1)Jorge Luis Borges nella accolta di racconti "L'aleph", e in particolare nel primo racconto ("L'immortale") scrive dell'antiquario Joseph Cartaphilus, ovvero del legionario romano Marco Flaminio Rufo, ovvero di Omero, che per un certo periodo della propria vita aveva attraversato il fiume che dà l'immortalità, insieme ad altri. Costoro avevano progressivamente trasformato una città splendida in una città labirintica, salvo poi addirittura abbandonarla, poichè un mondo senza tempo è un mondo senza memoria e senza un futuro dotato di senso. Gli abitanti della città degli immortali avevano raggiunto la perfezione della tolleranza e quasi il disdegno. Per gli immortali tutti gli atti sono giusti, o meglio indifferenti. Neppure il destino personale interessa. Avendo raggiunto la quiete perfetta, hanno abbandonato anche la città, che qualche impegno richiedeva, per vivere nella valle circostante, riducendosi progressivamente a trogloditi, perdendo infine anche la parola. Speravano di trovare il fiume attraversando il quale avrebbero riacquistato la mortalità.
Ovvero: l'immortalità toglie senso alle azioni umane e toglie agli umani (dopo una iniziale euforia) la felicità. E' la morte che dà senso alla vita e alle azioni che vi si compiono (se vi fosse maggiore consapevolezza di ciò, le religioni, almeno quelle che promettono un "al di là", avrebbero meno fortuna).
2)E' pur vero che la scienza e la tecnica medica hanno per ora prodotto una vita individuale più estesa, ma, con riferimento all'estensione, non qualitativamente interessante. Se fossimo convinti che ad un miglioramento qualitativo non si arriverà, ci sarebbe effettivamente da chiedersi perchè non interrompere questa (spesso) indecorosa estensione. La storia però insegna che miglioramenti anche qualitativi ci sono stati ed è probabile, statisticamente, che altri ne verranno. Le attuali persone vecchie costituiscono, in qualche modo, delle cavie per la vita migliore dei vecchi futuri.
Piuttosto, i problemi che sorgono da un allungamento della vita non deficitaria (o moderatamente deficitaria) sono di tipo ecologico e sociologico. L'aumento della presenza umana sulla terra, quale effetto dell'allungamento della vita, dovrà essere bilanciato da una diminuzione della natalità.
L'invecchiamento della popolazione provocherà un cambiamento (almeno parziale) di "cultura" e di costumi. Quanto meno, un allungamento della vita lavorativa per non eccedere nella vita pensionata, un allungamento della vita sessualmente fertile (con quali conseguenze sull'equilibrio della convivenza di coppia?), ecc..
Sono temi su cui, nel mondo, molti hanno cominciato a riflettere.
SVILUPPI DELLA SCIENZA E DURATA DELLA VITA - RELATORE: SECONDO GIACOBBI. INTRODUCE PIERO CATTANEO
Secondo Giacobbi è psicoanalista; esercita la psicoterapia ed è docente alla scuola di Psicoterapia di Milano dell’Arpad-Minotauro e la scuola di Psicoterapia Psicoanalitica. E’ autore di diverse pubblicazioni fra cui “Vecchiaia e morte. Nella società fetalizzata – la psicoterapia dell’anziano” cui fa direttamente riferimento questo incontro del Caffè Filosofico.
Piero Cattaneo: insegnante e membro del Gruppo provinciale Soci di Banca Etica.
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Dibattito
Data: 15.12.2013
Oggetto: LA VITA IN QUALCHE MODO ALLUNGATA E LA MORTE
Data: 29.11.2013
Oggetto: Commenti
Caro Tiziano, caro Fiorenzo, vi ho letto solo ora. L'intervento di Tiziano è profondo e pregnante. Non c'è risposta possibile. Fiorenzo fa domande dirette. Sì, la lettura del libro cerca di rispondere ad alcune di esse. Cerca di leggerlo. " relazione positiva": certo, è possibile, ma io sono un clinico e mi occupo soprattutto del disagio e della sofferenza, cioè delle situazioni negative. Del resto la relazione positiva con il vecchio accudito può solo nascere, per essere autentica, dalla verità e la verità della relazione deve passare dal confronto più esplicito con la negatività. " il limite ": ma questo problema c'è sempre stato! Veniva risolto attraverso l'interazione tra il medico, la sua coscienza professionale, il rapporto con il paziente e con i suoi familiari. Nessuna legge può legiferare in questo ambito sostituendosi ai soggetti morali reali. " la coscienza ": la mia riflessione si basa su una idea forte di " coscienza morale ", certo un'idea non cattolica, che quindi salta la mediazione ecclesiastica o dello Stato. Quanto invece alla coscienza nel senso di essere autocoscienti, essa, per quanto importante, è ben lontana dall'esaurire la totalità della persona, della quale è un vertice altissimo ma anche intrisecamente menzognero.
Data: 27.11.2013
Oggetto: Parole per resistere
Dopo la serata al Caffé filosofico su "Sviluppi della scienza e durata della vita", con un efficace prof. Secondo Giacobbi, a richiedere - a tutto campo - verità nuda e cruda sull'esperienza della quarta età e della morte, vorrei sbilanciarmi anch'io.
