SCOPRIRE LO YOGA - RELATORE: MARINA SERINA

11.10.2004 21:00

 

 

SCOPRIRE LO YOGA
di Marina Serina

 

Ho studiato filosofia all’Università Statale di Milano e per quanto ricordi quegli anni con affetto e nostalgia, in tutta onestà non posso annoverarmi tra gli studenti diligenti e seriamente applicati allo studio dei testi dei grandi pensatori occidentali. Probabilmente peccavo allora come oggi di “vanità”.

In una delle Upanishad (le sacre scritture indiane), il Chela (lo studente) si reca dal suo Guru e semplicemente gli dice “reverendo signore, io desidero comprendere l’Infinito”. Chiunque decida di intraprendere un cammino yogico è sempre sorretto nella sua ricerca da un anelito teso all’Infinito. Il medesimo desiderio lo ritroviamo in occidente, dipinto sul viso di uno studente attento a non perdere nemmeno una parola della lezione di teoretica, nello studio matto e disperatissimo di geni matematici e probabilmente come ci raccontava Leopardi celato nel cuore di ogni semplice essere umano.

Ciò che non mi ha soddisfatto nella Filosofia Occidentale non sono certo i contenuti, anzi approcciamo vedute prospettiche a 360° non diversamente dalle culture orientali, abbiamo raggiunto punti di pensiero irriverente e rivoluzionario da far impallidire i più stravaganti tra i maestri Zen; ciò che non mi ha soddisfatto è la metodologia d’insegnamento, più semplicemente come avviene la trasmissione del sapere, le tecniche.

Se questa mia affermazione avrà un poco stupito, la successiva potrebbe lasciarvi del tutto di stucco. Contro la credenza comune che la ricerca del reale, della verità ultima, nel nostro mondo occidentale abbia come via maestra uno sfondo di razionalità e pragmatismo, avvalorata a lungo dalla secolare divisione fra Scienza e Religione, io studente di filosofia avvertivo una mancanza. Mi mancava la Teknè, nel senso originale di Scienza applicata. Ogni volta si arrivava a conclusioni contraddittorie, paradossi che diventano capisaldi di tabù e rassegnazione critica. Che tristezza aver seguito speranzosi Wittgenstein su per la scala, per poi dover tornar giù con la sgradevole sensazione di aver sbagliato qualcosa, magari di infinitamente piccolo, ma all’inizio. Per non parlarvi poi del fastidio di dover ogni volta concludere “il cervello non può studiare se stesso”, “la mente non può osservare la mente”.

Circa un anno fa il maestro Aruna, il nostro Guru, venne in visita al nostro centro di Yoga, e in quell’occasione tenne un incontro dedicato ai futuri aspiranti insegnanti. Fu un incontro bellissimo di cui mantengo vivida la memoria: tra le tante cose che ci disse ricordo un punto che più o meno riporto così: “la maggior parte dei vostri studenti arriverà qui perché ha mal di schiena, soffre lo stress della metropoli, è sovralimentato o sottoalimentato e spera nei benefici psicofisici dello Yoga. Ma non dimenticate che il vostro primo compito è far scoprire a ognuno di loro che ciò che credevano essere il loro limite può essere sempre superato. Non è difficile, ed è appurabile: tendendo una mano verso il piede, arrivo fino li; no posso sempre spingermi oltre”, all’infinito appunto. Ma allora con le terminazioni nervose della mano posso stimolare il cervello, con il suono della mia voce posso perforare la mia materia; nello Yoga anche la posizione di un piede è strumento di ricerca. Tutto il nostro corpo diviene luogo di ricerca e di meravigliosa scoperta, diviene spazio di gioco e di strategia della mente, .Con questo non intendo certo far sognare l’illuminazione e il Nirvana così a portata di mano. Semplicemente il mio lato di ricercatore pragmatico ha trovato nella pratica e studio dello Yoga la dimensione del “fare”. Vi faccio un esempio: uno degli dei Indù che maggiormente riscuote le simpatie anche di noi occidentali è certamente Ganesha. Ma in quanti sanno chi è veramente Ganesha? Un bambino con una testa di elefante che se ne va in giro a cavallo di un topolino. Ma come è possibile ciò? In India mi hanno spiegato che dobbiamo chiederlo alla mente fluttuante; ma dal momento che le piace stare qua e poi là e poi tornare qua per guardare di là, non sarà per nulla facile porle la domanda; ma potrebbe essere molto divertente e lo stesso Ganesha potrebbe decidere di darci una mano ad appenderla una volta per tutte al chiodo.

Molti dei concetti appresi negli anni dell’università sono tornati a me con maggior spessore e nuove aperture. Il corpo che diviene “unità di misura” (Protagora), punto di partenza per una consapevolezza superiore, per vivere meglio certo, ma soprattutto per imparare ad accedere al serbatoio di idee dell’umanità, preordinato per noi da saggi demiurghi, i 7 Rishi. E se il pensiero di Nietzsche annichilisce nell’attesa di un superuomo che non nasce, basta andare in India e scoprire che lì ancora oggi negli ashram si lavora per far nascere il “Divin Self”. E per questo lavoro nessuna Scienza, Arte o Tecnica tra le più esoteriche viene risparmiata.

Io non ho una grande esperienza di vita nell’ashram, solo un seminario intensivo di 12 giorni; sarò comunque lieta di raccontarvi la mia avventura all’interno di un Guru Kula. Il Guru Kula è la casa dove il Guru vive, a volte con tutta la sua famiglia. Per un allievo entrare in un Guru Kula significa entrare nel ventre del maestro e attendere per vivere un secondo parto. Anche qui è struggente il ricordo di Socrate.

