcuno dice questo, allora è meglio, per coerenza, che si scelga un ambito scientifico specifico in cui meglio esercitare la propria intelligenza.

Tornando ai parametri logici occidentali di cui più sopra dicevo, ciò che non si ha (ancora) la forza culturale (e pratica) di superare è appunto il fondamento del pensiero occidentale, cioè quella concezione del “divenire” di tutte le cose (salvo l’Assoluto, diceva la metafisica antica; senza eccezioni dice il pensiero filosofico contemporaneo) che sfocia nel nichilismo dell’essere che non sa star saldo in se stesso. Da qui ogni volontà di dominio, espressa dalla scienza sulle cose, e dall’agire politico sugli uomini, che - basata sulla contraddizione (il nichilismo appunto) - non può che dar luogo e spazio a modi di pensare, e soprattutto di vivere, contraddittori. Nella consapevolezza di questa contraddizione (che per realizzarsi ha comunque bisogno che la contraddizione stessa si esprima fino alle massime conseguenze) sta la ragione che permette di andare “oltre l’occidente”.

Data: 24.06.2013

Autore: Luca Fusar Poli

Oggetto: Rincorrendo l’Hostis e la tolleranza

Caro Tiziano ,

Ho letto la tua e devo dire che sono completamente d’accordo con Te.

Sono talmente d’accordo, come spesso accade, che alla fine la penso diversamente.

Quante volte accade di parlare , di masticare i medesimi valori e poi rigettare decisioni, in accezione politica sociologica, cioè come sistema decisionale, contrastanti.

Quando ciò accade ci si guarda negli occhi e contemporaneamente si grida:

“MA VA SE’ L’HOSTIS!”

Cioè ci raccomandiamo reciprocamente al nemico.

Come si vede, le raccomandazioni, non sono sempre a fin di bene.

Ti mando dal nemico perché lo conosco e so quanto cattivo egli sia: “ lui sì, che saprà farti quel male, che io non essendo cattivo come lui, non saprei fartene” o ti mando da lui Poiché: “Tu che non sei d’accordo con me puoi essere solo d’accordo col mio nemico"?

I capi di Stato si rivolgono ai propri popoli (esistono ancora i popoli o esiste la gente?) e acclamando sempre i soliti e medesimi valori, si fanno la guerra, in occidente e anche oltre.

Ho sempre pensato che il vero nemico di chi vuole la guerra sia chi la guerra non la vuole, cioè per primis i propri soldati, che non ci guadagnano mai nulla.

Chi decide di farsi la guerra non è nemico dell’altro ma alleato per farla combattere agli altri.

Il sole nasce ad occidente e porta le sue fatiche in oriente.

Ma quando si giunge in oriente il sole nasce in occidente e porta le sue solite fatiche in oriente.

Cioè se tu Tiziano andassi a vivere a Kyoto, tu rimarresti occidentale mentre noi saremmo in oriente rimanendo qui.

Hegel avrebbe pure lui un leggero giramento.

Io credo che quella che si definisce filosofia occidentale

(dove si compra quel mappa mondo in cui risulta il confine del pensiero geografico?)

sia la filosofia del giorno prima che però l’oriente già conosce.

Quando lascio quel bellissimo aeroporto di Renzo Piano ad Osaka, il Jumbo che affronterà l’oceano Pacifico mi farà atterrare a S. Francisco il giorno prima.

Se mi fermassi per sempre laggiù avrei vissuto per la filosofia orientale un giorno in più di quella contata dalla filosofia occidentale, che diventerebbe però falsa se da S. Francisco ritornassi ancora in Giappone.

La verità ha come preposizione logica nell’individuare l’hostis prima che essa venga pronunciata.

Il paese del sol levante anche se si è alzato prima di tutti deve chiudere la giornata di tutte le borse mondiali,…. c’è da uscirne pazzi.

Non trovi che sia piuttosto difficile vedere il tutto quando si vuole conoscere solo la data del giorno in cui stiamo vivendo?

La totalità è gia stata spiegata dall’Alighieri attraverso L’allegoria.

Ma è una spiegazione linguistica del mondo, cioè in accezione aristotelica, di un mondo divenuto in quanto dal linguaggio tradotto e funzionalmente cambiato.

Il tutto non è concesso all’uomo, non gli è concesso apprendere il tutto se voluto apprendere in questa dimensione spazio tempo in cui ora siamo costretti a soggiornare.

Una strada si percorre, il piè Veloce Achille non può percorrerla “tutta insieme”.

Se lo facesse, rimarrebbe fermo in uno spazio senza tempo.

Per conoscere l’oriente dobbiamo stare ad occidente.

Fermi ed immobili per essere immacolata concezione, frutto e fiore insieme.