Accetto la lezione di non scindere vita e morte e di non separare e poi cristallizzare astrattamente il valore della vita. Accetto uno per uno gli affondi, ma fatico a restare nell'orizzonte disegnato, per quanto brillante e ricco di un retrotrerra culturale e professionale invidiabile.
È certamente vero che:
- la forbice tra durata della vita e dell'autosufficienza va drammaticamente aprendosi;
- scienza e tecnica hanno preso il sopravvento sull'etica della scelta;
- il numero dei vecchi da assistere s'impenna e le forze familiari e sociali che devono attivarsi scemano e vanno in crisi tra sensi di colpa e rancori verso i propri cari da assistere;
- "sorella morte" è stata sequestrata dal network tecnico-sanitario-burocratico.
Incontro però delle difficoltà.
1. Fatico a scorgere un vero cambio d'impostazione di fondo tra Pio XII (Secondo citava: Pio XII, Problemi religiosi e morali della rianimazione, ai membri dell’Istituto Italiano di Genetica “Gregorio Mendel” sulla rianimazione e respirazione artificiale, 24 novembre 1957, in B. Häring, op. Cit., p. 232) e il tandem papa Woityla-Ratzinger; si vedano infatti i numeri 1034-1035 del catechismo degli adulti della Cei. Certo, aver dichiarato moralmente obbligatoria l'idratazione e l'alimentazione artificiale, ha radicalizzato lo scontro culturale. Non che da altre parti non si sia cercato di alzare il tiro! Se capisco bene, comunque, non è in gioco un nodo di principio, caso mai un problema di valutazione dei mezzi e dei contesti in cui essi sono esercitati.
2. Personalmente, se dovessi aprire l'orizzonte complessivo di questo discorrere, non esplorerei tanto nella direzione di rintracciare una volontà di dominio, una sorta di progetto tecnocratico e in Italia anche teocratico-cattolico, sulle società avanzate. Ripiegherei più su un clinale antropologico, segnato da un contesto di secolarizzazione ormai a regime, in cui la cultura diffusa non ha integrato ciò che veniva meno in termini di
• cura della propria dimensione spirituale (nel senso non confessionale), che è anche un affinamento dello sguardo, che non è un‘opera che si fa a tavolino e a buon mercato, che proprio nelle prove della vita può emergere compiutamente e che, infine, in questo suo carattere diveniente, finisce per strutturarci in una dimensione di attesa, apertura al futuro, a un oltre;
• elaborazione della propria non autosufficienza (soffocata dalla cultura del fai da te, i manuali per ..., il mito del self-made man…), soprattutto rispetto al continuo, progressivo e necessario dover riconoscere/riprodurre il senso della vita come della morte ...; sospetto che tale azione passi attraverso una narrazione collettiva, popolare, larga, che non ammetta scorciatoie, mentre la nostra società migra per altri sentieri più individualistici;
• se è vero il secondo punto, allora peserà assai il calare di relazioni forti-significative (altro rispetto alla crescita esponenziale del numero dei contatti interpersonali), tra l'altro a braccetto con l'indebolirsi di contesti collettivi-comunitari, primo tra tutti la famiglia, quella stanziale, stabile, solidale, pur con tutte le cose che non funzionavano (non credo mai molto ai bei tempi andati! né alla loro meccanica riproposizione).
3. Infine mi chiedo se sarà poi vero che il criterio per cui vale una vita sia quello dell'efficienza-autosufficienza, se davvero quando si chiude un progetto di vita autonomo non possa aprirsi dell'altro. Non è possibile che richieste d'aiuto imbarazzante, quali essere cambiati, lavati, nutriti, non sia per chi ne ha bisogno una scoperta d'amore magari mai avuta in sorte prima e per chi questo amore lo dà non sia la chiamata oltre il proprio progetto, carriera, sviluppo identitario, a trovare in sè sentimenti di pietà, tenerezza, riconoscenza, che riconciliano anzitutto con la vita e diffondono semi di civiltà? Se siamo onesti la vita, per fortuna, è sorprendente e imprevedibile, non solamente nel male ma anche nel bene.
Come mai osanniamo asticelle professionali alte, da master all'estero e ci accontentiamo di asticelle basse in fatto di richiesta di gratuità, di dono senza contraccambio?
4. Adagio a dire meglio farla finita, frase che pure a un certo punto va pronunciata; mi inquieta più il "non vedere oltre" dell'incredulo, dell'indifferente, dell'immemore, il quale io posso incrociare come collega, medico specialista, familiare o infermiere al mio fianco o anche come occasionale conoscente, che non una malattia o un'infermità anche seria, però vissuta dentro condizioni possibili.
La vera scommessa è lo sguardo sulla vita,la sfida decisiva, sono le parole per resistere alla rassegnazione, sia in termini generali, sia e in modo più emblematico, rispetto alla tentazione di rinunciare a vivere l'ultimo chilometro, o nell'immaginario dei rocciatori, il passaggio chiave, quello più vertigionoso, che poi è anche quello che apre ad orizzonti più vasti, alla ricompensa più intensa, il rifiuto scandaloso è, infine (e forse sbaglio e sono pronto a recedere, se me ne si dà motivo), quello del primato della coscienza, se essa la intendiamo avulsa da un contesto di relazioni vitali (fische, affettive, intellettuali, artistiche e spirituali).