Dibattito

Data: 25.06.2013

Autore: Tiziano Guerini

Oggetto: OCCIDENTE – ORIENTE (nord-sud)

Ritorno sulla semplificazione che ho proposto verbalmente durante gli ultimi incontri del Caffè Filosofico, proponendo l’argomento di quest’anno: Oltre l’Occidente?.

La semplificazione, col fine di indicare una (prima) ipotesi di confronto, consiste in due domande (antitetiche?): posta la crisi (in termini di autocontraddizione) del pensiero occidentale, possiamo sperare che la salvezza possa venire dalle culture “altre” (e specificatamente da quello che in senso non geografico chiamiamo l’oriente); oppure queste altre culture scontano e vivono un deficit teoretico che le rende inadeguate ad interloquire con la filosofia occidentale? (e di cui, di conseguenza, saranno inevitabilmente preda).

La domanda, posta in questi termini, è - e vuole essere - retorica: “la seconda che ho detto”!

La religiosità, il mito, il sentimento, ma anche l’agire, con le sue le convenzioni ed abitudini, sono certo aspetti fondamentali di ogni cultura; ma non possono che essere il risultato di un sostrato teoretico forte; altrimenti la forza dirompente della teoreticità (e, nella cultura occidentale, della scienza e della tecnica come suo risultato finale) non potrà che prevalere sulle debolezze concettuali, anche se, per tanti aspetti, affascinanti.

Ma, appunto, da dove viene il fascino di queste culture “altre”?

Perché se ne rilevassimo solo la debolezza teoretica, non ne subiremmo nessun fascino.

Il fatto è che stiamo rilevando anche, ed in misura sempre maggiore, le contraddizioni di fondo del pensiero occidentale (ed i riflessi spesso drammatici di vita vissuta che ne derivano): ci si limita, allora, ad immaginare, per così dire, di poter cambiare gli effetti (scienza e tecnica) senza mettere in discussione la causa (il sostrato teoretico).

Occorrerà, prima o poi, aver la forza, invece, di rimettere in discussione il sostrato teoretico della cultura occidentale (il cui fondamento è la concezione greca del “divenire”): ma non è questo ancora il tempo! Questo è il tempo della tecnica trionfante e della occidentalizzazione dell’Oriente: ed in modo radicale, come accade per tutti i neofiti.

Data: 25.06.2013

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: Yoga: per chi?

Ci penso e ci ripenso, ma c’è qualcosa che non riesco a capire. Premessa: chiedo scusa per la mia assoluta incapacità espressiva, ma se mi ci sono voluti cinquant’anni per incominciare a balbettare nel linguaggio della filosofia occidentale, non sarà certo la spiegazione di un’ora a familiarizzarmi con quello della filosofia orientale

Ciò posto, proprio non riesco a far quadrare un paio di cose, da affezionata figlia di Aristotele qual sono. Prima di tutto: come si fa a dire che lo yoga è una scelta di vita che non ha nulla a che fare con la religione, se almeno un paio d’ore al giorno vengono dedicate a pratiche religiose? Non vorrei sembrare irriverente, ma se non si tratta di religione, si tratta di superstizione, altrimenti non si spiegano tutti quei rituali così minuziosamente regolati e codificati, che ogni giorno devono essere eseguiti con cura paziente e attenta partecipazione.

Ma ancor meno riesco a sbrogliare un altro nodo che magari qualcuno mi può sciogliere gordianamente: abbiamo sentito dalla nostra graziosissima relatrice che nello yoga è presente un invito ad abbandonare la nostra soggettività per confluire in un flusso di vita cosmico che trascende la nostra misera e insignificante persona (senza ironia!), e ci rende partecipi di un più alto livello evolutivo… Benissimo, penso, allora lo yoga è una filosofia che tende alla mortificazione dell’individuo, esaltato a sproposito dall’Occidente. Ma no, poco dopo apprendo che quel salto non è per tutti, e che può capitare a qualcuno quando meno se lo aspetta, e che quando gli capita è un’esperienza ineffabile, estatica, mistica…ma allora non è comunicabile, e se non è comunicabile è la quintessenza del soggettivismo, l’aristocratica celebrazione della privatezza, l’ipertrofia dell’interiorità eretta a ideale, la presuntuosa restaurazione dell’egoismo di un’individualità decisa a negarci i propri segreti misterici…Evidentemente qualcosa mi sfugge, o qualcosa non viene svelato. Fatto sta che l’Oriente continua ad apparirmi enigmatico quanto e più di prima.

Mi piacerebbe che quel cenno buttato lì con nonchalance dal presidente del nostro Caffè filosofico potesse essere ripreso: intendo dire l’opportunità di occuparci non solo di Oriente e Occidente, ma anche di Nord e Sud. Trovo affascinante la contrapposizione che fa Morin (e che faceva Gadamer) fra un nord che ama autodefinirsi sviluppato e un sud che viene definito da altri sottosviluppato. Gadamer raccontava di essersi trasferito dal civilissimo nord a Napoli non solo per il clima, ma anche e soprattutto per sfuggire al silenzio delle città germaniche, e tuffarsi nel trambusto del Mediterraneo. Oggi Morin, che chiama il Mediterraneo la sua placenta, ci parla di un sud che è luogo mitico, non geografico, in un intrigante fritagnol (francese-italiano-spagnolo), e ce ne fa desiderare la bellezza, il rilassato ritmo di vita, la curiosità che si prende tempo, lo slowfood, e le pietre calde di sole. Sarebbe entusiasmante poter condividere queste emozioni con qualche relatore capace di evocarle anche per noi appassionati del caffè. Almeno in una simile occasione mi sembrerebbe di capirci qualcosa.

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