Verità appunto

Possibile Tiziano che i più grandi Filosofi, soprattutto dell’antica Grecia fossero dei patiti, dei tifosi, degli ultras del sapere e del desiderio verso la conoscenza scientifica e di tutto quello che girava attorno a loro , mentre oggi , la Filosofia appare come quella vecchia ruota d’acqua di mulino che si vede a Mozzanica, che continua ancora spinta dal salto d’acqua a girare, ma che non macina più?

I Filosofi antichi si impegnavano a studiare il mondo scientifico i moderni le sovrastrutture.

Oggi, invece, Tronchetti Provera filosofeggia al Teatro Parenti, con Severino, sulla Tecnica, con il primo che pensa alla tecnica per stampare la gomma delle ruote e il secondo teme che l’uomo finisca stampato.

Poi mentre il secondo ritorna sulle sudate carte, il primo va alla Scala per licenziare il direttore artistico.

La cosa è “Tecnicamente” possibile? La barzelletta risulta piacevole quando racconta una possibile verità, ma quando il ridicolo ed il comico dell’occidente si confondono andare oltre si rischia di portarci solo le lacrime.

Miei cari amici è veramente dura andare in oriente quando non riusciamo a incontrarci coerentemente in occidente.

Nessun nichilismo, ma pane raffermo di domenica.

Carlo Rubbia non va oltre l’occidente, quando afferma (Scorie radioattive nascoste):

“L’irresponsabilità dei responsabili, di quel domani di cui responsabili, sarà non responsabile”.,

Indica piuttosto che il nostro hostis siamo noi stessi, anche quando non saremo più “gli stessi”.

Bingo! Bravo Rubbia.

Se Aristotele sapeva che la terra era rotonda noi oggi sappiamo che essa è piatta,

ciò che accade al di là della curva terrestre, accade contemporaneamente qui.

Lo Tsunami è stato visto in occidente, prima che capitasse in oriente.

Dopo la terra, si è appiattito anche il tempo, dove l’oggi incarcerando il domani, diventa sia l’Oste che il suo Hostis.

Che poi, in fondo, sono la stessa cosa.

Non tra occidente ed oriente ma piuttosto direi tra sotto e sopra, tra oggi e il domani che rimane però sotto a causa di ieri.

Così almeno a me appare……...

L’Esercito della Salvezza di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra fu tollerante con gli indigeni della Papuasia.

Qui La tolleranza è potere.

Poter decidere l’hostis.

Gli ebrei furono tolleranti coi nazisti ad Aushwitz?

Senza potere furono tolleranti all’intolleranza? Sarebbe stato possibile?

La tolleranza è madre di tutte le intolleranze o piuttosto matrigna che tollera l’intolleranza di sé stessa?.

Nella tolleranza c’è l’incapacità dell’essere?.

Ancora una volta non tra Est ed Ovest!.

Ma tra sopra e sotto!.

Tra uomo e uomo, tra amore ed amore!.

Come durante la guerra fredda, gridare di voler visitare Berlino Nord!.

Gli occhi che vedono, ciò che i tolleranti non sanno mostrarci, sono gli occhi della filosofia.

Data: 24.06.2013

Autore: Tiziano Guerini

Oggetto: IN DIALOGO CON LUCA

“L’interlocutore non va ridotto al silenzio…il suo silenzio è il silenzio della verità; giacchè se questa non si realizza come toglimento della sua negazione, non si realizza nemmeno come verità” (E. Severino, Filosofia della prassi, Milano 1967)

(Approfitto della giornata di neve – campo di golf chiuso – perché tu possa ulteriormente meditare)

La verità esiste solo se esiste l’errore: per questo l’occidente (e anzitutto la filosofia metafisica occidentale) è hostis di se stesso (e l’oriente, in quanto culturalmente “altro”, se ne sta con se stesso: l’oriente di cui parli tu, invece, con gli aerei supersonici e il gioco in Borsa, non è che un occidente con gli occhi a mandorla).

Non sono io a considerare “la scienza” come tutto: è esattamente l’occidente che parla così di se stesso, e - stranamente - fin dai tempi dei filosofi antichi ammalati di conoscenze scientifiche, (ed oggi ha sempre di più il “potere” di farlo, sì che l’occidente si configura esattamente come quel “sopra” di cui parli tu, rispetto all’oriente; articolandosi peraltro, a sua volta, al proprio interno fra ricchi di potere e poveri - la dialettica servo/padrone).

E’ vero: ci vuole intolleranza! Bisogna essere intolleranti nel “vedere con gli occhi della filosofia” la verità, perché non diventi l’impotenza dell’Essere a manifestare se stesso. Ma la verità ha bisogno che l’errore si manifesti per manifestarsi a sua volta: per questo il colloquio fra Tronchetti Provera e Severino (pur così diversi nei loro obiettivi) non è né inutile né ridicolo.

P.S. Spero di vederti qualche volta direttamente agli incontri del Caffè Filosofico.

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