Questa non è poesia se si danno le garanzie che ogni coscienza sia rispettata. Ora, si potrà scrivere una legge sul fine vita che salvaguardi questo delicato equilibrio, o è meglio fermarsi a fissare i doveri dei vari attori e poi lasciare che essi liberamente trovino una sintesi? So di non saper rispondere.
Data: 22.11.2013
Oggetto: DOPO (OLTRE) GIACOBBI: il tema del “fine vita” e altro
“Il tempo è il “divenire” stesso in quanto numerato secondo il prima e il poi” (Aristotele, libro IV della Fisica). E il “divenire” è il grembo originario da cui è scaturita ogni scienza, capace di realizzare la nascita e la morte (creazione e annientamento) delle cose, di ogni cosa.
Questo, all’incirca, mi veniva in mente ascoltando le argomentazioni (interessanti e intelligenti) di Secondo Giacobbi sul tema “Sviluppi della scienza e durata della vita” nell’ultimo incontro del caffè filosofico (11 novembre 2013)
. Cosa significa? Significa che ogni argomentazione sia etica sia scientifica (e così dicasi di ogni altra argomentazione) si basa su un “dato di fatto” che è il fondamento del pensiero comune dell’occidente: che tutto “diviene” correndo verso il nulla. Il progresso scientifico consiste nella fede nell’annientamento delle cose e dell’uomo fra di esse, per far posto, sempre daccapo, a nuove cose e a un nuovo uomo: nessun punto fermo, nessun assoluto che non sia appunto il continuo “divenire”. Il dato ultimo sarà l’assoluta precarietà.
Di conseguenza, non è affatto contraddittorio, ma al contrario è “provvisoriamente” coerente, che - a fronte di questo dato di fondo - il progetto della modernità scientifico-tecnologica sia quello di allontanare il più possibile e il più in fretta possibile quanto si ritiene negativo, e al contrario di mantenere il più possibile e il più a lungo possibile quanto invece si ritiene positivo: la vita dell’uomo, la nostra vita, anzitutto. Oggi, con la tecnologia in campo, assieme alle molte cose che appaiono positive, emerge sempre di più la figura inquietante dell’ uomo-macchina, del pericolo della “schiavitù” ad opera della strumentazione tecnologica della quale non riusciamo più a fare a meno, e che progressivamente, si dice, disumanizzi. Ma questo è anche il tempo in cui si crede che quanto di negativo appare della scienza, lo sia provvisoriamente, e che presto un “di più” scientifico lo risolverà: se la tecnologia inquina (qualsiasi cosa si intenda con questa espressione) la stessa tecnologia disinquinerà! Se “le macchine” oggi prolungano la vita senza qualità – questo il punto rispetto al tema del fine-vita – ben presto, si dice, “le macchine” sapranno aggiungervi non solo durata ma anche qualità. La realtà che si presenta realisticamente, però, è ben diversa: per l’impossibilità (costi familiari e sociali, carenza di posti letto, disperazione dei “parenti”…) di gestire praticamente quanto teoricamente la scienza pur offrirebbe, sarà la stessa tecnologia ad incaricarsi di porre termine al processo indefinito della sopravvivenza. Con il cinismo con cui si esprimono le cose ineluttabili questo si chiama: “staccare la spina”. Siamo al cuore del problema dal punto di vista filosofico, perché la filosofia – e la vita – procede manifestando le contraddizioni: la tecnologia ti dà, la stessa tecnologia necessariamente ti toglie.
Così stiamo andando verso una società non più guidata dall’etica (i valori inalienabili), ma “verso la forma più moderna e potente della volontà di sopravvivenza, che si configura come organizzazione sociale guidata dalla ragione scientifica e tecnologica che quel che crea poi distrugge”. E’ la scienza e la tecnologia che dice, e dirà sempre di più, fin dove sa spingersi, fino a che punto può (gradualmente, certo, e progressivamente) spingersi, nell’affermare se stessa, con l’uomo dapprima complice e poi sempre più oggetto della sua potente costrizione. La forza della strumentazione tecnologica prenderà sempre di più il posto della debolezza pietosa dell’uomo: l’uomo-macchina è in parte già il presente ma rappresenta sopratutto il futuro prossimo che attende l’umanità. La strumentazione tecnologica che oggi a noi pare saper tener in vita l’uomo oltre ogni ragionevolezza, dovrà essa stessa rendere ragione della impossibilità della sopravvivenza estrema: ci si affida, disperando, alle stesse radici della disperazione. Nel frattempo questo è il tempo della battaglia di retroguardia del “buon senso” e della “buona fede” (di cui sono piene le fosse): salvare il salvabile.
A questo punto ha un senso affermare che è proprio quel dato iniziale – il divenire – che risulterà nella sua limpida assurdità?
Data: 19.11.2013
Oggetto: Intervento
Carissimi,
non sono iscritto alla vostra newsletter e vi chiedo di poterla ricevere. Nel contempo vorrei intervenire a proposito delle tematiche sollevate da Secondo Giacobbi nell’interessante incontro che ha tenuto. In realtà vorrei fare una semplice domanda.
Premetto che non ho ancora letto il libro, ed è quindi possibile che la risposta stia già nelle pagine scritte.
La domanda è semplice, banale forse, ed è questa: che cosa intende Secondo per accettazione (della Natura, o del naturale esito del tempo che passa, in definitiva della morte), posto che mi rifiuto di pensare che Secondo intenda contestare i progressi della medicina e di tutto ciò, comfort compresi, che, con tutte le criticità derivanti dall’abuso, ha contribuito a rendere la vita media più lunga e di qualità più elevata. Non c’è dubbio, infatti, che l’intervento sulla spina bifida permette oggi di sopravvivere, ma a un prezzo molto alto per una qualità di vita piuttosto bassa. Ma è altrettanto indubbio che senza “disastri” la medicina non avrebbe progredito: qualche decennio fa come vivevano coloro cui veniva applicata una protesi del ginocchio? Oggi, invece, possono diventare atleti. O ancora pensiamo alla cardiochirurgia o alle terapie contro i tumori, sempre meno devastanti e più efficaci.
In altre parole vorrei sapere qual è il limite: il limite oltre il quale l’appropriatezza delle cure diventa accanimento terapeutico; se si tratta di un limite etico, o morale, oppure di un limite economico, sapendo che negli ospedali (anche italiani, non solo inglesi) determinate terapie molto costose frequentemente non vengono praticate su pazienti molto anziani (all’italiana: si fa, ma non si dice). Il limite oltrepassando il quale l’anziano (o il disabile? O il malato?) da persona regredisce a “feto”, secondo l’efficace e terribile immagine di Secondo, e con ciò espropriato di ogni potestà su se stesso.
E’ la capacità di relazione positiva? Ma molti studi, e soprattutto molti parenti, affermano che anche malati al peggiore stadio di demenza senile, o di Alzheimer, mantengono modalità comunicative che, diventando diverse, devono solo essere comprese, e quindi capacità di relazione.
E’ la coscienza? Ma quando possiamo essere certi che la coscienza sia completamente e definitivamente spenta in un individuo?
Infine: il limite deve essere inteso unicamente come individuale e personale, o tutt’al più mediato dalla cultura della comunità? ma in una società globalizzata quale cultura? La prevalente? E non è un’imposizione intollerabile se è vero che il grado di civiltà si giudica dalla tutela delle minoranze? O invece è opportuno, o giusto, che i limiti - minimi, o massimi - di tutto ciò vengano in qualche modo istituzionalizzati attraverso norme generali?
Il corollario delle diverse opzioni è evidente: il limite definito unicamente dall’individuo comporta la piena libertà di scelta individuale, anche estrema, in contrasto con la cultura cattolica (che permea anche la cultura giuridica) che ritiene la vita un bene indisponibile. Il limite definito per legge, al contrario, riduce la libertà di ciascuno.
Non ho risposte, naturalmente. Ma, come ho detto a Secondo, non so se mi basta la rivendicazione della libertà personale di definire il proprio limite. Anche se ci ho pensato e, oggi, ritengo che il limite invalicabile, per quanto mi riguarda, sia nella capacità di relazione positiva e cosciente. Anche se ancora non riesco a non avere paura della morte. Ma questo è un altro discorso.
Data: 18.11.2013
Oggetto: Oggi è un buon giorno per morire, dicevano i vecchi della grande cultura Lacota ( "Nazione" dei Sioux)
Ho valutato appieno le considerazioni di Luca e Gabriele. Non ci credo quasi, ma ancora aleggia il tema religione sì - religione no. Per Luca: la scommessa di Pascal è un esempio eclatante di illogico: ma che c'entra l'esistenza di Dio (e lo scrivo ben maiuscolo con sommo rispetto) con la sopravvivenza (e aggiungo non solo umana) dell'individualità? Se si rinasce inoltre non aggiunge e non toglie alla dignità della postvivenza terrena forzata.
Per Gabriele nulla di specifico, salvo quanto in premesse.
Il problema sarebbe semplice se ci fosse una sola soluzione, e non mille e variegate. Si tratta di spostare l'asticella valutativa, non di stabilire dei requisiti di accreditamento al diritto di sopravvivenza, come si trattasse di un prodotto da banco, senza influenze estranee alla nostra coscienza di rispetto biologico e civico e affettivo (in ordine di priorità).
Credetemi, sto vivendo in questi mesi, anzi in queste ore in modo più acuto, un dilemma etico molto personale: mia madre. E non mi sentirei di augurarmi/le un attaccamento sopravvivenzialistico che snaturi quanto di bello il tempo del suo apice culturale e affettivo ha dato ai figli e al mondo. E non parlo di una persona allettata o in coma, ma di qualcuno che nega nei fatti l'impronta di sé che ha dato. La soluzione? Nessuno più di me e mio fratello, due medici, la può trovare senza sentire la colpa di poter cancellare un vissuto comune, ma se la società cambierà il suo atteggiamento, se cadranno le censure, allora potremmo riparlarne senza condizionamenti. Esempio pratico, e ce lo siamo detto fra fratelli: ma perché abbiamo proprio dovuto salvarla la seconda volta che è andata dolcemente in coma? Siamo dei tecnici, e con risorse "avvantaggiate", ammettiamolo pure, siamo riusciti a farlo, e ora vive ancora da sola, si prepara da mangiare dopo aver fatto la spesa, ma l'essenza della persona, il rispetto del mondo? Ma che cattiveria, detto alla Giacobbi! Eppure dopo il salvataggio l'abbiamo 'fatta proprio alla Giacobbi', rispettando la sua volontà di autonomia fino in fondo. Ma abbiamo forzato un meccanismo che la natura aveva predisposto ben due volte, con l'atteggiamento guerriero del medico, non con quello del figlio amoroso.
Data: 17.11.2013
Oggetto: Una volta si risorgeva!
Una volta si risorgeva, e oggi? Parto volutamente con una provocazione all’inizio di queste mie riflessioni che prendono spunto dall’incontro tenuto presso il Caffè Filosofico con il dott. Secondo Giacobbi sul tema “invecchiamento e morte” nella nostra società. Il tema non è dei più scontati, perché come ha messo in luce l’illustre psicoterapeuta, mentre la vita continua, quasi inesorabilmente, ad allungarsi non si può altrettanto dire della qualità della salute degli ultimi decenni di vita di ogni singolo individuo. Non ho intenzione di fare in questa sede un’analisi medico-scientifica dello stato di salute del paziente medio, né tanto meno fare una previsione economico-sociale delle “cause” che il fenomeno “invecchiamento longevo” provocherà. L’aspetto sul quale mi voglio soffermare è una “componente” molto importante della vita di ogni individuo, un appuntamento al quale nessuno manca, ma un tema di cui non si parla più: la morte.
Nella nostra società secolarizzata ed in piena crisi dei tradizionali valori (non solo religiosi), il tema della fine dei giorni, della morte, è diventato un tabù. Nessuno ne parla più, anche se sulla scia del mondo anglosassone ne celebriamo la festa il 31 ottobre. La morte non è più la nostra sorella morte corporale, che con noi cammina per tutta la lunghezza della nostra vita. La morte è divenuta uno spettro dal quale scappare, un ospite indesiderato anche quando le forze ci abbandonano, un nemico da combattere con tutti i mezzi che la scienza offre. Sembra che con la morte tutto si concluda. Essa si pone come l’ostacolo alla realizzazione dell’unica “vera” eternità possibile: il godere dei beni terreni in eterno. La scommessa di Pascal, circa l’esistenza di Dio e la vita dopo la morte, sembra non interessare più nessuno. A mio avviso, ciò è causato per l’appunto, da una mancanza dei valori, o meglio di un’assenza (o quasi) di trasmissione di ciò che per secoli hanno costituito il retroterra esistenziale di ogni individuo. Anche per l’ateo, di ogni epoca, la morte costituiva un appuntamento fisso, e pur non esistendo un futuro dopo la morte, un paradiso o un inferno nel quale continuare a vivere, essa costituiva un traguardo non da combattere, ma da accettare “serenamente”. L’ateo, il materialista, poneva l’accento sulla vita dell’oggi, sul godere appieno dei doni che la natura ci offriva e dei piaceri che l’uomo creava fino a quando le forze e il respiro vitale l’avessero concesso. Per il credente (di ogni fede, ma in particolare per il Cristiano) la morte costituiva sì un appuntamento fisso, ma solamente un passaggio. Infatti, se la vita era una preparazione spirituale al regno dei cieli, la morte era una rinascita in un mondo dove avremmo trovato, in base al nostro vissuto, la gioia eterna o la nostra dannazione eterna.
Volutamente ho usato il tempo passato per parlare della concezione della morte in abito cristiano-cattolico, perché il tema della morte sembra sia sparito dalle prediche di molti sacerdoti (soprattutto giovani). In chiesa non si sente più parlare della morte. Ai bambini non si insegna più che la morte costituisce l’ultimo appuntamento del nostro esistere in questo mondo. Qualora lo si fa, lo si accenna leggermente, paragonando (giustamente) la nostra esistenza a quella di Cristo. Concordo col prof. Carelli quando afferma che il volume del dott. Giacobbi (e direi anche la serata del Caffè filosofico) costituisce una sfida alla Chiesa. La Chiesa (soprattutto quella costituita dai sacerdoti post-conciliari e “novelli”) dovrebbe riscoprire il tema della morte, nel senso che dovrebbe ritrovare il suo compito antico di spiegare la morte, di preparare le persone anziane e no alla morte. La morte è del resto per chi crede (e io sono fra quelli), solamente un attimo di “vita” prima della nostra rinascita. Le Chiese sorelle protestanti ed anglicane, in questo senso non si sono mai dimenticate di preparare l’uomo a questo evento. Sulla base delle parole paoline “ho combattuto la buona battaglia (…) ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore mi concederà”, la Chiesa Cattolica dovrebbe riscoprire nel suo annuncio quotidiano del Signore Risorto, che la morte è nostra sorella, non nostra nemica da combattere. Ciò che dobbiamo combattere, è il male che si nasconde nella morte, ovvero la dannazione eterna alla quale siamo consegnati perché il nostro agire è andato contro il nostro prossimo e contro Dio. Sono ben consapevole di fare un discorso di parte, ma la regola aurea, è valida sia per chi crede sia per chi non crede. Tutta l’umanità è chiamata a vivere in armonia e in amore. Ciò che si pone dopo la morte, la vita eterna o il semplice ritorno alla terra in polvere, riguarda la coscienza di ognuno di noi.
Le istituzioni tutte, scuola compresa, e soprattutto la famiglia devono parlare della morte ai propri figli. Trovando le modalità appropriate in base all’età, devono saper affrontare un tema tanto delicato. Devono formare adulti consapevoli che la vita dell’oggi non è eterna e che prolungare inutilmente le sofferenze del morente, per aggiungere qualche giorno o qualche mese in più non ha senso. A questo proposito ripropongo un passo del libro di Giacobbi che lo stesso autore ha letto: “(…) ogni giorno aumenta il numero delle voci che affermano che in molti casi è immorale prolungare artificiosamente la vita, quando nella situazione concreta questo significhi soltanto prolungare la sofferenza, l’agonia, l’atto di morte. Già anni fa Pio XII si pronunciava a favore di quelle famiglie che spingevano il medico curante a “togliere i respiratori al paziente virtualmente morto, per permettergli di morire in pace”. La morte non va temuta, ciò che bisogna temere è di morire senza dignità, di prolungare inutilmente le nostre sofferenze e il tempo che ci separa dal distacco da questo mondo. Le parole di Pio XII, papa per molti aspetti controverso, devono farci riflettere sul morire serenamente in pace.
Una volta si risorgeva e oggi pure, ciò che non si fa più è parlare della morte e soprattutto preparare alla morte, appuntamento comune a tutti. Credente o non-credente, ogni persona deve affrontare questo tema e prepararsi (e preparare i propri figli) secondo la propria coscienza, così da non aver più paura della morte e chiamarla nuovamente sorella morte corporale.
Data: 17.11.2013
Oggetto: Spiritualismo?
Riprendo quanto ho avuto la possibilità di accennare durante il dibattito seguito all'interessante relazione di Secondo Giacobbi (coadiuvato da Piero Cattaneo) al Caffè Filosofico la sera dell'11 novembre.
I contenuti fondamentali sono in buona parte noti anche a chi non ha letto il suo libro. Le premesse attorno alle quali le posizioni rilevanti si articolano sono dati di fatto (allungamento della durata della vita, prolungamenti artificiali delle condizioni di sussistenza, costi sociali ed economici, implicazioni psicologiche, ecc.). Ciò che l'autore ha omesso di esplicitare - forse a proposito, per alimentare il dibattito - sono le conclusioni. Quali decisioni, chiedo io? Giacobbi si limita a esporre una ragionevole critica all'accanimento terapeutico, ma se le cose si esaurissero qui non ci sarebbe molto di cui discutere. La sua reale, impegnativa posizione si intuisce aggregando sue proposizioni sparse, proferite con buona dose di enfasi - non sono cattolico, non sono credente in alcun Dio "istituzionale", ma ritengo la Natura in evoluzione secondo leggi immanenti pressoché assimilabile alla Divinità. Se Essa ha sancito, evoluzionismo alla mano, che il vecchio (non "anziano", si badi) non deve protrarre la propria esistenza biologica oltre un certo limite, se lo "aiutiamo" noi a vivere oltre il termine che la Natura gli ha già prescritto, andiamo al limite del blasfemo. Per le stesse ragioni, salvare e curare a lungo termine quell'«esserino» - parole di Giacobbi - nato con la spina bifida è una aberrazione delle leggi di Natura, e un atto di crudeltà. Alla mia osservazione che tutto ciò ricorda il vitalismo di Nietzsche, Giacobbi oppone per l'appunto la rivendicazione del Deus sive Natura, salvo tradirsi con alcune locuzioni sparse. Abbiamo udito nominare la parola potenza; l'insistenza "al di là del bene e del male" sulla presunta necessità di disfarsi una volta per tutte dai buonismi (quelli che ci impediscono di dire che i vecchi costano un sacco di soldi e ci impediscono di goderci la vita); anche una parola che assomigliava moltissimo a superuomo (forse qualcuno fra i presenti ricorderà il termine esatto). Giacobbi nega qualunque prestito nietzschiano, ma, filosoficamente parlando, continuo a intravedere maggiori elementi di contiguità con la trasvalutazione assiologica del filosofo tedesco, piuttosto che col panteismo spinoziano (tra Spinoza e Nietzsche si potrebbero rintracciare interessanti paralleli per essere entrambi filosofi "dinamitardi", ma non sui piani in discussione qui, mi pare). Quella di Giacobbi è a pieno titolo una proposta di smascheramento delle presunte ipocrisie, la rimozione di tutte quelle inibizioni che ci porterebbero, per retaggio culturale divenuto abito mentale inconscio, a ritenere la vita come Bene indisponibile in virtù di dimensioni metafisiche "Altre". Proprio quelle dimensioni che Nietzsche ritiene di aver smascherato, quel mondo Vero divenuto favola. A restare è l'esaltazione della vita, ma ridotta a ciò che essa è, cioè puro precipitato biologico di una volontà di potenza, che in quanto tale aborrisce il malato, il decadente, l'infermo, il deforme. Accanirsi terapeuticamente su un vecchio decrepito depresso, in nome di un presunto "valore intrinseco", metafisico e assoluto, della vita umana è appunto esempio perfetto di quel putrefatto mondo "Vero" oltrepassato dal superuomo. Allo stesso modo, nel riflettere sull'esempio portato da Giacobbi circa il neonato malato non posso non pensare all'«annientamento dei malriusciti» di Nietzsche - locuzioni che si possono rintracciare nel filosofo con frequenza e chiarezza tali da lasciare l'onere della prova alle interpretazioni allegoriche e assolutorie. Le differenze sono a mio avviso non decisive. La prima è costituita dalla decisione di assecondare la "Divinità Natura", che farebbe di Giacobbi uno spiritualista (etichetta che si potrebbe appiccicare allo stesso Nietzsche, che da questa prospettiva non avrebbe troppe difficoltà ad assegnare alla natura simile funzione principe, memore della lezione fondamentale di Schopenhauer); la seconda differenza è l'assenza in Nietzsche di considerazioni di "crudeltà", per estrema e titanica coerenza con la propria dottrina.
Il mio passo successivo è quello di dichiarare, senza troppi giri di parole, che la dignità di una persona non dipende dal suo stato di salute, e se si vuole ritenere questa posizione come "ideologica" - accusa mossa sostanzialmente alla Chiesa Cattolica e in parte all'ingombrante e narcisistico potere dei medici - l'accusa si può facilmente ritorcere contro. Divinizzare la natura non è meno metafisico che professare una fede in un Dio trascendente, ma le implicazioni che Giacobbi vuole trarne mi paiono discutibili e altrettanto ideologiche, nonostante l'aura di scientificità darwinista.
Data: 17.11.2013
Oggetto: R: Spiritualismo?
Caro Lunardi, ideologico io, ideologico lei, con una differenza però: che io per mettere in discussione la mia ideologia devo " solo " mettere in discussione me stesso; lei, oltre a se stesso, deve mettere in discussione il Magistero della Chiesa, cosa molto più difficile per un fedele osservante e obbediente. Comunque la sua lettera meriterebbe riflessione e ulteriore discussione. Spero di farlo. Giacobbi
Data: 17.11.2013
Oggetto: Domande angoscianti
Una dinamite: così, rubando l’immagine a un filosofo, mi viene spontaneo definire il tuo ultimo libro.
Una disamina impietosa della ideologia dominante diventata oggi senso comune.
Una battaglia culturale – lancia in resta – contro la santa alleanza tra Chiesa cattolica e scienza medica.
Sei tu stesso che, di fronte alla “gravità del tema” poni con forza l’esigenza di uscire allo scoperto compiendo “uno sforzo di coraggiosa chiarezza”. E, in effetti, il coraggio non ti manca.
Il coraggio di sferzare una Chiesa che dimostra una “venerazione assolutizzante nei confronti del corpo del malato terminale e del vecchio ormai ineluttabilmente votato al morire”.
Una venerazione che giunge a sacralizzare la vita “come valore in sé e cioè come affermazione della vita nella sua espressione immediata e biologica, indipendentemente dalle condizioni soggettive, di valore, consapevolezza, volontà e intenzionalità dell’individuo in cui essa vita si esprime”.
Una sacralizzazione (tra l’altro, in netta contraddizione con la predicata “speranza di resurrezione”) di carattere squisitamente ideologico perché la vita, in quanto valore, ha a che vedere soltanto con “quella vita”, con “quella persona”, con “quella situazione concreta, di vita e di malattia”.
Strali velenosi, i tuoi, contro una istituzione che “dopo aver ormai rinunciato a controllare le coscienze” sul terreno della sessualità, affida “il suo disegno di egemonia sociale al controllo del corpo malato e morente”.
E strali velenosi scagli anche contro “l’onnipotente ideologia medico-tecnologica” che “impone l’alimentazione forzata del vegliardo allettato e inconsapevole”, che considera la morte come “una ferita narcisistica intollerabile”, che riduce gli anziani in questione ad esseri umani “fetalizzati”, del tutto spogli della loro soggettività, retrocedendogli allo status di neo-nati.
Il tuo libro (Secondo Giacobbi, Vecchiaia e morte nella società fetalizzata, Mimesis, Milano-Udine, 2013) è indubbiamente più complesso, ma la sua anima credo sia questa: uno j’accuse contro il “Principio di quantità” secondo cui “il prolungamento della vita è un valore ‘di per sé’”.
Un Principio che rende l’invecchiare e il morire sempre meno umani e che fa delle persone delle vere e proprie larve di uomini.
Un Principio che fa delle stesse gerarchie cattoliche delle vittime “dello strapotere scientifico”, vittime che sotto la bandiera della difesa della vita, di fatto “santificano solo la tecnica”.
Una pars destruens, la tua, di inusuale violenza verbale. Ma… che fare operativamente? Che fare contro quella che tu chiami “guerra al morire”?
Io mi limito a porti delle domande.
La via maestra, seguita da diversi Paesi, è quella di consentire al singolo soggetto di stilare il cosiddetto testamento biologico (o living will), una via intrapresa a lungo anche dal parlamento italiano, ma senza mai giungere a una intesa.
È il caso di ripercorrerla? Se sì, quali i “paletti” da prendere in considerazione (le condizioni di vita non degna di essere vissuta)? Solo lo stato vegetativo permanente o anche la fase terminale dell’Alzheimer o altro ancora? Io sono da sempre un convinto sostenitore del testamento biologico, ma un dubbio talvolta mi assale: non ci troviamo di fronte a un “pendio scivoloso”?
Che fare, poi, dei tanti anziani non autosufficienti, allettati cronici, talvolta bisognosi del supporto delle macchine, ma sostanzialmente lucidi di mente? Sarebbe del tutto folle accompagnarli alla morte (e come? con una iniezione letale?), tanto più che – tu stesso lo dici – sono loro, pur in condizioni difficili, ad essere attaccati alla vita.
Il problema che tu, Secondo, poni è sicuramente drammatico, ma è tutt’altro che agevole da risolvere. I costi sociali e psicologici – come tu sottolinei – sono enormi, ma chi si assumerebbe la responsabilità morale di togliere la vita a qualcuno contro la sua volontà in nome della “qualità” dell’invecchiare e del morire?
Chi, infine, si assumerebbe la responsabilità di “uccidere per amore” chi, attaccato alle macchine, decide con mente lucida di morire?
La dinamite l’hai fatta esplodere. Ora il nostro compito collettivo è quello di “costruire”. Ed è un compito immane.
Data: 17.11.2013
Oggetto: R: Domande angoscianti
Caro Piero, ti chiedi " che fare dei tanti anziani allettati cronici ecc.". No, " accompagnarli alla morte ( come? con una iniezione letale?)" è improponibile. Ma da qui ad una pratica di accanimento terapeutico, che li farà sopravvivere per anni, molto ci corre. Intanto cominciamo a non imporre, paziente consenziente o meno, l'alimentazione forzata che, secondo il magistero del gelido Benedetto XVI, sarebbe d'obbligo per il medico. Ricordate quanto disse al riguardo, a suo tempo, Pio XII!
Data: 17.11.2013
Oggetto: Considerazioni
11.11.2013. Una delle serate più intense del caffè filosofico di Crema. L'argomento è forse il cardine del pensiero speculativo: vita-morte-area grigia intermedia. Il Relatore lo snocciola"a piena voce", è il caso di dirlo, visto che rifiuta il mezzo tecnologico dell'amplificazione, ma ha tale condiscendenza infine da cedere alle richieste dell'uditorio, e accetta il deprecato "gelato".
Nitida l'esposizione del proprio pensiero in termini di accessibilità e risposte aderenti al senso della richiesta di chiarimento. Entrando nel merito delle idee di Giacobbi, nonostante l'empatia in generale, rilevo due tratti su cui dissento: 1 La sfiducia nella nuova generazione. Non sono in assoluto migliori, come affermato dal Maestro- tecnico musicista… mi scuso per non aver memorizzato- No, diversamente migliori, salvo quelli persi che speriamo di recuperare. Sappiamo bene che l'ottica evoluzionistica classica del caso-necessità, o genoma-eredità, è una visione superata dagli studi, che l'apprendimento generazionale si trasmette come tale, sia quello somatico che attitudinale, e questa è per la specie una risorsa nuova! Giacobbi stesso afferma che il cervello si sta modificando, provato dagli studi RMN funzionale, e come sarebbe possibile altrimenti? 2 La negazione di un futuro per l'umanità, salvo un miracolo (vi è sfuggito?). Lo studio dei sistemi a alta energia dispersiva dimostra che quando il flusso accelera nasce una scissione con la creazione di una soluzione vincente, assolutamente imprevedibile, che "liquida" la predente dinamica. Nel pessimismo generale, più che giustificato se guardiamo allo stato dei fatti con un'ottica tradizionalistica, non è quanto stiamo vivendo?
Un terzo rilievo: aleggia sempre la dicotomia laico-religiosa. Ancora? Ma il defunto Cardinal Martini e il suo interlocutore eccellente, Giulio Giorello, e così il Superman della fede attuale, Papa Francesco, non vi hanno ancora fatto capire che esiste una sola distinzione: obbedienti supini-indifferenti o uomini riflessivi? E tanti come Giacobbi, che si definiscono religioso-spiritualisti (parole sue), come il caro vecchio zio Albert (Einstein), tanto per trovare un esempio illustre nella passata generazione, non sono proprio riusciti a lasciare il proprio esempio, se non vogliamo chiamarlo credo?
Vita e morte, degrado senile, spesso casualità di una condizione subita anche nell'ora estrema della vita, sono problemi reali, ma è la cultura di quanto prima accade, nella vita attiva, nel senso delle cose che si trasmette con il latte materno (certo, anche quello in polvere) nel significato stesso delle parole vita è morte, che si ritrova nell'atto finale quanto seminato, nella coscienza della ineluttabilità dell'evento e senso dell'investimento fatto, individualmente e come cultura.
Data: 17.11.2013
Oggetto: R: Considerazioni
Caro Tango, fai bene a spezzare una lancia a favore dei nostri poveri giovani. Sono prima di tutto delle vittime, schiacciati e soffocati sul nascere da un sistema di sfruttamento, che da quasi 20 anni li umilia e li spinge a disperare.
Certo che ci può essere comunque un futuro per l'umanità, ma quale futuro?E per quale uomo? Sta nascendo, lo ripeto, un uomo nuovo, con cui personalmente non vorrei avere niente a che fare: protesi di macchine, lui stesso sempre più macchina, con una mente sempre più reattiva, veloce e superficiale, sempre più incapace di pensiero critico e autoriflessivo. Un uomo-termite in termitai sempre più grandi.